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Striscia continua I media americani riferiscono che Israele potrebbe lanciare subito i suoi aerei contro le centrali iraniane, senza l’aiuto degli Usa. La Repubblica islamica avverte: se verremo aggrediti daremo una risposta distruttiva

Un aereo militare israeliano pronto per un attacco foto Ap Un aereo militare israeliano pronto per un attacco – Ap

Una nuova guerra in Medio Oriente è alle porte. Israele ha fatto sapere, attraverso i media, di essere pronto ad attaccare l’Iran, anche senza l’aiuto statunitense. Un attacco devastante, concentrato – ma non solo – sugli impianti atomici. La regione verrebbe trascinata in un conflitto spaventoso. Dell’attacco israeliano ai siti nucleari si parla da almeno vent’anni e se n’è parlato parecchio nel 2024, quando Tel Aviv e Teheran si sono scambiate missili e bombe in due occasioni. In questi ultimi giorni, le intenzioni israeliane sono state riaffermate con grande forza. Ieri mattina la Cbs e Nbc News, citando dichiarazioni di funzionari dell’Amministrazione Usa, hanno riferito che Netanyahu potrebbe colpire subito, incurante dell’esito dei colloqui in corso tra Washington e Teheran per un accordo sul programma nucleare iraniano. Poi è entrato in scena Donald Trump, lanciando segnali ambigui. «Non voglio dire che (l’attacco israeliano) sia imminente, ma è qualcosa che potrebbe benissimo accadere», ha dichiarato il presidente americano, che ha esortato Israele a non colpire l’Iran. «Siamo abbastanza vicini a un buon accordo. Non voglio che (gli israeliani) entrino in campo, perché penso che farebbero saltare tutto». Ma uno degli obiettivi di Israele è proprio quello di silurare le trattative per evitare un accordo che consenta all’Iran di continuare l’arricchimento dell’uranio, che Israele considera inaccettabile e Teheran rivendica come un suo diritto inalienabile.

Il governo Netanyahu, osserva l’analista Raz Zimmt, «preferisce nessun accordo piuttosto che un cattivo accordo, perché senza un accordo gli attacchi militari diventano possibili». In sostanza, Israele vuole attaccare subito, sfruttando le attuali condizioni politiche e militari che considera molto favorevoli. Teheran, afferma l’intelligence israeliana, non avrebbe ancora ricostruito le difese aeree che Tel Aviv sostiene di aver distrutto in buona parte con il secondo raid aereo compiuto lo scorso anno.

Tutto è accaduto rapidamente. Ogni sviluppo, ogni decisione, ogni dichiarazione ha contribuito a materializzare il desiderio di una nuova guerra di Benyamin Netanyahu e dei suoi ministri. Domenica scorsa, Trump ha convocato una riunione d’urgenza con i suoi consiglieri più stretti e i vertici della Sicurezza nazionale per discutere dell’andamento del negoziato con l’Iran – domenica è prevista una nuova sessione di colloqui in Oman – per un accordo sul programma nucleare iraniano. Poche ore dopo, il presidente americano ha telefonato a Benyamin Netanyahu per discutere delle intenzioni di Israele.

Mercoledì, in un intervento trasmesso su un podcast del New York Post, Trump ha dichiarato di sentirsi meno fiducioso – a suo dire, gli iraniani starebbero «tergiversando» – di poter raggiungere un accordo sul programma nucleare di Teheran. Subito dopo, il Dipartimento di Stato e il Pentagono hanno confermato l’avvio dei preparativi per l’evacuazione del personale non essenziale dall’ambasciata americana a Baghdad e dei familiari dei militari presenti in Medio Oriente, in particolare in Kuwait e Bahrain.

Infine, è stata messa la ciliegina sulla torta confezionata per Israele: in questi giorni, per la prima volta in vent’anni, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) ha approvato una risoluzione contro l’Iran, appoggiata dai Paesi europei e dagli Stati Uniti (Russia, Cina e Burkina Faso si sono opposti). Nella risoluzione si accusa l’Iran di «numerose inadempienze nel rispettare gli obblighi assunti nell’ambito dell’Accordo di Salvaguardia». Gli iraniani hanno immediatamente reagito, accusando l’Aiea di aver compiuto una «mossa politica» e annunciando che «costruiranno un nuovo impianto in un luogo sicuro». Il comandante della Guardia Rivoluzionaria, Hossein Salami, ha avvertito che un’aggressione israeliana riceverebbe una risposta «più potente e distruttiva» rispetto al passato.

Siamo di fronte «a un bluff o a una deflagrazione vera?». Sono vere entrambe le cose. Anche se gli stessi esperti militari israeliani escludono che un attacco ai siti nucleari possa fermare in via definitiva una ipotetica intenzione dell’Iran di dotarsi di armi atomiche – al massimo potrebbe ritardarla -, Netanyahu ha in mente anche un obiettivo politico e militare. Vuole affermare la superiorità strategica israeliana su tutta la regione e ridimensionare il più possibile l’Iran, l’unico paese che prova a contrastarla. Perciò preme per colpire quello che descrive come il cuore dell’«Asse della Resistenza», approfittando dell’indebolimento dell’Iran, che ha perduto alleati preziosi come il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah (assassinato da Israele lo scorso settembre) e il presidente siriano deposto Bashar Assad.

Trump, in apparenza, fino a oggi ha bloccato i tentativi israeliani di lanciare l’attacco. Non per spirito pacifista, bensì per tutelare gli interessi economici e militari degli Usa nella regione e quelli delle monarchie arabe alleate, inclusa quella saudita, schierate contro le intenzioni di Netanyahu. L’Iran ha avvertito che non esiterà a colpire le basi americane nella regione se verrà bombardato. Tuttavia, secondo quanto riportato da Axios, durante la conversazione telefonica di lunedì il primo ministro israeliano avrebbe insistito per una «minaccia credibile» a Teheran. Sempre secondo Axios, l’idea di una pressione militare ha guadagnato terreno a Washington. Lo stesso Trump, in una lettera inviata al leader supremo iraniano Ali Khamenei lo scorso marzo, aveva fissato una scadenza di due mesi per le trattative, avviate ufficialmente il 12 aprile. Il generale Erik Kurilla, comandante del Centcom USA – atteso domani in Israele – ha riferito di aver presentato alla Casa Bianca «una vasta gamma di opzioni» per un eventuale intervento militare americano.