Vento, sisma, acciaio: i rilievi di 68 criticità del Comitato scientifico confermano l’opinione di sindacati circa l’opera sullo Stretto. L’analisi di Alfio Mannino, Cgil
Il Comitato tecnico scientifico sul progetto del ponte sullo Stretto di Messina rileva 68 mancanze strutturali nel progetto stesso che mettono bastoni tra le ruote al ministro Matteo Salvini, il quale aveva annunciato l’inizio dei lavori già per prima dell’inizio dell’estate.
Il Comitato, nominato dal ministero delle Infrastrutture (il dicastero guidato dallo stesso Salvini) di concerto con le Regioni, non ha certo bocciato il progetto, ma ha elaborato una lunga serie di raccomandazioni tra le quali ve ne sono alcune di particolare rilievo. Tra questi: è chiesto che siano fatte maggiori verifiche sull’effetto dei venti perché le ultime risalgono al 2011; anche quelle sulla tenuta sismica devono essere aggiornate in base ai violenti terremoti verificatisi negli ultimi anni; è poi richiesto l’utilizzo di materiali dii più recente tecnologia e di rendere noto come e dove sarà reperito l’acciaio necessario alla costruzione del ponte.
Alfio Mannino, segretario generale della Cgil Sicilia, nell’audio-intervista spiega che le criticità sollevate non giungono nuove e non colgono il sindacato stupito. Il progetto sul quale si basa il piano del consorzio privato Eurolink e gestito dalla società pubblica Stretto di Messina Spa è ormai datato e la necessità del ministro Salvini di procedere velocemente con l’inizio dei lavori è dettata da esigenze elettorali e quindi di propaganda.
Mannino insiste anche sul costo del ponte, poiché si parla di 13 miliardi di euro, ma i costi lieviteranno inevitabilmente, anche per i rilievi del Comitato. Motivo per il quale ‘il governo ha sollevato sul progetto una nebulosa che impedisse di vedere le criticità. Non manca il capitolo espropri, quelli che devono essere effettuati nei confronti di chi occupa, con abitazioni o aziende, le aree che saranno interessate dal cantiere e dalla mega-struttura del ponte che avrà i suoi piedi sulla terraferma di Sicilia e Calabria. E anche l’accordo sugli espropri è ancora in alto mare.
Al via la campagna di Cgil e categorie per sensibilizzare e informare su un fenomeno esploso negli ultimi decenni. Gabrielli: “La politica non se ne occupa”
Una campagna di sensibilizzazione e informazione sulla precarietà, ma anche di lotta contro la precarietà. La promuove la Cgil insieme alle sue categorie per alzare l’attenzione sulla questione della qualità e della dignità del lavoro e della condizione dei redditi, tutti temi che non sono al centro dell’agenda politica del nostro Paese. “La precarietà ha troppe facce. Combattiamola insieme” è lo slogan dell’iniziativa, animata sui canali social dai lavoratori che rappresentano e incarnano la precarietà.
Per nove settimane saranno protagonisti i volti e le storie di chi fa i conti con ogni tipo di flessibilità e di incertezza: a termine, part time, in appalto, in somministrazione, pagati con voucher e contratti intermittenti, a collaborazione e a partita Iva, con orari miseri, irregolari, stagionali. Tante facce per altrettante condizioni occupazionali, che si traducono in situazioni di vita difficili e complicate prospettive per il futuro. Si parte con i lavoratori a termine, che in Italia sono circa 3 milioni.
“Abbiamo scelto i volti perché dietro ai numeri dei milioni di somministrati, intermittenti o lavoratori a termine ci sono persone – spiega la segretaria confederale della Cgil Maria Grazia Gabrielli -. Persone con le loro storie, le loro ansie, i problemi quotidiani, i sogni, le aspettative. Raccontarli in maniera diretta, così chiara e nitida, li rende concreti. Dietro ai dati sui quali si baserà la campagna e di cui di solito non si parla, ci sono giovani e meno giovani, migranti, uomini e donne impiegati nei settori pubblici e privati, che sono la rappresentazione della realtà”.
Perché la Cgil ha deciso di fare una campagna sulla e contro la precarietà?
Perché si continua a guardare la crescita dell’occupazione, un aspetto importante che va certamente osservato ma che non è sufficiente per misurare lo stato di salute di milioni di precari e non precari del nostro Paese. Sono persone che restano ai margini. Le politiche che vengono fatte e, ancor peggio, le scelte che non vengono compiute lasciano questi lavoratori in una condizione di mancanza di libertà, poiché non possono vivere dignitosamente e non possono decidere della propria vita. Questa non è una questione contingente, non riguarda solo l’oggi, ma anche il futuro di milioni di persone. Quindi bisogna affrontare e risolvere due emergenze: lavorare sulla precarietà oggi significa costruire in prospettiva migliori condizioni per i pensionati di domani.
