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STRAGE SENZA FINE. Da Nord a Sud della penisola non si ferma la scia di sangue: quattro erano edili, padre e figlio in una tinozza di vino a Gioia del Colle

In 24 ore ben sei morti sul lavoro: due nel bresciano Una magliettta per ricordare la strage sul lavoro - Foto Ansa

In giornate in cui la morte di persone famose blocca il paese, le sei sul lavoro di ieri non fanno – come al solito – notizia. La striscia di sangue va da nord a sud e non sembra essere fermabile.

A Brescia un uomo è precipitato da un traliccio dell’alta tensione alto circa 50 metri a Castegnato, lungo la via Padana Superiore 111/a. Si tratta di un lavoratore albanese di 23 anni residente a Caorle. Era al lavoro per conto di una ditta privata impegnata nella sostituzione della fune di guardia di una rete elettrica di Terna.

A pochi chilometri di distanza, lungo l’autostrada A4, nella tratta tra Desenzano del Garda e Brescia un lavoratore di 60 anni è stato investito da un mezzo pesante di passaggio. La vittima è un uomo di 60 anni: secondo la prima ricostruzione è stato travolto da un mezzo pesante cassonato che trasportava terra. L’operaio è morto sul colpo. Proprio nel tratto di strada interessato dal tragico infortunio è in corso l’asfaltatura della corsia di emergenza e prima corsia, ragione per la quale la circolazione è limitata alle due corsie residue.

Nel catanese un operaio di 56 anni, Angelo Aleo, è morto in un incidente in un cantiere edile di Misterbianco. Secondo una prima ricostruzione, sarebbe precipitato da tre metri durante la realizzazione del solaio di un edificio per abitazione. La salma, su disposizione della Procura di Catania, è stata trasferita nell’obitorio del policlinico.

È poi deceduto il lavoratore di 43 anni, Pasquale Cosenza, che il 9 giugno è precipitato da un capannone di un’azienda nella zona industriale di Pastorano, a Caserta, mentre stava montando dei pannelli solari.

Infine, due uomini, padre e figlio di 47 e 81 anni, sono morti in un incidente sul lavoro lunedì notte dopo essere caduti in una cisterna contenente vino nella Cantina Storica del Cardinale a Gioia del Colle, in provincia di Bari. Le due vittime stavano pulendo la cisterna. La morte è avvenuta a causa delle esalazioni. Il figlio è caduto per primo avvertendo i sintomi tipici e poi il padre ha fatto la stessa fine nel tentativo di aiutarlo.

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LUTTO UNIVERSALE. Si ferma il motore e il barcone stracarico si ribalta. I migranti partiti da Tobruk. «Necessario come non mai un sistema di pattugliamento in alto mare», dice Flavio Di Giacomo (Oim). Dalla Ue le solite espressioni di cordoglio, ma la strategia è ostacolare i viaggi sostenendo i libici

 Il peschereccio naufragato - Guardia costiera greca

Rischia di essere uno dei più grandi naufragi della storia quello avvenuto nelle prime ore di ieri al largo delle coste del Peloponneso, una quarantina di miglia nautiche a sud-ovest di Pylos. Mentre scriviamo sono stati recuperati 79 cadaveri e tratte in salvo 104 persone. Non esistono numeri certi sui dispersi, ma si tratta di centinaia di persone. E non ci sono speranze di trovarle in vita. Inizialmente le autorità greche avevano parlato di 400 migranti a bordo. Più tardi il governatore della regione Panagiotis Nikas, citando testimonianze dei sopravvissuti, ha dichiarato che sul peschereccio viaggiavano circa 750 migranti.

UNA CIFRA che corrisponde a quella comunicata dall’attivista Nawal Soufi e dal centralino Alarm Phone (Ap), che martedì avevano ricevuto delle telefonate da bordo. «La nave era sovraccarica, le persone ammucchiate sul ponte. Un numero esatto non può essere dato ma è certamente molto alto – ha detto il portavoce dei guardiacoste di Atene Nikolaos Alexiou – L’esterno era pieno di gente, presumiamo anche l’interno della nave».

Per trovare stragi di queste dimensioni, se il quadro sarà confermato, bisogna andare indietro di sette-otto anni. Il 18 aprile 2015 il più grande naufragio di migranti nel Mediterraneo: tra 800 e mille morti nel Canale di Sicilia. Altri 500 davanti alle coste di Zuwara quattro mesi dopo. Tra 200 e 400 partiti dall’Egitto ad aprile 2016.

