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da "Il Manifesto" del 28 gennaio 2020.

Quelli che «le sardine sono solo fuffa» sono serviti, con quelli che ripetevano l’adagio «piazze piene, urne vuote», come fosse la profezia del mago di Oz. O che ne scrutavano i comunicati come fossero atti notarili alla ricerca delle parole incerte o dei temi mancanti. Invece lo dobbiamo proprio a loro, alle sardine, o meglio a quelle piazze piene sorridenti e cantanti, se oggi lo scenario italiano è meno tetro, e se la democrazia costituzionale ha guadagnato un po’ di tempo. Se, cioè, il piano di destabilizzazione totale di Matto Salvini non è riuscito.
IL PROGETTO del Capitano di questa inedita Compagnia di ventura che si muove con la logica dell’occupazione fisica dei territori per usarli come clava per la conquista dei «pieno poteri» era chiaro, e dichiarato: «Dare una spallata» al sistema politico-istituzionale italiano. Innescare un effetto domino che dalla Regione-simbolo del «potere delle sinistre» infine conquistata e annessa discendesse fino alla Capitale, per risalire i sacri colli fino al Quirinale, costringere alla «convocazione dei comizi del popolo» e di lì mettere in discussione l’intero assetto istituzionale.
NON ERA – vorrei essere chiaro – il progetto «della Lega». Era il progetto di Matteo Salvini, super-personalizzato come si addice al turbo-populismo di cui si è fatto interprete, frutto di un Ego ipertrofico che l’ha portato a concentrare bulimicamente l’intera campagna elettorale sulla propria persona, il proprio corpo, il proprio bomber Moncler, la propria barba barbarica, le proprie passeggiate in borghi e quartieri, e non importa che quelle fossero elezioni amministrative, che ci fosse una candidata (valida o meno che fosse), che ci si giocasse la guida di una regione fino ad allora

ben governata (con politiche non certo di sinistra radicale, anzi persino un po’ di destra: si pensi all’autonomia differenziata).
NON IMPORTAVA tutto questo, perché quello che intendeva fare era provocare un pronunciamento su se stesso, e sulla propria legittimazione a comandare. Ha voluto un referendum su se stesso. E lo ha perso. Come accade a chi non sa controllare il proprio Io (ricordiamo l’altro Matteo, il Renzi del 4 dicembre?). Ha provato a «dare la spallata», e si è rotto la spalla. Contro uno zoccolo duro di «cultura urbana» (nel senso di civile, educata, rispettosa). Non contro un partito politico avversario, o un «candidato forte». E nemmeno una «coalizione». E neppure un movimento. Ma contro un sentire profondo, uno stato d’animo condiviso da tanti (abbiamo visto: dai più) che, anche trasversalmente, comunque consideravano insopportabile che si potesse «cadere così in basso» e cedere il passo a una forma di imbarbarimento della politica quale quella incarnata da quello «stile».
CON METAFORA medica, potremmo dire che ancora per questa volta il sistema immunitario di questo Paese sia pur debilitato da un lungo ciclo di delusioni e deprivazioni è comunque scattato, e ha prodotto i propri anticorpi, con un meccanismo di alto rilievo politico ma di radicata origine più profonda, pre-politica potremmo dire, o fisiologica. Per questo la società politica farebbe bene a riflettere a fondo, prima di parlare, o cantar vittoria. Perché i problemi sono ancora tutti lì, insoddisfatti e feroci. Farebbe bene il Pd, in primo luogo, che pure può ben festeggiare questa «grazia ricevuta» insieme al suo candidato vincente, ma che non può nascondersi che governerà una Regione spaccata in due (il voto ci ha rivelato due Emilie Romagne, una delle città, l’altra delle province, due territori potenzialmente stranieri l’uno rispetto all’altro). Che la Calabria è stata una Caporetto.
E CHE I PROSSIMI mesi sono cosparsi di mine vaganti per la maggioranza di governo, presa tra la crisi strutturale degli alleati 5 Stelle (gli Stati generali sono un’incognita da Idi di marzo mentre i responsi sulla piattaforma Rousseau hanno rivelato un’incultura politica desolante) e l’ossessività impaziente di Renzi e dei renziani, specialisti della destabilizzazione, oltre alla forma attualmente proteiforme e indecisa dello stesso partito di Zingaretti. Tre entità tutte e tre in fibrillazione – alcune in possibile crisi di nervi – chiamate a tenere in piedi un Governo «necessario» se non si vuole regalare a Salvini domani quello che ha perduto oggi.
SERPEGGIANO, tra le pieghe dei talk show e gli editoriali dei grandi quotidiani, cattive sensazioni e peggiori suggerimenti, tra chi si affretta a decretare ipso facto il ritorno conclamato al bi-polarismo e chi testardamente continua a spezzare ancora lance a favore di una resipiscenza verso il sistema elettorale maggioritario, come se la rondinella emiliana annunciasse una florida primavera riformista.
DICIAMOLO subito: una riedizione del modello bipolare, sul tipo di quello voluto da Veltroni e Berlusconi nel 2008 sarebbe letale per la sinistra e sancirebbe una schiacciante prevalenza di una destra a trazione populista-sovranista. Una legge elettorale maggioritaria, o mista sul tipo del Rosatellum, regalerebbe alla Lega, concentrata territorialmente nelle regioni più popolose, una vittoria che con un proporzionale non si sognerebbe nemmeno di avere.
La sana reazione di rigetto da parte degli anticorpi emiliani ci ha salvati dal peggio «ora». Non disperdiamo tutto ciò per ottusità o suprematismo di partito.

Marco Revelli