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Piazze no-green pass. I valori dell’antifascismo non sono retorica ma radice della democrazia. Il discrimine dell’assalto alla sede nazionale della Cgil «dimenticato» dai no-green pass

Manifestazione no green pass a Milano

Manifestazione no green pass a Milano © Luca Bruno /AP

Per il quattordicesimo sabato consecutivo, manifestazioni cosiddette «no green pass», più o meno partecipate a seconda delle città, hanno rappresentato uno «scenario di contesto» del nostro presente.

Caratterizzato da due elementi: la frammentazione dell’agire pubblico e una china post-ideale, più ancora che post-ideologica.

Il primo si pone come preannuncio della inservibilità politica sul piano materiale di un tale aggregato; Il secondo come ripiegamento sul terreno valoriale che trova nella presenza fascista in seno ai cortei (ultimo il gruppo Do.Ra. a Milano) il più evidente degli esempi.

IL 9 OTTOBRE IN QUESTO senso segna un vero e proprio spartiacque attorno alla questione centrale del nostro paradigma costituzionale dei diritti: l’antifascismo.

Il raid squadrista contro la sede nazionale della Cgil, infatti, ha fatto esplodere tutte le contraddizioni interne sia all’aggregato che contesta la «carta verde» sia in seno ai partiti in Parlamento.

La debolezza culturale e politica del dibattito pubblico in Italia sull’antifascismo sconcerta.

Da un lato si risolve, nel migliore dei casi, nella discussione

circa l’opportunità di scioglimento delle organizzazioni neofasciste (che dovrebbe senz’altro essere perseguito); dall’altro nella peggiore tipologia dell’italico dibattito ovvero con destre postfasciste, liberali a-fascisti e della società anti-antifasciste parti (tutt’altro che marginali sul piano numerico ed economico-sociale) impegnate ad eludere qualsiasi trattazione seria sul tema per il tramite di confuse, mal studiate e mal poste dicotomie politiche.

COSÌ DA GIORNI si assiste a discussioni sull’equiparazione degli opposti estremismi di destra e sinistra come moderno aggiornamento della parificazione di fascismo e comunismo oppure (è il caso appena meno rozzo ma sostanzialmente conforme al primo) alla rivendicazione di antifascismo e anticomunismo come valori equiparabili in democrazia, una rappresentazione utilizzata prevalentemente come «giustificazione del presente» e come legittimità esclusiva di un assetto immutabile.

Stante la fallacia di affermazioni smentite dai fatti della storia (pensiamo al contributo fondante dei comunismi mondiali nella Resistenza, nella Seconda Guerra Mondiale, nella ricostruzione del mondo post-bellico, nella creazione di Stati costituzionali come l’Italia o di organismi internazionali come l’Onu), il tema non dovrebbe comunque riguardare la contrapposizione fascismo-comunismo ma la biforcazione storica fascismo-antifascismo.

È questo ciò che segnala l’assalto alla Cgil e che invece viene accuratamente evitato. La qualificazione dell’antifascismo non solo come movimento di urto contro le dittature dell’Asse Roma-Berlino (dunque limitato al tempo storico della guerra e del regime) ma soprattutto come «teoria dello Stato» in grado di disegnare modelli materiali dello spazio pubblico costruiti attorno alla democrazia conflittuale; all’allargamento paritario dei diritti sociali, civili e politici di donne e uomini; alla partecipazione delle classi popolari alla direzione dello Stato; al rifiuto della guerra ed alla promozione della cooperazione internazionale tra i popoli.

UNA «TEORIA DELLO Stato» non limitata ai confini italiani ma che dal confino (fascista) italiano prese corpo e forma con il «Manifesto di Ventotene» che disegnava la costruzione di un assetto internazionalista in luogo dell’ideologia nazionalista che aveva portato l’Europa nel baratro di due guerre mondiali.

Ciò che sdegna delle manifestazioni di oggi non è solo la presenza fascista nei cortei (già di per sé fattore discriminante) ma soprattutto il fatto che dal 9 ottobre in poi le sedi della Cgil, le Camere del lavoro ed i luoghi del movimento sindacale continuano ad essere ritenuti obiettivo da colpire e devono essere protette in modo encomiabile da militanti, quadri e lavoratori.

È IN QUESTA CONTINUITÀ tra i fatti del 9 ottobre ed i successivi tentati raid contro il mondo del lavoro che si accende la spia di una situazione più complessa in una fase di transizione come l’attuale.

Non saranno certo i soggetti che in piazza attaccano i luoghi del lavoro a svolgere ruoli e funzioni nella ricostruzione post crisi pandemico-sociale.

Sarà molto probabilmente qualcosa di diverso e di non ancora emerso. Qualcosa per ora rifluito nell’astensione (ormai maggioritaria) ma pronto a riemergere come base di massa di un nuovo assetto nel momento in cui le decisioni sul futuro chiameranno in causa interessi di classe e ragioni sociali diverse e contrapposte tra loro.

Fu così dopo i governi «tecnici» di Ciampi (che segnò la fine del sistema dei partiti anticipando l’avvento berlusconiano) e Monti (espressione prima dell’austerità e poi dell’esplosione dei populismi sovranisti). Quello di Draghi difficilmente farà eccezione e per questo sarà necessario prepararsi per tempo.