SECONDO LE INFORMAZIONI disponibili il peschereccio aveva

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L'UNTO NAZIONALE. Camera e Senato chiusi per due giorni, bandiere a mezz’asta sugli edifici pubblici. 1.800 personalità in Duomo, maxi schermi in piazza. La Rai alla fine farà le riprese, che saranno trasmesse a reti unificate

Per Berlusconi un funerale senza precedenti Omaggio a Berlusconi davanti Villa San Martino, ad Arcore - foto Getty Images

L’egemonia culturale della destra è nascosta in piena vista: per i funerali di Stato di Silvio Berlusconi, previsti per il pomeriggio di oggi al Duomo di Milano, il paese si fermerà completamente, le televisioni trasmetteranno tutte le stesse immagini (diffuse dalla Rai, che se le è riprese da Mediaset) e già da lunedì ogni frase, ogni dichiarazione, ogni pensiero sull’ex premier vanno nella direzione di una beatificazione anticipata, eliminando da ogni narrazione – pubblica o privata che sia – tutto quello che non è stato notevole, rimirabile, eccezionale. E chi la storia vorrebbe ricordarla tutta, viene etichettato come una cinica bestia priva di cuore.

E COSÌ IL GIORNO dell’addio a Berlusconi sarà esattamente come è stata la sua vita: senza precedenti. È la prima volta infatti che è stato proclamato il lutto nazionale per un ex premier, una scelta assunta in autonomia dal governo. Per oggi allora le bandiere saranno calate a mezz’asta sulle facciate degli edifici pubblici, mentre per quelle all’interno sono previste due strisce di velo nero a corredare il tricolore. Gli esponenti del governo saranno costretti a cancellare ogni impegno pubblico, mentre per i negozi ci sarà la possibilità di tenere le serrande abbassate per l’intera giornata.

Camera e Senato pure interromperanno i loro lavori per la giornata di oggi, ma già domani alle 15 torneranno a riunirsi le commissioni, sia pure senza che siano previsti voti in aula.

Per quello che riguarda la cerimonia, all’interno del Duomo ci sarà spazio per 1.800 ospiti speciali, tra cui diverse personalità internazionali: ambasciatori, ministri degli Esteri e capi di stato e di governo, come l’ungherese Viktor Orbán, l’iracheno Abdul Latif Sharid e l’emiro del Qatar Tamin bin Hamad. Previsto l’arrivo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella e di Paolo Gentiloni per conto dell’Unione Europea. Il Ppe manderà il suo presidente Manfred Weber.

FOLTA, ovviamente, anche la pattuglia politica italiana: il governo e la maggioranza saranno al gran completo, mentre dalle opposizioni parteciperà di sicuro la segretaria del Pd Elly Schlein – le ultime riserve sul punto sono state sciolte solo ieri pomeriggio -, così come si faranno vedere sia Matteo Renzi sia Carlo Calenda. Assenti Giuseppe Conte e Nicola Fratoianni. Tra gli altri hanno annunciato la propria presenza il fondatore della Lega Umberto Bossi, Letizia Moratti, Pier Ferdinando Casini e Benedetto Della Vedova. Non mancherà poi il mondo del calcio: il Milan e il Monza, va da sé, ma anche Urbano Cairo del Torino, Aurelio De Laurentiis del Napoli, Gianluca Ferrero della Juventus, Joe Barone della Fiorentina, Beppe Marotta e Steven Zhang dell’Inter, oltre al presidente della Fifa Gianni Infantino.

LA GIORNATA DI IERI, per il resto, ha visto come snodo fondamentale Villa San Martino ad Arcore. La sfilata di amici intimi e familiari è stata imponente, anche se con pochi politici. Gli ingressi sono stati completamente gestiti da Mediaset, in ossequio al diktat familiare di mantenere la faccenda il più privata possibile.

La bara di Berlusconi, chiusa e circondata da rose rosse e costantemente sorvegliata da Marta Fascina e da sua madre, non è stata sistemata nel famoso mausoleo, ma nella cappella di famiglia. In serata è arrivata anche la premier Giorgia Meloni, che era partita da Palazzo Chigi nel tardo pomeriggio. Insieme a lei il presidente del Senato Ignazio La Russa e il leader leghista Matteo Salvini. Al loro arrivo in corteo le decine di persone davanti ai cancelli si sono prodotte in un lungo applauso. Un’ora prima di loro si era fatto vedere Antonio Tajani, l’uomo che erediterà Forza Italia e proverà a farla sopravvivere alla morte del suo fondatore. È a lui che Letta ha raccontato gli ultimi giorni: il presidente ha sofferto molto, ma nessuno si aspettava che sarebbe arrivato il tracollo così all’improvviso. È anche per questo che venerdì pomeriggio Berlusconi è andato con Fascina a farsi un giro nella sua Milano 2: l’ultima passeggiata prima dell’ultimo ricovero.

