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M5S. Il capo presenta la sua squadra dei sui ministri: «Non è un governo tecnico»

«Questo non è un governo tecnico perché c’è un capo politico»: Luigi Di Maio saluta il pubblico del Salone delle Fontane all’Eur e presenta il suo governo virtuale. Cerca di smarcarsi da etichette poco popolari, ma ha bisogno di sottolineare che la sua squadra è composta da persone non riconducibili al Movimento 5 Stelle. L’evento ricorda un po’ quello di un mese fa al Tempio di Adriano, quando Di Maio snocciolò i candidati da lui scelti per i collegi uninominali, a rappresentare la nuova fase e l’apertura alla società civile. Quella cerimonia venne guastata in corso d’opera, quando si scoprì che il primo a salire sul palco, l’ammiraglio Rinaldo Veri, era reduce da una candidatura a sindaco nel suo paese con una lista collegata al Pd. Poi, a liste chiuse, spuntarono massoni e parlamentari uscenti che avevano tradito la promessa di restituire parte dello stipendio.

DI MAIO CERCA DI VOLTARE pagina presentandosi come uno che ha già vinto, capo di un governo bell’e pronto, che si è persino già riunito due giorni fa. È una convention di partito, ma il clima è ingessato come il suo cerimoniere perché siamo davanti anche alla riproduzione di una liturgia ufficiale. Avviene diciassette volte, una per ogni investitura: il capo chiama il ministro designato, lui sale sul palchetto, gli stringe la mano, parte lo stacchetto e si sorride verso i teleobiettivi. È come se ci si trovasse davanti a un’istituzione parallela che funziona spedita e che offre garanzie di rendersi operativa fin da martedì prossimo. Di Maio recita la parte del garante della stabilità: «Queste persone non sono del M5S – dice, leggermente più emozionato del solito – Le mettiamo a disposizione del paese». Oggi si replica in piazza del Popolo. Ci sarà Beppe Grillo, che in un videomessaggio non proprio gioioso parla di fine della verità, di analfabetismo dilagante e di «fine dell’era del Vaffa» in un’epoca in cui forse le provocazioni «non si capiscono».

ALLE ANTICIPAZIONI di questi giorni mancavano alcuni candidati ministri di peso. Il primo è quello dell’economia. Si chiama Andrea Roventini, insegna economia alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. L’aspirante premier lo definisce «keynesiano espansivo», definizione che lo associa agli altri due aspiranti ministri del settore, Lorenzo Fioramonti allo sviluppo e Pasquale Tridico al lavoro. Roventini spiega che crescita e innovazione spettano all’intervento dello stato. Sull’Europa, non ci sono margini di ambiguità: «L’uscita dall’euro non è in discussione ma bisogna rivedere il Fiscal Compact. L’austerità è autodistruttiva». Padoan gli manda a dire: «La politica espansiva è già cominciata da tempo».

LA CASELLA DEGLI INTERNI viene affidata a Paola Giannetakis, esperta di sicurezza. Promette 10 mila nuove assunzioni per affrontare «le continue emergenze che provocano instabilità: una su tutte quella dei migranti».

AGLI ESTERI VA EMANUELA Del Re, che ha fatto ricerche coi contingenti italiani in Afghanistan e nei Balcani e che ha gestito progetti di cooperazione in Siria e Iraq. Alla difesa un’altra donna: si tratta di Elisabetta Trenta, che ha lavorato per il Centro militare di studi strategici del ministero. Un dettaglio salta agli occhi: le ultime tre provengono da Link Campus University, ateneo privato di cui è presidente il vecchio dc Enzo Scotti, ai tempi d’oro soprannominato Tarzan per la capacità di saltare da una corrente all’altra. L’istituto che presiede nasce come filiazione italiana dell’università di Malta ma nel 2004 Cepu ne acquisì le quote di maggioranza.

ALLA PUBBLICA ISTRUZIONE va Salvatore Giuliano, preside a Brindisi anche lui da tempo consulente del ministero. Il suo nome (assieme a quello di Giannetakis, scovata tra i firmatari di un appello per il sì alla riforma costituzionale di Renzi) finisce subito nel tritacarne mediatico: viene accusato di essere a favore della «buona scuola» tanto da aver contribuito a scrivere la riforma. Lui ha la faccia di uno che ha capito con qualche ora di ritardo di essersi tuffato nella fossa dei leoni: «Ho partecipato ad alcuni incontri ma la riforma non è legata ai suggerimenti che avevo dato. Sono amico di Renzi? Ci ho parlato per tre minuti».

ALLA CULTURA c’è Alberto Bonisoli, direttore della Nuova accademia di belle arti di Milano, «la più grande accademia privata italiana».

Per la salute ecco Armando Bartolazzi, oncologo al Sant’Andrea di Roma. Sull’obbligo vaccinale aveva detto in mattinata a La 7: «Alcuni vaccini possono essere discussi. Se c’è emergenza sanitaria poi è compito del ministero fare corretta informazione per convincere la gente a farli».

GLI ALTRI NOMI erano noti. Accanto ai due grillini della squadra (Riccardo Fraccaro, designato ai rapporti col parlamento e democrazia diretta, e Alfonso Bonafede, alla giustizia), c’è Giuseppe Conte. Il giurista è stato scelto per la pubblica amministrazione e «meritocrazia». «Il mio primo contatto con il M5S risale a quattro anni fa – racconta – Mi chiesero di entrare nell’organo di autogoverno della giustizia amministrativa. ‘Non vi ho votato e non sono un simpatizzante’, risposi. Posso garantirvi che in questi anni non mi hanno fatto neanche una telefonata».

Ma ecco che mentre la sapiente regia comunicativa grillina, gestita come al solito da Rocco Casalino, fa partire il sottopancia con la parola «ministro», Conte mette le mani avanti: «Sono consapevole che ci vogliono passaggi istituzionali».