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Un coraggio del genere. «Vogliamo diritti e libertà». «No, il vostro posto è a casa». A rischio anche l’istruzione. E nel Panjshir s’intensificano i combattimenti

Donne in protesta a Kabul  © LaPresse

«Diritti e libertà», gridano le donne a Kabul. «Il vostro posto è a casa», replicano i Talebani. Ieri a Kabul si è tenuta un’altra dimostrazione di donne, dopo quella del giorno prima a Herat. Coraggiosamente, pubblicamente, rivendicavano diritti, lavoro, libertà, educazione, in una città in cui cambia anche il paesaggio urbano: cominciano a sparire i graffiti del gruppo ArtLords, sostituiti dagli ammonimenti di mullah Haibatullah Akhundzada: «Non seguite la propaganda del nemico». Mentre i turbanti neri sostengono di aver conquistato anche l’ultimo territorio, la valle del Panjshir, anche se i protagonisti della resistenza, Amrullah Saleh e Ahmad Massud, negano.

SI È APERTA DUNQUE con una dimostrazione di coraggio la giornata di ieri a Kabul, dove in molti attendevano l’annuncio del nuovo governo, che ancora non c’è: problemi di incarichi, dissidi interni, mormora più di uno. Per le vie della capitale hanno manifestato una ventina di donne. Poche, ma coraggiose. Scandivano slogan chiari: ci siamo, facciamo parte del Paese, vogliamo studiare, lavorare, partecipare, far sentire la nostra voce. La manifestazione è stata interrotta, di fronte al ministero delle Finanze, da un paio di militanti islamisti. Intervenuti con le maniere forti. «Tornatevene a casa, non è il vostro posto, qui».

LA PROTESTA SEGUE quella che due giorni fa si è tenuta a Herat,

nell’omonima provincia occidentale del Paese. Anche lì le donne in prima fila, con cartelli che recitavano «pane, lavoro, sicurezza, giustizia». E slogan. «Non abbiate paura, siamo unite». Entrambe le proteste nascono dalla stessa idea: bisogna uscire allo scoperto, uscire di casa, farsi sentire, rompere il silenzio. Prima che i Talebani spingano progressivamente le donne nell’ambito domestico, sottraendo loro spazi e diritti, giorno dopo giorno.

I Talebani incassano le proteste. Ma non resteranno inerti. La giornalista Christiane Amanpour ha ripubblicato una sua vecchia intervista: un talebano dice che «per ora le donne devono stare a casa, fino a quando non troveremo una soluzione per loro». A parlare è Sher Abbas Stanekzai, oggi numero due dell’Ufficio politico dei Talebani a Doha, probabile figura di spicco del governo che verrà. Il video è di 25 anni fa. Le parole ricalcano lettera dopo lettera quelle usate dai portavoce del movimento nei giorni scorsi, mentre Stanekzai, che in questi 25 anni ha imparato meglio la diplomazia, ha assicurato che avranno un ruolo nella ricostruzione del Paese.

MA A RISCHIO è anche l’istruzione. Il ministro a interim dell’educazione pochi giorni fa ha sostenuto che le donne potranno studiare, ma non a contatto con gli uomini. Un provvedimento che equivale a negare il diritto allo studio, ha notato Heather Barr di Human Rights Watch. Secondo le statistiche ufficiali del 2019, nelle 166 università afghane il 27% degli studenti sono donne. Le docenti, solo il 14%. Negli istituti per la formazione degli insegnanti, il 57% degli iscritti sono donne, ma le insegnanti solo il 13%.

Le donne protestano. Gli uomini fanno la guerra. Nel Panjshir si combatte duramente. La provincia è l’unica rimasta fuori dal controllo dei Talebani. Dopo giorni di negoziato inconcludente, lunedì sera i Talebani hanno avviato un’offensiva militare, che ieri si è intensificata.

LA MACCHINA della comunicazione dei Talebani annuncia che la valle è conquistata, che Amrullah Saleh, già vice del presidente fuggitivo Ashraf Ghani, e lo stesso Ahmad Massud, figlio del comandante Massud, sarebbero fuggiti verso il Tajikistan, unico Paese della regione disposto a sostenere in qualche modo la resistenza e nella cui capitale, Dushanbe, nelle prossime settimane si alterneranno visite di funzionari russi e statunitensi, tutti consapevoli del ruolo che potrebbe avere nella crisi afghana. A Kabul nella serata di ieri si sono sentiti gli spari celebrativi con cui i Talebani annunciavano la conquista della provincia ribelle. Ma Amrullah Saleh, già a capo dei servizi segreti, nel pomeriggio su Twitter invocava ancora «resistenza» e poco dopo inviava un’intervista video al canale Tolonews. Mentre il giovane Massud respingeva come propaganda pachistana la notizia della caduta del Panjshir.

I TALEBANI SEMBRANO TEMERE più l’aspetto simbolico della resistenza tagica del Panjshir che non quella militare. Ma sanno di non godere di grandi consensi anche in altre aree del Paese. Anche nelle città. Da qui le pose muscolari. Pochi giorni fa nella città meridionale di Kandahar hanno esibito in una lunga parata militare i mezzi sottratti all’esercito afghano e in parte alle forze straniere.

In questi giorni invece sul canale televisivo nazionale trasmettono immagini di un’altra parata. Dove si sia tenuta non è chiaro. Chiaro il messaggio: una sfilata di autobombe, squadre di attentatori suicidi, cinture esplosive, badili riempiti di esplosivo con la carica pronta, armi leggere e pesanti. L’armamentario con cui, recitano i sottopancia, è stato sconfitto il nemico. Ma vittime di quelle armi sono stati anche i civili afghani. Mentre il nemico ormai lontano non esclude che con i Talebani si possa formare se non un’alleanza vera e propria una partnership, su interessi comuni: la lotta alla «Provincia del Khorasan», la branca locale dello Stato islamico.

NEL CORSO DI UNA CONFERENZA stampa al Pentagono, il capo di Stato maggiore dell’esercito Usa, il generale Mark Milley, non ha escluso collaborazioni con i Talebani, gli stessi che esibiscono le bombe al nitrato: «In guerra si deve fare quello che devi per ridurre il rischio, non necessariamente quello che vorresti», ha dichiarato.