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 L' infettivologa Alessandra Govoni: «Non è sbagliato ipotizzare un mese di blocco totale, assembramenti culmine di irresponsabilità»

Risultato immagini per immagini alessandra govoni

 

Una cura contro l'«adolescenza infinita» di chi nei giorni scorsi ha continuato ad agire irresponsabilmente, incurante del contagio da coronavirus. È quella che invoca provocatoriamente Alessandra Govoni, infettivologa faentina oggi impegnata all' ospedale di Imola, dove lavora dal 2006, dopo sette anni trascorsi in quella che è la prima linea di trincea dell'Italia contro le malattie infettive: l' ospedale Spallanzani di Roma.

Lavorava lì quando infettivologi e virologi furono mobilitati per l' epidemia di Sars del 2002, causata anch'essa da un coronavirus.

«Fummo messi in allerta per ciascuna delle grandi epidemie scoppiate nel mondo», ricorda Alessandra Govoni. «Non potrò mai dimenticare la prima epidemia di ebola: una pediatra romana fu contagiata e morì in Africa. Dovemmo mettere mano agli 'scafandri' e sottoporre agli esami tutti i colleghi che l'avevano frequentata. Fortunatamente nessuno di loro risultò positivo».

E' bene ricordare che il coronavirus non è la p r i m a e p i d e m i a c u i i l m o n d o g l o b a l i z z a t o f a f r o n t e , g i u s t o ?

«Esatto. Quando cominciai questo mestiere, a Modena e poi allo Spallanzani, l' Hiv concentrava la quasi totalità degli sforzi di noi infettivologi, come del resto accade tuttora. Ricordo ancora il vuoto che si allargava attorno a me e alle mie colleghe sul bus, al ritorno dall' ospedale, quando inevitabilmente ci trovavamo a parlare di lavoro, e dunque di Aids. Era vera psicosi».

Il mondo doveva aspettarsi un coronavirus? «Non era difficile prevedere che prima o poi ci saremmo trovati a fare fronte a un nemico di questo tipo: sono pochi ormai coloro che non hanno mai preso aerei, e quasi nessuno non ha contatti con persone abituate a viaggiare.

In tanti ci chiedono: perché in Cina? Perché l'ebola in Africa? L' espansione delle aree urbane e la contestuale riduzione di quelle naturali hanno portato l' uomo, e i suoi animali domestici e d'allevamento, a vivere a stretto contatto con specie selvatiche. Ecco allora che un virus può effettuare il cosiddetto salto di specie. Essere causa di elevata mortalità per un virus è un fallimento biologico: uccide il corpo che lo ospita, condannando se stesso. Questo perché il virus si trova in un organismo che non conosce. Alcuni hanno fatto notare come dall'India, dove il consumo di prodotti animali è minore, non partano epidemie. In realtà nessun paese è al riparo dal pericolo».