Tra gli altri da segnalare la presenza ad Arcore del direttore della Verità Maurizio Belpietro, dell’ex senatore Antonio Razzi e di Massimo Boldi, che si è anche intrattenuto con i cronisti. «È come se Silvio fosse ancora qui – ha detto -, di lui ho tantissimi ricordi. Gli ho rubato diverse barzellette».

PEZZI DI UN UNIVERSO che, per un trentennio, è stato tutto o quasi per l’Italia. Un universo che forse era già scomparso, ma che adesso sembra quasi non essere mai esistito. Un universo che Berlusconi prima ha inventato e poi, contro ogni pronostico e ogni analisi, è riuscito a imporre. Al di là della narrazione quasi mistica di questi giorni, con il cavaliere narrato alla stregua di un personaggio celestiale, c’è la realtà di un sogno invecchiato e forse mai divenuto realtà. Perché se ci si interroga su cosa sia stata l’Italia durante il berlusconismo ormai si è persa la memoria di cosa è stata in precedenza. E nessuno ha davvero le idee chiare su cosa sarà in futuro.

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IL LIMITE IGNOTO. Quattro villaggi riconquistati nel Donetsk. Accuse all’esercito di Mosca: «Ha fatto saltare un’altra diga sul fiume Mokri Yala»

 Soldati ucraini vicino Bakhmut - Ap

La controffensiva si muove, non siamo ancora al momento decisivo ma i fronti sono aperti. Quattro direttrici d’avanzamento secondo gli analisti, forse anche 5, tutte concentrate tra l’est e il sud del Paese. Ieri i funzionari di Kiev hanno annunciato la riconquista di 4 villaggi nel Donetsk e una nuova avanzata nei pressi di Bakhmut. E intanto, nell’est, gli ucraini accusano la controparte di aver fatto saltare un’altra diga.

SONO ORE concitate lungo le linee di contatto, ma a Zaporizhzhia la situazione sembra piuttosto tranquilla. Suonano le sirene, soprattutto di notte, ma non è frequente sentire i boati delle esplosioni. Il viavai di mezzi militari però è costante. Ci sono nuovi simboli sugli sportelli e sui cofani per i quali viene usato il solito nastro bianco o la vernice spray. Si vedono sfrecciare per il Viale della Cattedrale le frecce, le croci, i triangoli con i numeri all’interno e il tragitto è sempre lo stesso: in uscita verso sud gli uomini freschi, in entrata chi deve riposare o va in licenza. Sono turni massacranti di almeno 36 ore e non a tutti è dato di rientrare in città, molti riposano tra Orikhiv e Huliaipole, dove sembra che il comando meridionale abbia ora stabilito i suoi avamposti.

A meno di 15 km c’è il fronte così come si è delineato a partire dalla primavera scorsa, dopo la caduta di Mariupol. Una linea quasi dritta che corre dalla parte est dell’oblast di Kherson e arriva fino al Mar d’Azov, alla regione russa di Rostov sul Don. A metà circa di questo territorio occupato si trova Melitopol, secondo molti analisti l’obiettivo principale dell’attuale controffensiva ucraina. Riconquistarla significherebbe riuscire a spezzare in due il controllo russo sulla costa del Mar Nero ucraina e isolare Kherson est, da cui partono bombardamenti costanti verso i territori controllati dalle truppe di Kiev. Inoltre, taglierebbe fuori la Crimea dai rifornimenti che attualmente arrivano via terra a causa del danneggiamento del ponte di Kerch. Un obiettivo ambizioso, in un’area dove teoricamente i russi si sono trincerati. Ma Melitopol continua a essere bombardata, è successo anche ieri secondo l’agenzia russa Tass.

