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Sessanta chilometri da Tel Aviv a Gerusalemme per i 239 ostaggi israeliani. La marcia arriva davanti alla residenza di Netanyahu per chiederne il rilascio, ma il premier non c’è e non ha nessuna intenzione di trattare: «Quando ci sarà qualcosa da dire vi aggiorneremo»

IL FRONTE INTERNO. Arriva a Gerusalemme la Marcia per gli ostaggi, rassicurazioni dal gabinetto di guerra, Netanyahu promette un colloquio lunedì. Altre proteste si tengono, come ogni sabato sera, in varie località del Paese

«Portateli a casa». Inizia un nuovo giorno all’ombra della paura La marcia per gli ostaggi partita arriva Gerusalemme davanti alla residenza di Netanyahu - foto Ansa

Dopo che alle 18 sono suonate nuovamente le sirene, venerdì sera le vie di Tel Aviv sono quasi deserte. Un gruppo di giovani appena usciti dalla sinagoga conversa mentre si affretta a tornare a casa per la cena del sabato. «Non si può sacrificare un intero paese per 240 persone» dice M., israeliano sulla trentina che chiede di rimanere anonimo. «La priorità assoluta è quella di indebolire al massimo Hamas e assumere il controllo di Gaza, certamente speriamo di avere l’opportunità di riportare a casa anche gli ostaggi. Poi per garantire la sicurezza bisognerà cambiare linea e diventare più duri anche in Cisgiordania». Accanto a lui alcuni ragazzi di origine europea: «Abbiamo votato Netanyahu perché era l’unica opzione, ci ha delusi ma non dobbiamo farci confondere dalla complessità della situazione, siamo la generazione che precede l’arrivo del Messia». «Per me Israele non sarà sicura finché ci saranno gli arabi» dice una ragazza con l’accento francese. «Ti sbagli io sono di Haifa e a scuola molti dei miei migliori amici erano arabi» risponde un addetto alla sicurezza. «Gli arabi israeliani sono un’altra cosa» aggiunge M., «ma anche loro dovranno scegliere da che parte stare».

POCHE ORE DOPO si è tenuta sul lungo mare di Tel Aviv vicino a Yafo la prima manifestazione congiunta organizzata dal partito misto Hadash che, seppure con grande fatica, ha ottenuto il permesso della polizia. I partecipanti sono alcune decine, chiedono la pace e il cessate il fuoco in nome di un futuro condiviso come unica forma di convivenza possibile. Un uomo sulla sessantina sostiene che «affinché le cose cambino è necessaria la pressione esterna perché la maggior parte degli israeliani non sono consapevoli di quel che avviene a Gaza». A pochi metri gridano infervorati alcuni estremisti di destra che

pompano musica a tutto volume per provocarli. «Non ci sarà mai la pace e loro sono gli unici colpevoli di tutto» dice una ragazza additando i pacifisti con disprezzo.

INTANTO, nello spiazzo adiacente al museo di Tel Aviv dove si riuniscono le famiglie degli ostaggi siede un gruppo che fa capo al kibbutz di Nahal Oz, uno dei più colpiti dal massacro e che conta diversi membri tra gli ostaggi. Uno dei presenti attribuisce tutte le colpe agli Usa, mentre altri pensano che l’orientamento politico pacifista degli ostaggi giochi a loro sfavore.

Sempre sabato pomeriggio è terminata a Gerusalemme la marcia delle famiglie degli ostaggi, cominciata a Tel Aviv martedì. Davanti all’Ufficio di Netanyahu si sono raccolte migliaia di persone a scopo di sostegno e protesta. I manifestanti hanno fatto ingresso in città intorno alle 15.30 gridando «bring them home now» e chiedendo di venir ricevuti dal gabinetto e aggiornati sulla sorte dei loro cari. Nel corso dell’incontro i ministri Gantz e Eisenkot hanno rassicurato le famiglie dicendo che la trattativa per il riscatto è la priorità assoluta del governo che se ne occupa giorno e notte, poiché il tempo gioca a sfavore, mentre l’annientamento di Hamas richiederà diverse settimane. Ganz ha precisato anche che il gabinetto è convinto che la pressione militare sia di aiuto per la restituzione degli ostaggi. Nel frattempo Netanyahu ha promesso loro un incontro questo lunedì alla presenza di Gallant.

LA SOLITUDINE e la disperazione dei parenti degli ostaggi e delle vittime dirette del 7 ottobre alludono una volta di più al fallimento delle istituzioni israeliane anche a 42 giorni dal massacro. E se nei mesi precedenti la popolazione civile si divideva sulla questione della riforma giudiziaria, ora come ora quello del riscatto degli ostaggi è uno degli argomenti più delicati anche dal punto di vista etico.

A fine giornata, nel corso della conferenza stampa di ieri tenuta insieme agli altri membri del gabinetto, Netanyahu ha sottolineato l’importanza del supporto degli altri paesi, a cominciare dagli Usa, compiacendosi per l’imponente manifestazione contro l’antisemitismo tenutasi a Washington nei giorni scorsi. Anche alla domanda dei giornalisti sul perché Israele abbia acconsentito a far entrare benzina e aiuti umanitari senza pretendere il rilascio degli ostaggi, né una visita della Croce Rossa che possa rassicurare sul loro stato di salute, Netanyahu ha risposto sottolineando la necessità di esaudire le richieste dei paesi esteri per mantenerne il consenso. Ma nonostante le ripetute rassicurazioni del gabinetto sull’andamento della guerra, è difficile per la popolazione israeliana credere alle affermazioni di un governo che sembra avere le ore contate.

COSÌ, MENTRE altre proteste si tengono come ogni sabato sera in varie località del paese, gli israeliani si apprestano a cominciare una nuova settimana all’ombra dell’incertezza, del lutto e della paura, complice anche il disagio che proviene dall’aumento spasmodico degli atti di antisemitismo in diversi paesi del mondo. Una solitudine particolare riguarda le donne che si sentono tradite e abbandonate dalle organizzazioni femminili che tacciono inspiegabilmente di fronte alle violenze sessuali e ai brutali crimini di genere commessi dagli uomini di Hamas. L’antisemitismo e il numero sproporzionato di vittime a Gaza sembrano aver reso il mondo insensibile e impermeabile ai massacri del 7 ottobre che hanno sconvolto la vita dei civili israeliani. Le uniche ricompense a tanta sofferenza potranno essere solo la pace e una soluzione politica di lungo periodo, ma la meta sembra allontanarsi ogni giorno di più