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Il ritiro dall'Afghanistan e il nuovo ordine mondiale

All’Europa non serve un esercito ma una forza di pace

Il ritiro unilaterale degli Usa da un teatro di guerra che avevano considerato strategico non poteva non avere conseguenze sugli alleati europei e sull’Europa. Le prime reazioni sono senza alcun respiro strategico, come a pensare di mettere una pezza su un vestito irrimediabilmente lacerato. Una reazione al fondo banalmente conservatrice e altrettanto banalmente sostitutiva di quel che il grande alleato ha abbandonato. Non riesce a riempire il vuoto l’enfasi spropositata messa sulla scelta operata da Biden. Si è parlato persino di una svolta epocale, finendo così per inseguire una falsa pista.

In realtà, si è trattato di una scelta obbligata che risponde anche a un nuovo orientamento della politica internazionale degli Usa, suggerita dalla sua nuova classe dirigente, che propone anche a quel livello la priorità della difesa degli interessi della classe media e operaia del Paese. La scelta obbligata dall’insostenibilità della spesa statale segna in realtà una precisa tendenza: il declino della potenza militare mondiale degli Usa. La tendenza è stata di lungo periodo e il suo avvio può essere ricondotto alla sconfitta nel Vietnam, quella sì davvero epocale. Il tentativo estremistico dei neoconservatori americani di ricorrere alla guerra preventiva e permanente, sospingendo la spirale guerra-terrorismo-guerra è fallita disastrosamente. Non solo Obama ma anche Trump devono, seppure in termini radicalmente diversi, collocarsi all’interno dell’accettazione del declino degli Usa come potenza militare mondiale. La guerra non paga.

Cambia ancora il rapporto tra la politica e l’economia. Ancora, dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 alle Torri gemelle, la Borsa fu chiusa fino al lunedì successivo e l’impatto sull’economia fu enorme, così come sempre è stato significativo rispetto alle crisi politiche. Oggi non è successo nulla che la Borsa voglia segnalare. Si è prodotta allora una separazione tra la politica tradizionale e l’economia e la finanza. Per gli Usa del tempo di Biden, l’economia digitale, se vogliamo l’andamento economico di Google, Facebook, Apple, Amazon, Microsoft, conta molto più della presenza militare del Paese e dunque del complesso militare statale. Le scelte da compiere in Europa non potrebbero e non dovrebbero ignorarla, tantomeno dovrebbero farla nei confronti dei mutamenti in corso negli

assetti geopolitici del mondo. Su questi, il nuovo Emirato afghano può diventare una delle chiavi di volta nel gioco delle grandi potenze impegnate nella ridefinizione nell’assetto dell’Asia centrale. Lo sfruttamento delle terre rare, le linee di comunicazioni sino-russe che possono tagliare in due l’Asia, il turbolento confine tra il Pakistan e l’India ridefiniranno i rapporti tra la Cina, la Russia, il Pakistan e l’India.

Tutto è ormai terribilmente instabile. La fine dell’insensata guerra americana in Afghanistan non ne costituisce una delle cause, ma una delle conseguenze. Il presidente Mao avrebbe detto: il disordine è totale, dubito che avrebbe ancora aggiunto che la situazione è eccellente. La crisi ecologica è diventata esplosiva. Il sesto rapporto dell’Itcc delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici è implacabile, e suona la campana dell’ultimo giorno. Ma in realtà, per chi suona la campana? Per chi la può e la sa sentire. A impedirne l’ascolto c’è proprio il modello di sviluppo che nessuna classe dirigente europea pensa di mettere realmente in discussione. I costi della necessaria riconversione, che solo una radicale riforma sociale renderebbe sopportabili, proprio nelle realtà più dolenti, costituisce un problema nel problema. Queste realtà sociali nel mondo, in Europa, in Italia, vivono una crisi profonda, lunga e destrutturata. Si configurano come una vera e propria crisi di civiltà. Quelle libertà e democrazie che con la guerra l’Occidente avrebbe voluto esportare sono minacciate al suo interno dal capitalismo dell’innovazione e della crisi, sono svuotate di significato da una politica e da istituzioni senza popolo.

