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 Fernand Leger

La discussione avviata da Norma Rangeri sul manifesto punta dritto a una questione centrale per il futuro del nostro paese: l’assenza di una forza politica che difenda le ragioni e i diritti dei lavoratori e, comunque, della parte più debole della società italiana.

In questi anni sono andati in fumo innumerevoli tentativi di costruire quel “largo campo” da molti auspicato. Sel (2009), Alba (2012), Lista Tsipras (2014) sono solo alcune delle sigle, tutte dai risultati parziali se non effimeri, sperimentate soprattutto a partire da quel lontano 1991 quando nacque Rifondazione comunista per opporsi allo scioglimento del Pci deciso al XX congresso.

Sulle ragioni che hanno portato a tanti insuccessi hanno scritto nei giorni scorsi su questo giornale, in particolare, Piero Bevilacqua (4 novembre) e Antonio Floridia (6 novembre).

Entrambi hanno convincentemente mostrato che la presenza stessa del partito che ha raccolto o, per meglio dire, avrebbe dovuto raccogliere l’eredità della sinistra italiana, è di per sé un ostacolo alla costruzione di un nuovo soggetto politico in quel campo.

Il Partito democratico, nonostante le politiche di marca inequivocabilmente centrista, esercita una forte attrazione verso l’elettorato progressista che teme e vuole efficacemente combattere il prevalere delle destre, in Italia tra le più reazionarie del continente; mentre il cosiddetto “voto utile” non è affatto indigesto a chi intenda lasciare un segno delle sue scelte ed è sempre meno incline a sposare cause formali o ideologiche.

Portare a logica conclusione queste condivisibili premesse richiede probabilmente un cambiamento radicale nelle strategie che sono state sin qui attuate per dare rappresentanza e voce alla sinistra italiana.

C’è un precedente infruttuoso e che nulla ha a che fare con la sinistra ma che può aiutarci a sviluppare un “pensiero laterale” rispetto al problema che abbiamo di fronte.

Nel luglio del 2009 Beppe Grillo tentò di scalare il Pd ma, vistosi respinto, nell’ottobre dello stesso anno fondò il Movimento 5 Stelle. So bene quanto possa suonare velleitario e blasfemo, me ne accorgo mentre ne scrivo, un progetto che abbia in animo di riavvolgere la matassa srotolata della sinistra italiana.

Il Pd si è allontanato troppo dalla traiettoria storica del movimento operaio e, peggio ancora, in alcune parti del Paese non riassume in sé che comitati elettorali talora infiltrati dalla criminalità. Una scelta dunque dura, durissima, un tentativo difficile.

Un serio azzardo l’ingresso nel Pd di singoli e di gruppi con l’intento di spostarne a sinistra il baricentro politico. Non solo un’operazione del genere richiederebbe un coordinamento a livello nazionale ma l’assunzione di alcune garanzie di base che dovrebbero venire dalla segreteria del Pd, eventualmente interessata a giocare quella partita con l’obiettivo di un miglior radicamento sociale e sul territorio.

Che condizioni bisognerebbe porre? Quelle minime perché la battaglia politica interna possa liberamente svilupparsi, dalla regolarità della convocazione delle assemblee alla trasparenza degli atti, dalla scalabilità effettiva delle posizioni di vertice alla libera partecipazione e espressione delle idee.

Forse tutto ciò non è neppure possibile ma l’idea stessa che tutte le minuscole organizzazioni a sinistra del Pd depongano le armi e aprano insieme una discussione di questo genere sarebbe un importante passo in avanti, essendo oramai chiaro che sarebbe di gran lunga preferibile una rappresentanza minoritaria all’interno di un grande partito che non una nebulosa di minuscoli, invisibili frammenti.