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L'anniversario. 150 anni fa, il 18 marzo del 1871, il popolo di Parigi insorse dando vita a una forma inedita di autogoverno. La rivolta resistette solo 72 giorni ma trasformò per sempre il volto delle lotte operaie. Tra le decisioni assunte dai comunardi: la scuola sarebbe stata obbligatoria e gratuita per tutti, con insegnamento laico, non religioso

Una caricatura di Pilotell tratta dal libro «Avant pendant et après la Commune», Editions Livre-Club Diderot, 1969

 

Contro un governo intenzionato a far ricadere il prezzo della Guerra franco-prussiana sul popolo, il 18 marzo a Parigi scoppiò una nuova rivoluzione. Gli insorti indissero subito elezioni e il 26 marzo una schiacciante maggioranza approvò le ragioni della rivolta. 70 degli 85 eletti si dichiararono a favore della Comune di Parigi. Anche se resistette soltanto 72 giorni, fu il più importante evento politico della storia del movimento operaio del XIX secolo.

I MILITANTI della Comune si batterono per una trasformazione radicale del potere politico, in particolare contro la professionalizzazione delle cariche pubbliche. Ritennero che il corpo sociale si sarebbe dovuto reimpossessare di funzioni che erano state trasferite allo Stato. Abbattere il dominio di classe esistente non sarebbe stato sufficiente; occorreva estinguere il dominio di classe in quanto tale.

Le riforme sociali vennero ritenute ancora più rilevanti di quelle politiche e avrebbero dovuto evidenziare la differenza con le rivoluzioni del 1789 e del 1848. Nel mezzo di una eroica resistenza agli attacchi delle truppe di Versailles, la Comune prese numerosi provvedimenti che indicarono il cammino per un cambiamento possibile. Si organizzarono progetti per limitare la durata della giornata lavorativa.

Si decise che la scuola sarebbe stata resa obbligatoria e gratuita per tutti e che l’insegnamento laico avrebbe sostituito quello di stampo religioso. Si stabilì che le officine abbandonate dai padroni sarebbero state consegnate ad associazioni cooperative di operai e che alle donne sarebbe stata garantita «uguale retribuzione per uguale lavoro». Anche gli stranieri avrebbero potuto godere degli stessi diritti sociali dei francesi.

La Comune voleva instaurare la democrazia diretta. Si trattava di un progetto ambizioso e di difficile attuazione. La sovranità popolare alla quale ambivano i rivoluzionari implicava una partecipazione del più alto numero possibile di cittadini.

A PARIGI si erano sviluppati una miriade di commissioni centrali, sotto-comitati di quartiere e club rivoluzionari che affiancarono il già complesso duopolio composto dal consiglio della Comune e dal comitato centrale della Guardia Nazionale. Quest’ultimo, infatti, aveva conservato il controllo del potere militare. Se l’impegno di un’ampia parte della popolazione costituiva una vitale garanzia democratica, le troppe autorità in campo rendevano complicato il processo decisionale.

IL PROBLEMA della relazione tra l’autorità centrale e gli organi locali produsse non pochi cortocircuiti, determinando una situazione caotica. L’equilibrio già precario saltò del tutto quando venne approvata la proposta di creare un Comitato di Salute Pubblica di cinque componenti – una soluzione che si ispirava al modello dittatoriale di Robespierre nel 1793. Fu un errore drammatico errore che decretò l’inizio della fine di un’esperienza politica inedita e spaccò la Comune in due blocchi contrapposti.
Al primo appartenevano neo-giacobini e blanquisti, propensi alla concentrazione del potere e in favore del primato della dimensione politica su quella sociale. Del secondo facevano parte la maggioranza dei membri dell’Internazionale, per i quali la sfera sociale era più significativa di quella politica. Essi ritenevano necessaria la separazione dei poteri e credevano che la repubblica non dovesse mai mettere in discussione le libertà politiche. I suoi eletti non erano i possessori della sovranità – essa apparteneva al popolo – e non avevano alcun diritto di alienarla.

UN TENTATIVO DI RITESSERE l’unità all’interno della Comune si svolse quando era già troppo tardi. Durante la «settimana di sangue» (21-28 maggio), le armate fedeli a Thiers uccisero tra i 17mila e i 25mila cittadini. Fu il massacro più violento della storia della Francia. I prigionieri catturati furono oltre 43mila e un centinaio di questi subì la condanna a morte, a seguito di processi sommari. In circa 13.500 vennero spediti in carcere o deportati (in numero consistente nella remota Nuova Caledonia). In tutt’Europa, sottacendo la violenza di Stato, la stampa conservatrice accusò i comunardi dei peggiori crimini ed espresse grande soddisfazione per il ripristino «dell’ordine naturale» e del trionfo della «civiltà» sull’anarchia.

Eppure, l’insurrezione parigina rafforzò le lotte operaie e le spinse verso posizioni più radicali. All’indomani della sua sconfitta, Pottier scrisse un canto destinato a diventare il più celebre del movimento dei lavoratori: «Uniamoci e domani L’Internazionale sarà il genere umano!». Parigi aveva mostrato che bisognava perseguire l’obiettivo della costruzione di una società alternativa a quella capitalista. La Comune mutò le coscienze dei lavoratori e la loro percezione collettiva. Da quel momento in poi, divenne sinonimo del concetto stesso di rivoluzione.