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Si spara nel «cortile di casa» italiano. A Tripoli le bande rivali si contendono i soldi che Roma e Bruxelles investono per tenere lontani i migranti.
Il generale Haftar muove i suoi cannoni dalla Cirenaica. Il governo difende il memorandum con la Libia ma pensa di rimpatriare i connazionali

Libia Oggi, proprio come ieri, è anche a Bengasi che bisogna guardare per comprendere la Libia contemporanea

Veicoli blindati libici pattugliano la zona dopo gli scontri tra milizie pesantemente armate a Tripoli, Libia, mercoledì 14 maggio 2025. (AP) Veicoli blindati libici pattugliano la zona dopo gli scontri tra milizie pesantemente armate a Tripoli, Libia, mercoledì 14 maggio 2025 – AP

«Erano anni che a Tripoli non si sparava così».

È con queste poche parole che, al telefono con il manifesto, Samir descrive il sollievo provato ieri dopo l’annuncio del governo di Tripoli del cessate il fuoco. Gli scontri più duri sono esplosi nella tarda serata di lunedì, dopo la morte di Abdel Ghani al-Kikli, detto Gheniwa, capo di una milizia di Tripoli nata come scorta armata per i funzionari del governo riconosciuto dall’Onu, poi divenuta un potentissimo gruppo armato che faceva il bello e il cattivo tempo nel quartiere di Abu Salim. Un potere mafioso, e pesantemente armato, che – come ogni potere mafioso – combatte fino alla morte per il controllo del territorio e dei traffici che vi si svolgono.

Martedì mattina, il governo di Tripoli aveva annunciato il completamento dell’operazione militare contro le milizie ad Abu Salim, senza fornire molti dettagli. Ma la situazione è ulteriormente degenerata, e gli scontri a fuoco si sono moltiplicati in tutta la capitale. Quando si crea un vuoto così grande, è fisiologico che qualcuno cerchi di occuparlo il prima possibile.

Tuttavia, i brividi di paura che corrono lungo la schiena dei cittadini di Tripoli sono antichi. Sono settimane che nella capitale libica si spara, con quartieri interi trasformati in campi di battaglia contesi tra bande e forze armate, tutte ben addestrate e pronte a tutto pur di mantenere controllo e potere. Dahra, Saraj, e la già citata Abu Salim. Un luogo dove tutto, a Tripoli, sembra voler tornare: è infatti nel carcere di Abu Salim che nasce l’odio popolare contro Gheddafi, dopo la mattanza di detenuti ordinata nel 1996. I video, i documenti e le testimonianze di quella carneficina, venuti fuori nel 2010, portarono alle prime manifestazioni contro il regime, ma nella città di Bengasi, in Cirenaica.

E oggi, proprio come ieri, è anche a Bengasi che bisogna guardare per comprendere la Libia contemporanea: mentre in Tripolitania esplodeva una nuova violenza, il generale Haftar – che ha in pugno la Cirenaica – rientrava da un lungo e fruttuoso viaggio a Mosca e Minsk. In Russia, tre giorni prima dell’escalation di Tripoli, Haftar ha incontrato Vladimir Putin, il ministro della Difesa Andrej Belusov e, per entrare in questioni più operative, il segretario del Consiglio di sicurezza russo Sergei Shoigu: i pezzi più importanti dello scacchiere militare del Cremlino. Ieri, le forze dell’Esercito nazionale libico, comandate da Haftar, hanno dichiarato la prontezza al combattimento e si sono mobilitate verso Ash-Shuwayrif, 400 chilometri a sud di Tripoli, dove coabitano con i militari russi dell’Africa Corps.

E così, mentre Tripoli ragionava sull’accettare o meno le lusinghe americane per “accogliere” i migranti dagli Stati Uniti – perché sembra proprio che la cultura politica dell’attuale governo tripolitano non riesca a non considerare le persone migranti come punti di Pil – Bengasi lucidava i cannoni per provare a cavalcare la crisi.

Una crisi in cui gli attori sono

tantissimi, abbastanza da renderla quasi incomprensibile. Ci sono le due macro-fazioni, Tripolitania e Cirenaica; ci sono decine di milizie, un po’ autonome e un po’ teleguidate da giocatori internazionali: Turchia, Russia, Egitto, Emirati Arabi Uniti, ma anche Europa e Italia giocano un ruolo. Non fosse altro per gli interessi economici, politici e per i troppi tavoli aperti sulle questioni più disparate: dai migranti agli oleodotti, dal petrolio alla (bloccata) ripresa del turismo internazionale.

Con le milizie, il governo di Tripoli ha tentato una prova di forza. Solo parzialmente riuscita, ha però messo a rischio la stabilità dell’esecutivo: se la morte di al-Kikli avvicina l’obiettivo di concentrare sempre più potere sulla capitale, è anche vero che la battaglia non è affatto finita. Resta una grande, ultima fazione armata: la Forza di deterrenza speciale (Rada), più di 1500 uomini altamente addestrati e ufficialmente sotto il controllo del ministero degli Interni di Tripoli. Un gruppo che esercita un potere extragiudiziale tipicamente mafioso.

«Sono stati loro a uccidere Gheniwa» ci dice Samir, che sostiene di aver riconosciuto «la firma, l’esecuzione» che gli uomini della Rada riservano ai loro nemici. Ma perché? «Il piano è politico: stanno cercando di diventare loro gli interlocutori dei partner internazionali. E poi, ci sono in ballo un sacco di soldi».

Non è un mistero che la Rada non veda di buon occhio il primo ministro Abdulhamid al-Dbeibah, soprattutto per i suoi legami con la Turchia. L’uscita di scena del suo principale rivale apre molte incognite, di cui tutti in Libia sembrano consapevoli. Haftar, in Cirenaica, non muove mai i suoi pezzi a caso: la crisi a ovest potrebbe fargli molto comodo.

E l’Italia? «Essere prudenti e rimanere in hotel», ha detto ieri il ministro Tajani dopo una riunione dell’Unità di crisi della Farnesina. «Stiamo valutando tutte le opportunità per farli rientrare in Italia il prima possibile», nonostante «non c’è alcun pericolo diretto».

Poche idee, ma ben confuse.