Stampa

Economia. I comuni dotati di un certo grado di autonomia impositiva possono diventare i protagonisti di un più ravvicinato controllo democratico sulla distribuzione della ricchezza e soprattutto sulla rendita fondiaria, che non è volatile come il capitale finanziario, ma è radicata e visibile nel territorio

 

Si attribuisce al neoliberismo, alle politiche ispirate da questa dottrina, quanto meno in ambito democratico, la responsabilità dell’indebolimento del sistema sanitario pubblico, impreparato a reggere la pandemia da coronavirus. E naturalmente c’è del vero.

Ma non bisogna cadere nell’errore di immaginare che a ispirare la condotta dei governi e il comportamento degli imprenditori e del ceto politico, siano oggi le formule ideologiche della Mont Pelerin Society, o i testi di Friedrik von Hayek e di Milton Friedman.

Nella concreta realtà storica il neoliberismo non è più una teoria economica e non soltanto La nuova ragione del mondo, come hanno mostrato nel loro libro Dardot e Laval, ma un rapporto di forza materiale tra capitale e lavoro.

Negli ultimi 30 anni si è creata una drammatica asimmetria di potere tra il mondo dell’impresa e quello dei lavoratori, che grava sul l’intero universo delle relazioni umane, non solo nei luoghi di lavoro ma in tutta la società. La capacità del capitale di sfuggire al conflitto tramite la sua mobilità mondiale, con la pratica delle delocalizzazioni, le nuove forme dispersive di organizzazione del lavoro, la perdita da parte dei lavoratori su scala generale, della loro rappresentanza politica, l’indebolimento di quella sindacale costituiscono la base di quello che potremmo chiamare il neoliberismo materiale.

Tale grave squilibrio tra le classi, che è alla base delle presenti disuguaglianze, fornisce al capitale una libertà selvaggia di sfruttamento del lavoro, che sta distruggendo la nostra civiltà favorendo la rapina incontrollata della natura.

Ma non possiamo dimenticare quel che è accaduto allo Stato contemporaneo, che per alcuni decenni della seconda metà del ‘900 aveva permesso margini di distribuzione della ricchezza mai sperimentati prima. Non è un caso che negli Usa, dove è nata la nuova centralità perequatrice del potere pubblico, grazie a Roosevelt, il neoliberismo si afferma con lo smantellamento del sistema fiscale progressivo.

Appena diventato presidente, Reagan mette in atto quello che è stato definito «il più grande taglio di tasse di tasse della storia americana» (M.Prasard, The politcs of free markets, The University Chicago Press,2006) mettendo fine a un sistema progressivo per aliquote che colpiva pesantemente le grandi fortune. Da allora gli stati hanno favorito scientemente le disuguaglianze e alimentato, specie da noi, l’accumulo del debito pubblico.

Oggi in Italia si torna a parlare di riforma del sistema fiscale. E’ necessario avere piena coscienza della sua portata strategica. L’applicazione di un sistema fiscale progressivo, insieme agli altri dispositivi di controllo dell’evasione, costituirebbe davvero una riforma strutturale, che ancor più di una patrimoniale una tantum, potrebbe redistribuire più equamente la ricchezza in forma sistemica e duratura. Si rimetterebbe in piedi un pilastro fondamentale del welfare.

Non dimentichiamo il modo in cui si è venuta strutturando la ricchezza in Italia negli ultimi decenni, con i crescenti profitti delle medie e grandi imprese, come ha ricordato su questo giornale Pier Luigi Ciocca, ex dirigente di primo piano della Banca d’Italia.

Ma non è solo l’accumulazione di profitti ad essere risultata esente da prelievi adeguati, anche la rendita ha celebrato i suoi trionfi, premiata spesso da scelte scellerate di governo, come quella di Renzi, di abolire indiscriminatamente l’Imu sulla prima casa. Oggi abbiamo di fronte un panorama sociale in cui domina la ricchezza privata a fronte della miseria pubblica, sicché si fanno mancare risorse per la scuola e la ricerca, la sanità e l’Università e si protegge la ricchezza solidificata, inerte, talora predatoria, in seconde e terze case, ville, patrimoni immobiliari delle grandi società.

Un fronte di lotta di vasta portata si apre dunque nei prossimi mesi. Purtroppo non credo che nel governo, né nel Pd (la sinistra radicale non sappiamo dove sia finita) sia presente una piena coscienza della portata della posta. Domina tra le forze politiche il virus elettoralistico di inseguire mille diverse sirene al giorno, sicché le poche forze orientate a un obiettivo disperdono le forze senza grande costrutto. E’ il sindacato, la Cgil, che non a caso insiste sul tema fisco, il solo soggetto capace di organizzare il conflitto necessario senza condizionamenti.

Non dimentichiamolo, gli ottusi poteri dominanti non molleranno un centimetro della loro roba. Ma in questa lotta io credo che il sindacato dovrebbe trovare un potente alleato nei comuni italiani, ai quali va restituita una nuova dignità e centralità. Non solo per bilanciare il potere delle Regioni, la cui istituzione è stato il più grave errore istituzionale della storia d’Italia, perché ha creato una nuova élite di trafficanti della politica e ha aperto una falla disastrosa nei conti pubblici.

I comuni dotati di un certo grado di autonomia impositiva possono diventare i protagonisti di un più ravvicinato controllo democratico sulla distribuzione della ricchezza e soprattutto sulla rendita fondiaria, che non è volatile come il capitale finanziario, ma è radicata e visibile nel territorio.