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EDITORIALE. Napolitano è stato il primo capo dello Stato a vivere due volte il mandato presidenziale. È stato anche il primo ex comunista al Quirinale e non è improbabile che resti il solo

Il migliorista che faceva i governi, bersaglio delle nostre prime pagine 

Nel corso della sua lunga vita e del suo lunghissimo mandato al Quirinale (solo tra qualche giorno il presidente Mattarella lo supererà in durata), Giorgio Napolitano è finito molte volte sulla nostra copertina. Praticamente sempre, poche le eccezioni, lo abbiamo «sbattuto» in prima pagina per criticarlo. Anche oggi avremmo dovuto dedicargli la prima del giornale. Per la verità, essendo la sua fine annunciata da qualche giorno avevamo anche pensato al titolo con il quale salutarlo. Ma lo teniamo per noi, perché il governo che mette il pizzo sulla libertà dei migranti ci impedisce di voltarci dall’altra parte: per noi la notizia più importante della giornata, nella sua gravità, resta quella. Anche se con Napolitano scompare non solo un protagonista della nostra storia, ma un ex presidente della Repubblica che ha cambiato, incarnandola, l’istituzione più alta.

Napolitano è stato il primo capo dello Stato a vivere due volte il mandato presidenziale. È stato anche il primo ex comunista al Quirinale e non è improbabile che resti il solo. Sul Colle, non ha mai dismesso la sua attitudine politica, facendo pesare il ruolo molto nelle scelte politiche interne e moltissimo in quelle estere. Nemmeno per un giorno è stato il notaio della Repubblica, come si è detto di altri. Ha fatto e non fatto governi. Almeno uno, quello Berlusconi nel 2010, l’ha salvato da morte certa. Il governo che non ha fatto partire è stato quello Bersani: il segretario del Pd dopo le elezioni del 2013 aveva la maggioranza solo in un ramo del parlamento, ma poteva cercarla nell’altro. Napolitano lo bloccò, aprendogli il sentiero dell’inferno dello streaming con i 5 Stelle. Il governo che ha fatto – non il solo ma quello che più di tutti è nato sotto la sua impronta – è naturalmente quello Monti inventato nel 2011. Finì male, tanto per il governo quanto per Monti, destino inevitabile per quella operazione di spericolata ingegneria politica. L’onda «populista» dei 5 Stelle spaventava, ma si finì per farla montare rinviando le elezioni. Nel 2013 i 5 Stelle sfiorarono il 26% anche se Napolitano finse di non accorgersene: non ho visto nessun boom, disse. I grillini erano diventati il primo partito. Ma non fu un caso quell’errore, né solo il frutto delle pressioni europee. C’era all’opera anche quel po’ di sfiducia di fondo nel popolo elettore che veniva talvolta a galla nei gruppi dirigenti comunisti in generale e miglioristi in particolare.

RICHIAMATO a furor di palazzo sul Colle, Napolitano è stato anche il primo presidente della Repubblica a prendere a sberle il parlamento in seduta comune, intimandogli di fare le riforme costituzionali per le quali provò a provvedere lui stesso, nominando una schiera di saggi di fiducia. Il giorno in cui la camere applaudirono chi le stava mortificando, il manifesto titolò «Diktat». E nel giorno storico del secondo mandato scegliemmo «Sono Stato», titolo che ci ha fatto vincere mille bottiglie di spumante grazie a un premio riservato al migliore dell’anno.

22-diktat
22-ilmigliore
22-lammorbidente
22-redimaggio
22-sonostato

Non erano titoli benevoli. Del resto la storia politica eretica del manifesto e quella del numero uno dei comunisti miglioristi – aggettivo che a Napolitano non piaceva, anche se apprezzò la versione inglese «the improvers» che inventò il New York Times quando nel 2011 gli dedicò un lusinghiero ritratto – erano difficilmente conciliabili. E «Il migliore» fu il titolo di prima pagina con il quale salutammo la sua (prima) elezione al Quirinale, nel 2006. Fummo i primi a dargli del monarca persino con qualche giorno in anticipo sull’elezione, con un titolo (ammettiamolo) assai irriverente: «Il re di maggio» (era il 9 maggio 2006). Mentre nel giorno in cui il primo comunista stava per salire al Colle giocammo con i classici: «Adda venì Giorgione», anche questo un colpo basso per un dirigente politico non estraneo alle accuse di stalinismo, non solo per l’Ungheria del ’56 – Napolitano ha dichiarato più volte di essersi pentito di quel «certo zelo conformistico» con cui appoggiò, insieme a tutto il gruppo dirigente comunista, l’invasione sovietica – ma anche per la sua biografia di comunista napoletano, in quanto tale tirato su dall’operaio stalinista Salvatore Cacciapuoti. A Napoli in quegli anni si allevavano comunisti di un certo conio e anche il borghese Napolitano finì a respirare la corrente del Golfo, più Croce che Gramsci, più Amendola che Togliatti.

MALGRADO le dure critiche, da gran signore Napolitano fu sempre attento al nostro giornale. Nel 2011 ci scrisse per contestare gli attacchi che gli avevamo rivolto perché aveva dato il via libera – ma di più, aveva spinto – l’intervento italiano nella guerra alla Libia. Prima, nel 2006, aveva mandato una lettera persino affettuosa a Valentino Parlato (si conoscevano da decenni) per augurare lunga vita al manifesto: «È vero, nel passato tra noi ci sono state dispute politiche e polemiche giornalistiche, ma sempre nel quadro del reciproco rispetto e come espressione di una dialettica viva e di un pluralismo fecondo». Ma si arrabbiò assai il giorno in cui, per criticare la sua linea morbida verso alcune leggi sulla giustizia di Berlusconi, lo battezzammo in prima pagina «L’ammorbidente».

Concludendo dobbiamo citare le volte in cui le nostre prime pagine hanno invece parlato bene di Napolitano. Ci sono state anche quelle, non tante, ne ricordiamo due. Quando nel 2009 il presidente volle «ridare l’onore a Pinelli, vittima due volte». E quando nel 2013 mandò alle camere un coraggioso messaggio sulla condizione delle carceri, chiedendo – invano – l’indulto e l’amnistia. Ricordarlo così, adesso, ci piace