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Salto della barricata Per la prima volta un segretario della Cisl passa direttamente al servizio di un governo di destra. Per Meloni è un tentativo di recuperare consensi nel sud dove rischia di perdere e di riallacciare i legami col mondo del lavoro. La scelta di Sbarra spiega ex post le scelte sempre a favore del governo, dal no al salario minimo allo strappo con Cgil e Uil sul contratto degli statali

Sbarra, quell’ingaggio che getta ombre sul sindacato (ex) bianco L'incontro a Palazzo Chigi tra governo e sindacati sul disegno di legge di bilancio presieduta dalla premier Giorgia Meloni, Roma, 11 novembre 2024 – Ansa

Carta perde, carta vince. La premier Meloni, che si considera molto astuta, ha deciso di rispondere alla sconfitta della Cgil e del centrosinistra nei referendum con un’operazione di mercato, arruolando come sottosegretario a palazzo Chigi Luigi Sbarra, rimasto senza occupazione a febbraio quando ha lasciato la guida della Cisl.

Il suo addio alla Cisl, guarda caso, si celebrò ospitando proprio Meloni, tra sorrisi e salamelecchi, all’assemblea del sindacato già bianco e ora tendente pericolosamente verso il nero. Per la premier la mossa ha un chiaro obiettivo: spargere altro sale sulle ferite delle divisioni sindacali, premiando il «buono» Sbarra e così mandando un messaggio agli altri, quelli «tossici» come la Cgil che ancora si ostinano a praticare il conflitto sociale e non si rassegnano al destino di umili pedine di un sistema corporativo. Forse la premier si illude se pensa con la sua mossa di aver inglobato l’intera Cisl, visto che la vita della malcapitata Daniela Fumarola, successora di Sbarra, si fa d’ora in poi assai complicata: come farà a trattare ai tavoli con il suo ex capo ora approdato a palazzo Chigi? Quale sarà la credibilità delle sue mosse? Quanto peserà il venticello di un piccolo ma esemplificativo conflitto di interessi? Chi conosce il mondo cislino assicura che la sua vita, da oggi in poi, sarà «assai più faticosa».

Ma veniamo a lui, all’ex sindacalista che con un triplo carpiato, in tre mesi, ha cambiato lato della barricata. È vero, molti ex segretari generali dei sindacati sono poi entrati in politica. Solo per stare alla Cisl si possono citare Franco Marini, Pierre Carniti, Sergio D’Antoni, Savino Pezzotta, Raffaele Bonanni e Anna Maria Furlan. L’unico ad essere approdato al governo poche settimane dopo aver lasciato la guida del sindacato è stato Franco Marini, ma prese il posto di ministro del Lavoro (governo Andreotti) rimasto vacante per l’improvvisa scomparsa di Carlo Donat-Cattin. Altri tempi, altre carature.

Si tratta del primo leader della Cisl in un governo di estrema destra. Prima di lui Pezzotta e D’Antoni si erano spinti al massimo fino all’Udc di Casini e Follini, sinceri democratici. La sua scelta che contraddice tutta la storia della Cisl e getta anche un’ombra sul suo operato alla guida del sindacato, dal no agli scioperi indetti da Cgil e Uil sulle manovre alla firma in solitaria (con alcune sigle autonome) a inizio anno del contratto per gli statali, duramente criticato da Landini e Bombardieri perché prevede aumenti molto al di sotto dell’inflazione.

Facile dire, a questo punto, che i circa 200 mila lavoratori coinvolti pagheranno di tasca loro il ricco contratto firmato da Sbarra con Meloni. E fanno persino sorridere, col senno del poi, le parole al veleno rivolte pochi mesi fa da Sbarra a Landini: «Ha trasformato la Cgil nel surrogato di un partito». Poca cosa rispetto alla ricerca di uno strapuntino a palazzo Chigi.

Ma il punto non è questo. La mossa della premier indica la strada, una cooptazione di palazzo, che Meloni ha scelto per tentare di risolvere due problemi reali: il distacco col mondo del lavoro cui non ha saputo dare risposte (dal no al salario minimo- con la complicità della Cisl di Sbarra – all’incapacità di far crescere i salari), un distacco che si è manifestato anche l’8 e 9 giugno nei referendum, con 12 milioni di persone che hanno votato sì per avere un lavoro meno precario e meno rischioso; e il mezzogiorno, dove le destre, con l’attuale legge elettorale (cambiarla a colpi di maggioranza è possibile ma non facile), rischiano di perdere molti collegi alle prossime politiche, anche se il centrosinistra dovesse limitarsi all’asse Pd-5S-Avs.

Quel sud (la cui delega è stata affidata al calabrese Sbarra) dove alle europee del 2024 il Pd è risultato primo partito, e dove i 5S continuano a mantenere un consenso ragguardevole. Riuscirà Meloni a recuperare il terreno perduto con l’ingaggio dell’ex Cisl, cui sarà probabilmente offerto un nutrito portafoglio per diffondere le magnifiche e progressive opere del governo? Improbabile, ma il tentativo è chiaro.

C’è poi il tema del rapporto tra la Cisl e il centrosinistra, in particolare il Pd. L’approdo lampo di Sbarra a palazzo Chigi ha il pregio di sgombrare il campo dagli equivoci: la corrente cislina del Pd (che poi è la stessa a favore del Jobs Act e preme per il riarmo) ora sarà molto in difficoltà a difendere le proposte del sindacato (ex) bianco, come la pessima legge sulla partecipazione dei lavoratori nelle imprese voluta dalla Cisl e poi resa ancor peggiore dalla destra che l’ha votata. Il Pd alla fine si astenne, dopo una dura discussione interna, anche se la sinistra interna era per il no. Ora chi spinge per un collateralismo con la Cisl avrà meno frecce al suo arco. Anzi nessuna. Da sindacalista bianco a giallo e poi nero il passaggio di Sbarra è stato troppo rapido per non intossicare la discussione. Con buona pace dei cosiddetti riformisti che blaterano di subalternità di Schlein alla Cgil.