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Il dibattito che è in corso all’interno della Cgil si svolge nei modi e nei tempi, assai tradizionali, del congresso nazionale. Un processo lungo che, come necessario in un’organizzazione complessa, coinvolge la base degli iscritti a partire dalle assemblee sui territori e dalla struttura di base delle singole federazioni: insomma un procedimento attraverso il quale i documenti programmatici congressuali possono essere discussi, approfonditi ed emendati. Un processo democratico come si deve, che alla fine dovrebbe portare alla scelta del* nuov* segretari* nella persona di chi meglio può interpretare e realizzare quegli obiettivi e quella strategia.

Ma le cose non vanno esattamente in tale modo: dei due documenti congressuali il primo (largamente unitario di varie sensibilità interne al movimento sindacale) raccoglie la stragrande maggioranza delle adesioni dei quadri sindacali e degli iscritti ed il secondo di una piccola minoranza. Il dibattito perciò non avviene realmente su tesi contrapposte ma su sottolineature e sfumature che nelle discussioni di base ed anche nei congressi territoriali tendono a intersecarsi ed a confondersi. Ma soprattutto di quella benefica, larga partecipazione l’opinione pubblica tende quasi a non accorgersi. Complice certamente la non adeguata capacità di comunicazione esterna della Cgil (ferma nel linguaggio e nei modi di comunicare e di rapportarsi con la stampa a modelli novecenteschi), la grande stampa nazionale non si preoccupa affatto di informare né spesso nemmeno di capire.
Che per le elites dominanti il sindacato, se non è proprio servizievole o non è necessario per risolvere drammatiche situazioni di crisi, sia comunque un fastidio, è cosa nota; ma se scorrete i giornali nazionali ed anche quelli locali vi accorgete che di tutta la difficile partita che la Cgil sta affrontando in un quadro di crisi internazionale del sindacato e di contingenza economica e politica molto difficile quello che appare sulla stampa è un duello “rusticano” fra Maurizio Landini e Vincenzo Colla. Descritto il primo come “il tribuno” che vuole chattare con i 5stelle (per i quali vota una parte significativa dei suoi ex protetti, i metalmeccanici) e, il secondo "lo sconosciuto" (perché quasi nessun articolo si preoccupa di approfondirne la figura e la biografia sindacale) che sarebbe la “longa manus del Pd sul sindacato”. Landini “il movimentista” o Colla “il riformista”: un’altra versione dello stesso schema, in realtà molto semplicistico.

Ci piacerebbe dare qualche elemento di maggiore conoscenza ai lettori: cerchiamo di farlo partendo dalle posizioni dei due candidati alla segreteria, come emergono da un bell’articolo di Carmine Fotia apparso sull’Espresso del 16 ottobre, che vi consiglio di leggere per esteso qui

http://espresso.repubblica.it/palazzo/2018/10/16/news/perche-il-congresso-della-cgil-riguarda-tutto-il-popolo-di-sinistra-1.327882

Sostiene Carmine Fotia che “Del vecchio paradigma fondato sul compromesso tra capitale e lavoro che ha plasmato il Novecento

e dato vita al Welfare State non è rimasto più nulla: la finanza ha inghiottito l’industria, la rivoluzione tecnologica ha stravolto il vecchio modello taylorista con la fabbrica al centro del mondo, minando le antiche basi della rappresentanza e i corpi intermedi, la globalizzazione ha divorato la sovranità e le istituzioni, la politica è evaporata, sovrastata da leadership solitarie, nevrotiche ed effimere.” In una situazione di tal genere “sia pure imbrigliata dalle procedure sindacali” dentro la discussione congressuale e nel confronto fra i due candidati alla segreteria “su come rispondere a questo passaggio d’epoca si confrontano apertamente due idee alternative.

Secondo Maurizio Landini si tratta di “processi di lunga durata” «Basta pensare che delle forze politiche che ispirarono il patto di Roma del 1944 (da cui nacque la Cgil come sindacato unitario ndr), socialisti, comunisti, democristiani, oggi non ne è rimasta nessuna. Una parte dei lavoratori iscritti alla Cgil ha votato per le forze oggi al governo e c’è attesa per le misure che saranno prese. Il fatto non è inedito: è dagli anni Novanta che una parte dei nostri iscritti del Nord vota Lega. Oggi però lo scenario politico è completamente nuovo. Il vecchio mondo politico non esiste più, questo ci dice il voto. E aggiungo che la frattura che ha determinato la sconfitta della sinistra alle scorse elezioni non nasce il 4 marzo, e neppure solo dagli ultimi governi. Non è che destra e sinistra non ci sono più, è che la sinistra ha fatto politiche di destra. Intanto però osservo che anche questo governo, come il precedente, mette in discussione il ruolo del sindacato come soggetto generale per cui siamo convocati ai tavoli delle vertenze ma non siamo mai consultati sulle scelte generali. Si definiscono governo del cambiamento. Noi li sfidiamo. Per esempio sull’immigrazione: il problema non sono i lavoratori neri, ma il lavoro nero. Autonomia non è indifferenza verso la politica, vuol dire mettere al centro le persone, i diritti, la giustizia sociale».