È solo un pigro e inintelligente riflesso condizionato che ha portato tanta politica europea a pensare di coprire un vuoto con lo stesso materiale che ne ha provocato la perdita. Se gli Usa se ne vanno dall’Afghanistan con il loro esercito e con i loro alleati vuol dire che è in atto il suo disimpegno militare da teatri che l’avevano vista protagonista. Riempire quel vuoto con un esercito europeo nella stessa cornice euroatlantica è semplicemente insensato.
Per avanzare questa proposta si avanza l’ipotesi secondo la quale Usa e Cina saranno impegnate in una nuova guerra fredda. È quasi incredibile questo impasto di conservatorismo e di lettura della Storia come se essa andasse solo all’indietro. Come abbiamo visto, il mondo non si racchiude affatto nella triade Usa-Cina-Europa, e il conflitto tra la Cina e gli Usa non è per nulla quello della guerra fredda del dopoguerra, dove si combattevano due mondi contrapposti e nemici, nemici fino alla minaccia atomica, due modelli e due società contrapposte nel modello economico e sociale, nel rapporto tra lo Stato e la società, nella cultura, nella politica, nell’ideologia.

A ognuno nel mondo veniva chiesta una scelta di campo. Un’analisi appena approfondita del capitalismo finanziario globale dell’andamento complesso della stessa globalizzazione spazzerebbe via questa versione di comodo e ci restituirebbe il mondo reale con le sue contraddizioni, con la sua instabilità. L’Europa se vuol diventarne protagonista deve scegliere la via dell’autonomia, sia per una diversa collocazione tra nord e sud del mondo, che per collocazione geopolitica, che per proposta di un modello originale economico, sociale, ecologico e civile, ripartendo dalla sua vocazione vitale e perduta, quella euro-mediterranea. L’Europa delle traduzioni – l’ha chiamata Étienne Balibar – sarebbe una nuova via, la cui riconoscibilità nel mondo e al suo interno la farebbe protagonista del dialogo tra i popoli, tra le civiltà, le religioni, le etnie, e la protagonista di una nuova costruzione tra popolo e istituzioni.

Ma allora, la levatrice di tutto ciò non può essere l’esercito europeo, a ricalcare il quadro irreparabilmente in crisi che abbiamo oggi sotto gli occhi, ma invece il suo contrario: la pace. Se vuoi pensare a una forza europea capace di diventare, anche attraverso le difficoltà terribili e le sconfitte inevitabili che puoi immaginare, un nuovo protagonista nel mondo, devi essere all’altezza dell’ambizione. Solo diventando il portavoce di pace, e solo di pace, l’Europa può provarci. Verrebbe da dire: lasciate perdere l’esercito, di cui sappiamo già tutto, sia esso nazionale o sovranazionale e proviamo invece a concepire e a costruire una forza di pace europea. L’Europa è ancora senza costituzione, potrebbe provvisoriamente prendere in prestito, ai fini di questa operazione, l’articolo 11 della nostra Costituzione, si tratterebbe soltanto di sostituire l’Italia con l’Europa: “L’Europa ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Oggi, impariamo ogni giorno che per ripudiare la guerra devi costruire la pace e per costruire la pace, visto che non puoi farlo con l’esercito e la guerra, ce lo dice anche da ultimo l’Afghanistan, devi inventarti anche una nuova forza, capace di agire in ogni parte del mondo per la pace. Lo fanno, fuori dalle istituzioni, uomini e donne di buona volontà, lo fanno associazioni, organizzazioni di scopo, tanto volontariato. Tutto questo e altro ancora potrebbe essere riorganizzato in una forza istituzionale europea, in un’organizzazione inedita perché nuove sono le sfide di fronte all’Europa e al mondo. Quest’Europa riscoprirebbe così le sue radici, oltre alle frontiere nazionali, religiose, statuali. La nascita di una forza di pace, al posto dell’esercito, aprirebbe una quantità gigantesca di problemi, a partire dall’incredibilità che può suscitare, alle difficoltà politiche di un’Europa incapace di decidere (ma varrebbe anche per le scelte perdenti dell’esercito europeo), alle difficoltà di progettare un’organizzazione così complessa. Tante difficoltà, ma almeno questa proposta avrebbe già la sua capitale, il luogo della sua sede europea: Assisi.