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Domani smetto Il gruppo islamista ha dato parere favorevole alla proposta del Qatar. Stasera tocca a Netanyahu e al gabinetto di sicurezza. Hamas chiede garanzie per la fine totale della guerra. Tel Aviv invece vuole lasciarsi le mani libere

Il «sì» di Hamas apre alla tregua a Gaza. L’incognita di Israele Una donna israeliana chiede la fine della guerra per liberare gli ostaggi a Gaza – Alexi Rosenfeld/Getty Images

Dopo l’approvazione da parte di Israele, anche Hamas ha accettato la proposta di accordo di cessate il fuoco a Gaza avanzata dai mediatori – Qatar ed Egitto, con la collaborazione degli Stati uniti – e ha richiesto solo lievi modifiche al testo del documento. A riferirlo sono state ieri sera prima la televisione Al Araby del Qatar e poi l’agenzia Reuters. L’intesa dovrebbe essere annunciata ufficialmente da Donald Trump lunedì quando incontrerà negli Usa il premier israeliano Netanyahu. Resta l’incertezza: le modifiche richieste da Hamas potrebbero fornire a Netanyahu il pretesto per continuare l’offensiva.

I segnali giunti ieri per tutto il giorno lasciavano prevedere un «sì» da parte del movimento islamista, che continua a chiedere garanzie dagli Stati uniti affinché il cessate il fuoco con Israele possa diventare permanente grazie a futuri negoziati, assieme al ritiro delle forze di occupazione dalla Striscia.

Il possibile accordo prevede un cessate il fuoco di due mesi, durante il quale saranno rilasciati dieci ostaggi israeliani ancora in vita e, in un secondo momento, i resti di diciotto ostaggi deceduti, in cambio della scarcerazione di centinaia di prigionieri politici palestinesi detenuti in Israele. Con Hamas e altre organizzazioni palestinesi rimarrebbero altri dieci ostaggi vivi e dodici deceduti. La bozza di accordo, mediata dal Qatar e basata sul cosiddetto «accordo Witkoff» – pubblicata ieri dal giornale Haaretz – precisa che otto ostaggi vivi saranno rilasciati il primo giorno del cessate il fuoco e altri due il cinquantesimo giorno. Cinque corpi di ostaggi saranno restituiti a Israele il settimo giorno della tregua, altri cinque il trentesimo giorno e gli ultimi otto il sessantesimo giorno.

Gli Stati uniti, sempre secondo la bozza, si impegnano a garantire la prosecuzione dei negoziati fino al raggiungimento di un accordo definitivo. «I garanti e i mediatori assicureranno che il cessate il fuoco continui per un periodo di 60 giorni e che si svolgano serie discussioni sulle disposizioni necessarie per un cessate il fuoco permanente». Il piano prevederebbe anche ritiri – ma solo parziali – delle truppe israeliane da Gaza. Secondo il quotidiano Yediot Ahronot, «l’esercito rimarrà anche nella zona cuscinetto (creata da Israele dentro Gaza)», che sarà ulteriormente allargata. «Il nuovo perimetro – aggiunge – si estenderà da 1,2 a 1,4 chilometri all’interno della Striscia e le forze israeliane non si ritireranno dal Corridoio Filadelfia», sul confine tra Gaza e l’Egitto. Ieri Israele ha annunciato di avere il controllo operativo su circa il 65% della Striscia.

Non è chiaro come avverrà la distribuzione degli aiuti umanitari, e se ad assistere la popolazione civile saranno di nuovo le Nazioni unite e le Onginternazionali o se l’incarico di distribuire i pacchi alimentari resterà affidato – con tutte le sue conseguenze mortali già viste per centinaia di civili – alla fondazione americana Ghf. Si dovrebbe assistere al ritorno di parte della popolazione sfollata in alcune aree del nord della Striscia.

Netanyahu, sottoposto a forti pressioni dell’opinione pubblica – e di parte dei comandi militari – per la liberazione degli ostaggi attraverso un accordo, discuterà stasera con il gabinetto di sicurezza la proposta di cessate il fuoco e le risposte di Hamas. I suoi alleati di estrema destra nel governo sono delusi, respingono la tregua e chiedono di continuare a distruggere Gaza. Netanyahu, che non può dire di no a Trump – deciso a ottenere la tregua – si prepara a rivendicare il rispetto della sua condizione principale: la possibilità di riprendere l’offensiva al termine dei 60 giorni di tregua. Opportunità che aveva già sfruttato lo scorso 18 marzo, quando ordinò di attaccare di nuovo Gaza, mettendo fine al cessate il fuoco scattato il 19 gennaio. Il suo obiettivo, afferma, era e resta la distruzione di Hamas e l’impedimento che il movimento islamico resti al potere a Gaza.

La leadership di Hamas è consapevole di non aver ottenuto la fine totale dell’attacco israeliano e che Netanyahu potrebbe ordinare un nuovo assalto. Tuttavia, ha in mano la carta degli ostaggi israeliani che resteranno a Gaza come garanzia per i colloqui volti alla cessazione definitiva dell’offensiva israeliana. I vertici politici e militari del movimento sono stati impegnati in riunioni per giorni. I dirigenti all’estero – tra Doha, Beirut e Istanbul – si sono divisi tra chi vuole il cessate il fuoco per alleggerire la pressione enorme sulla popolazione civile e chi, invece, predica prudenza, temendo che si tratti di una manovra israeliana per liberare solo una parte degli ostaggi, mantenendo però in piedi il blocco di Gaza e proseguendo la guerra con altri mezzi. Inoltre, il ritiro solo parziale dei militari israeliani da Gaza inevitabilmente ostacolerà l’avvio della ricostruzione e il miglioramento delle condizioni dei civili.

Allo stesso tempo, i vantaggi di un accordo sono significativi per il movimento islamista. Il cessate il fuoco permetterà ad Hamas di riorganizzare le sue forze militari e di addestrare nuovi combattenti, di eliminare la milizia pro-Israele di Yasser Abu Shabab a Rafah e di avere la meglio su quella che l’esercito di occupazione starebbe tentando di formare nel nord di Gaza. Inoltre, il movimento potrà riavviare anche l’«attività di governo», dimostrando che non potrà essere escluso da qualsiasi soluzione politica futura per Gaza.