Vincenzo Colla, invece sostiene: «Per me sarebbe un errore uscire dall’orizzonte socialdemocratico, che ci ha dato il grande compromesso sociale del Welfare: anche nel nuovo mondo dominato dalla rivoluzione tecnologica non possiamo rinunciare ai cardini di quel compromesso: riduzione delle diseguaglianze e redistribuzione. Io rispetto il voto, ma il voto non è stato contro la Cgil. Non è che quando i lavoratori del nord hanno cominciato a votare Lega noi siamo diventati leghisti. Noi dobbiamo dire la verità. O forse dobbiamo dire che il condono va bene, che il reddito di cittadinanza dura tutta la vita? Quello di cui ha bisogno un ragazzo del sud è di un lavoro di cittadinanza. Se ti diamo quota 100 sulle pensioni e non facciamo il terzo valico creiamo disoccupazione.»

Secondo Fotia che non siamo di fronte ad un dibattito puramente teorico, ma a “due modelli di sindacato” e quindi a “due idee diverse di contrattazione, di rappresentanza, di rapporto con la politica”. Ai molti punti in comune della loro biografia sindacale “entrambi operai metalmeccanici, entrambi emiliani, entrambi passati per la scuola della Fiom”, “sono due puri figli della Cgil, della sua storia e della sua cultura politica” si contrappongono diversità di carattere e comunicative e le etichette di movimentista e di riformista attribuite ai due non si traducono in schematiche appartenenze o vere vicinanze politiche. Osserva sempre il giornalista “la Cgil è l’unico luogo rimasto in piedi del vecchio blocco sociale progressista nel quale la discussione sembra avere un senso e ciascuno che vi partecipa non può limitarsi alle affermazioni di principio”.

Afferma Landini «Io avverto tra gli operai paura, rancore, solitudine. Come rispondere? Io penso tornando alle radici del sindacato che è nato esattamente per sconfiggere paura e solitudine, per insegnare ai lavoratori a non togliersi il cappello davanti al padrone, come diceva Di Vittorio. Pensa alle prime camere del lavoro dove gli operai andavano anche per imparare a leggere e scrivere. Superi il rancore solo se riesci a svolgere una funzione politica a governare il passaggio tra vecchio e nuovo. In qualche misura è l’idea di un nuovo umanesimo: nello stesso anno in cui nascono le camere del lavoro con quella forte impronta solidaristica e mutualista esce anche la Rerum Novarum. Se questo ritorno alle radici possa servire anche alla sinistra francamente non lo so, so che è decisivo per il sindacato. Ma come può vedere il mondo un lavoratore che deve pagare per avere un lavoro precario? Per questo il primo obiettivo è unificare il mondo del lavoro»

Ed ecco cosa dice Colla: «Oggi siamo dinnanzi a un vuoto democratico e la domanda cui neppure noi possiamo sfuggire è come si ricostruisce un progressismo. Inseguendo una nuova contrapposizione tra alto-basso che supera la dicotomia destra-sinistra, passiamo di cesura in cesura e finiamo per diventare liquidi anche noi. In 110 anni di storia la Cgil ha avuto accordi e conflitti con tutti i governi. L’autonomia è essenziale proprio per poter dire sì e no. Se guardo ai governi precedenti vedo che siamo arrivati addirittura a uno scontro frontale sui temi della Costituzione, sulla flessibilità retta dall’idea che se arriva l’ala marea si alzeranno tutte le barche, mentre si sono alzati solo i panfili. Da questo punto di vista vedo molta continuità tra questo governo e i precedenti. Ci siamo contrapposti duramente al governo Renzi perché non parlava con i sindacati, siamo arrivati allo sciopero generale contro il governo ed ora che questo governo vara il decreto dignità senza alcuna consultazione con noi stiamo tutti zitti? La disintermediazione è la culla del populismo e dell’antipolitica e questo non porta certo acqua al mulino della sinistra. Il sindacato che ho in mente non insegue la paura ma governa l’innovazione. Non è quello che faceva la Cgil di Di Vittorio quando nei campi arrivarono i trattori a sostituire il lavoro dei braccianti? Noi avremmo bisogno di pensieri pazienti, oltre che di investimenti pazienti. E la questione della dignità del lavoro è centrale, perché, senza un lavoro dignitoso non c’è rappresentanza e allora il lavoratore pensa: datemi un urna che la trito e voto per chi è più “contro”».