Sullo stesso asse, ma più a est, c’è Mariupol. «L’esercito ucraino sta avanzando da Velika Novosilka nella regione di Donetsk lungo entrambe le sponde del fiume Mokri Yala e gli eventi più importanti si svolgeranno nelle vicinanze del villaggio di Staromlynivka nel prossimo futuro, perché il nemico ha concentrato lì le sue forze» scrive su Telegram il media ucraino Brc. Mokri Yala è un fiume ed è proprio su questo corso d’acqua che i russi avrebbero fatto saltare una diga (o forse aperto una chiusa) per rallentare l’avanzata ucraina. Kiev smentisce l’efficacia della manovra e dichiara di puntare diritto verso il porto del Mar d’Azov.

NELL’EST, INVECE, ci sarebbero stati i risultati più concreti. «In direzione di Bakhmut, le nostre truppe continuano le loro operazioni d’assalto» ha scritto su Telegram la viceministra della Difesa Hanna Malyar, «ci sono successi nell’area del bacino idrico di Berkhovsky. Siamo avanzati di 250 metri nel sud, siamo avanzati in due direzioni, da 300 a 1500 metri». Gli altri villaggi liberati sono Makarovka, Nekuchne e Blagodatnoye. Paesini di campagna, nulla di significativo dal punto di vista tattico, ma gli annunci servono anche a far capire all’estero che la grande manovra è partita.

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In Romagna dal 1 al 17 maggio sono caduti 5 miliardi di metri cubi d’acqua, con 32 mila sfollati, 15 morti, 8 miliardi i danni quantificati finora. I modelli climatici stabiliscono che un evento di questa portata si verifica ogni 200 anni. Ce ne sono stati due nel giro di 15 giorni. Vuol dire che la difesa del territorio andrà interamente riprogettata perché non sappiamo cosa ci attende. Nel mentre i romagnoli spalano e cercano di tornare a una normalità, ma non sanno quando ripartirà la ricostruzione perché il Commissario, che la deve gestire, ancora non c’è. L’area colpita vale 10 miliardi di export, 130 mila imprese, 443 mila occupati e 38 miliardi di valore aggiunto. Ma il disastro è solo la conseguenza di un fenomeno estremo o ci sono altre responsabilità? Vediamole una per una.
 
 
Il confronto improprio

Mentre la popolazione veniva evacuata con i gommoni, sui giornali e nei talk politici e opinionisti hanno subito fatto il paragone con

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IL LIMITE IGNOTO. Armi a Kiev finché sarà necessario, insiste Biden. Per Foreign Affairs non è la soluzione: prevalere sul campo è impossibile, lo dimostrano questi 15 mesi di combattimenti. Urge una fine negoziata del conflitto per fasi intermedie: così che i nemici possano convivere anche senza fare la pace

In Ucraina guerra lunga senza «vittoria». Usa, avanza la fronda realista Proiettili da 155mm destinati al fronte ucraino, pronti per essere inviati dalla base aerea di Dover, negli Stati Uniti - Ap

«Credo fermamente che disporremo dei fondi necessari per assistere l’Ucraina per tutto il tempo che sarà necessario». Così si è espresso Joe Biden nell’incontro avuto con Rishi Sunak alla Casa bianca, dove i due leader hanno riaffermato l’impegno a sostenere l’Ucraina fino alla «vittoria».

La nota formula stavolta è stata impiegata anche per dissipare lo scetticismo sul finanziamento della guerra che emana soprattutto da parte repubblicana. Una crescente minoranza, soprattutto sul fianco destro, è sempre più esplicita a riguardo, compresi diversi candidati presidenziali GOP che stanno collaudando posture isolazioniste, anche come posizioni elettorali.

Intanto, mentre esponenti dell’apparato militare, come David Petraeus sul Washington Post, guidano il tifo per la controffensiva ucraina, torna a farsi sentire la fazione realista che dai think-tank specializzati smorza i trionfalismi e invita al pragmatismo.

«UNA GUERRA NON-VINCIBILE» è il titolo, ad esempio, dell’editoriale apparso su Foreign Affairs, organo del Council of Foreign Affairs, a firma di Samuel Charap. L’articolo sostiene la necessità e l’inevitabilità di una fine negoziata alla guerra ucraina, ribadendo l’urgenza di «iniziare un dialogo» al fine di visualizzare una conclusione, o quantomeno «congelare» un conflitto che in caso contrario promette di prolungarsi per anni a venire. Secondo Charap, senior political scientist presso la Rand Corporation, un tale scenario comporta rischi «esistenziali» per l’equilibrio geopolitico globale.

