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La conferenza stampa di fine anno. Se ancora c’era qualche dubbio sulle intenzioni di Draghi di trasferirsi sul Colle più alto, dopo le sue parole di ieri, quel dubbio è stato definitivamente fugato

Il primo ministro Mario Draghi arriva alla tradizionale conferenza stampa di fine anno  © Ap

Rubando il mestiere (e probabilmente la poltrona) al più rinomato illusionista della politica nazionale, e senza neppure bisogno della barba bianca e della slitta, per il santo natale il nonno d’Italia ci ha portato in dono se stesso nelle attuali vesti di salvatore della patria e, soprattutto, in quelle future di prossimo Presidente della Repubblica.

Se ancora c’era qualche dubbio sulle intenzioni di Draghi di trasferirsi sul Colle più alto, dopo le sue parole di ieri, quel dubbio è stato definitivamente fugato.

La mossa del cavallo è stata del resto spiegata ai giornalisti molto accuratamente. Il pilota automatico ha lavorato bene, l’economia vola e la pandemia è sotto controllo, chiunque sarà il prossimo presidente del consiglio dovrà solo preoccuparsi di seguire il mio manuale delle istruzioni fino alla fine della legislatura. Il governo ha svolto tutti i compiti per cui era stato chiamato da Mattarella e di conseguenza ha poca importanza chi verrà dopo di me. Mario Draghi dixit, chiaro e tondo.

Dunque probabilmente assisteremo, per la prima volta dalla

nascita dalla Costituzione, al trasloco di un presidente del consiglio direttamente da Palazzo Chigi al Quirinale. E il nostro paese sarà protagonista di una ulteriore torsione presidenzialista, dopo quella già vissuta dieci mesi fa: una crisi di governo orchestrata, con manovre di palazzo e in piena pandemia, per sostituire una maggioranza di centrosinistra con un’altra spostata a destra.

Allora ci veniva spiegato che la chiamata dell’ex capo della Bce a palazzo Chigi era l’unica arma di salvezza nazionale, così come adesso ci viene assicurato, dai suoi numerosi estimatori dentro e fuori i confini nazionali, che l’inedito strappo di un Presidente della Repubblica che nomina alla guida di un nuovo governo il suo portavoce, non è lo stravolgimento di fatto degli equilibri istituzionali, ma una grande prova di democrazia decidente.

Noi, che abbiamo giudicato il suo gabinetto, tra le fanfare di Confindustria, una netta virata dell’asse economico, sociale e politico del paese, e osservato quell’operazione come foriera di successive involuzioni istituzionali, ne siamo tanto più persuasi se davvero domani Draghi diventasse Capo dello Stato e nello stesso tempo king-maker del suo avatar al governo.

Un inedito accentramento di poteri, in sostanza un semipresidenzialismo alla francese, senza neppure l’elezione diretta. Come del resto aveva annunciato uno dei ministri leghisti più vicini al presidente del consiglio.

Né più, né meno che lo stravolgimento dell’istituzione oggi ancora costituzionalmente indifferente e neutra perché spogliata di ogni connotazione programmatica rispetto alle scelte governative, domani, con Draghi, vestita degli abiti propri di massimo esponente e garante più che dell’unità nazionale di una linea politica, persino al di là delle proprie intenzioni.

Naturalmente Draghi fa quello che le forze politiche gli consentono di fare. E proprio per questo le ha volute ringraziare innumerevoli volte. Ma è chiaro come il sole che non avremmo avuto bisogno della sua scesa in campo se i partiti non avessero scelto di annullare le differenze politiche per affidare le sorti del paese a un illustre economista, che solo il paravento di una falsa coscienza può definire un tecnico.