Nel suo articolo l’autore sostiene che l’invasione russa costituì «per gli Usa e i suoi alleati, un momento di chiarezza morale», nell’assistere la nazione aggredita ma, aggiunge, all’urgenza di quella missione non si è mai accompagnata una corrispondente chiarezza sull’obbiettivo finale. A questo proposito cita l’attuale consigliere per la sicurezza nazionale di Biden, Jake Sullivan, che già nel giugno dell’anno scorso ammetteva: «Più che sull’obbiettivo finale, siamo concentrati sugli obbiettivi di oggi, domani e della prossima settimana per rafforzare al mano degli Ucraini, prima sul campo e successivamente ad un eventuale tavolo negoziale».

ORA CHE QUINDICI MESI di combattimenti hanno ampiamente dimostrato che nessuna delle parti è in grado, seppur con assistenza esterna, di prevalere sul campo, scrive Charap, è ora che gli Stati uniti accelerino l’attenzione verso un’indispensabile soluzione a un conflitto che non potrà essere risolto con la forza delle armi. L’articolo cita statistiche secondo cui le guerre fra stati sovrani raramente vengono decise dalla conquista territoriale di una delle parti. Nel caso ucraino, non esiste un posizionamento del confine, o uno specifico numero di chilometri quadrati controllati dalle parti, che le indurrebbero a porre fine al conflitto.

L’ESITO PIÙ PROBABILE è quindi la stasi di una guerra permanente e permanentemente destabilizzante, non solo per i belligeranti diretti. Secondo uno studio del Center for Strategic and International Studies, mostra, in base a dati raccolti a partire dal 1946, che il 26% delle guerre fra stati si concludono dopo il primo mese, il 25% entro un anno.

Ma quando si estendono oltre il primo anno, tendono in media a durare dieci anni. Un conflitto ucraino di tale durata significherebbe mantenere l’attuale «inaccettabile» rischio di uno scontro diretto Russia-NATO o dell’utilizzo di armi nucleari. I costi economici ed umani per entrambi i paesi, inoltre, sarebbero disastrosi e «generazionali» in particolare per l’Ucraina.

Urge quindi rendere prioritario l’inizio di un dialogo attraverso dispositivi diplomatici adatti – Charap porta l’esempio del gruppo di contatto informale fra le parti stabilito durante la guerra balcanica – ad aprire un canale di comunicazione fra Russia, Ucraina, Usa e alleati. Questo a prescindere dall’esito eventuale di una controffensiva ucraina che anche in caso di parziale (e non assicurato) successo, non modificherebbe le dinamiche fondamentali della contesa.

In qualunque modo sviluppi la linea del fronte, infatti, entrambe le parti rimarranno in grado di tenere sotto minaccia il territorio nemico. Anche l’improbabile ipotesi di una «vittoria territoriale» che riporti i confini allo stato pre-2014 non sarebbe quindi sufficiente a porre fine alle ostilità.

L’EDITORIALE SUGGERISCE dunque di mettere da parte la questione della legittimità delle rivendicazioni e di operare pragmaticamente per la fine di una guerra, contemplando le «soluzioni plausibili in circostanze molto meno che ideali», che al momento precludono cioè un vero e proprio trattato di pace. È utile, scrive invece Charap, accettare che i paesi rimarranno nemici per potenzialmente molti anni anche dopo la cessazione delle ostilità.

Charap conclude che la soluzione non può che essere di tipo armistiziale: una cessazione durevole del fuoco sullo stampo di quello coreano, «l’esito insoddisfacente che più plausibilmente porrà fine a questa guerra».
Per raggiungere questo obbiettivo (Charap ricorda che in Corea ci vollero due anni e più di 500 incontri), occorre puntare su ben definiti obbiettivi «intermedi», quali zone demilitarizzate, garanti terzi, forze di pace o commissioni per la risoluzione delle dispute, meccanismi atti cioè a rafforzare la struttura di «reciprocità e deterrenza in grado di permettere a nemici giurati di convivere pur non avendo risolto le loro fondamentali divergenze».

STA AGLI STATI UNITI promuovere questo percorso, ricoprendo un ruolo simile a quello avuto come garante della pace egizio-israeliana. (Charap suggerisce una garanzia occidentale della sicurezza ucraina che non giunga all’ammissione alla Nato). Solo così si potrà raggiungere se non la pace, una stabilità di respiro storico simile a quella che, nei decenni, ha permesso lo sviluppo della Corea del sud e la riunificazione della Germania

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