Questo perché la precarietà riguarda soprattutto i giovani?
La precarietà condanna in particolar modo le generazioni più giovani, le rende particolarmente fragili e riguarda ancora più le donne degli uomini. È a queste due grandi platee che dovremmo rivolgere specifiche politiche per recuperare il gap esistente, che abbiamo anche nei confronti del resto dell’Europa, oltre alle disparità che ci sono all’interno del nostro Paese, come per esempio tra Nord e Sud. Eppure ancora oggi tutto questo non è al centro delle politiche del governo.
La precarietà è un fenomeno in crescita?
Sì, è in crescita ed è un fenomeno che va guardato con una lente di ingrandimento perché comprende anche una fetta importante di lavoratori irregolari o in nero, quindi sostanzialmente sconosciuti.
È il nero la forma più odiosa di precarietà?
Il lavoro nero e irregolare presenta certamente le condizioni più drammatiche e deleterie ed è spesso collegato al caporalato, un fenomeno ancora presente che anzi si è consolidato, diventando quasi strutturale nel settore agricolo ed esteso a moltissimi altri ambiti economici e produttivi. È il più odioso perché rende evidente la condizione di schiavitù del lavoratore, che è all’opposto di ciò che il lavoro dovrebbe rappresentare, e cioè rendere liberi e liberi di scegliere, di essere autonomi e autodeterminarsi.
La gamma delle tipologie contrattuali che costringono in una condizione di precarietà è molto ampia, e il nostro ordinamento prevede che si possa vivere in una situazione di povertà anche quando si ha un contratto di lavoro stabile. Questo capita a chi ha poche ore lavorate pur avendo un tempo indeterminato, penso al part time e in particolare al part time involontario che è enormemente cresciuto, o a chi è a tempo pieno ma in appalto, quindi con una precarietà data dal sistema degli appalti, subappalti, rinnovi.
Quando si parla di precarietà l’accusa più frequente che viene rivolta al sindacato è che non se ne è mai occupato abbastanza. Che cosa risponde?
Che noi ce ne siamo occupati e continuiamo farlo. Siamo l’organizzazione sindacale che ha proposto e propone iniziative inclusive, di contrasto alle soluzioni che mirano a rendere più precario, debole e frantumato il mercato del lavoro. Lo abbiamo fatto con il jobs act e con la legislazione che ne è seguita, con il contratto a temine, con il sistema degli appalti.
Solo chi ha poca memoria o è in mala fede non ricorda che abbiamo proposto un modello sociale diverso attraverso la Carta dei diritti universali del lavoro. E poi, ancora, davanti a un sistema regolatorio che ha precarizzato e reso più deboli e vulnerabili i lavoratori, accentuando una flessibilità che è tutt’altro che positiva, abbiamo continuato a esercitare un ruolo nella contrattazione nazionale, nel promuovere le buone pratiche nelle aziende per attivare percorsi di stabilizzazione.
È questo il significato dello slogan “combattiamola insieme”?
Per cambiare il mercato del lavoro e costruire un modello sociale più giusto, equo e dignitoso da consegnare alle giovani generazioni è necessario che questo sia un obiettivo condiviso, collettivo, partecipato anche da chi non ha mai vissuto la condizione di precarietà. Abbiamo bisogno di trasversalità, di comprendere che se non viene rimossa questa zona d’ombra è difficile immaginare di migliorare le condizioni di tutti.
Noi lo faremo con molti strumenti, la contrattazione, le proposte di legge, i contenziosi. E continueremo a farlo anche con l’iniziativa referendaria. È un’azione completa quella che la Cgil mette in campo per superare gli elementi di difficoltà, precarietà e povertà.
Il 13 marzo 1987, al porto di Ravenna, 13 operai restano soffocati all'interno della gasiera Elisabetta Montanari. Per non dimenticare
La mattina del 13 marzo 1987, nel porto di Ravenna, 13 operai - molti dei quali giovanissimi - muoiono soffocati nella stiva della nave gasiera Elisabetta Montanari. A scatenare l’evento è un incendio, le cui esalazioni causano il decesso per asfissia dei lavoratori impegnati in lavori di manutenzione e pulizia.
Le indagini riveleranno la disapplicazione delle più elementari misure di sicurezza - dalla disponibilità di estintori e presidi antincendio alla previsione di vie di fuga in caso di pericolo - e paleseranno la disorganizzazione del cantiere - di proprietà della Mecnavi Srl -, il reclutamento di manodopera attraverso il caporalato, l’assunzione di lavoratori in nero.
“Mai più - scriveva il giorno successivo Pietro Folena su l’Unità - Questo si deve promettere, che mai più possano accadere tragedie come quella di ieri, a Ravenna. Tredici morti. Due venivano dal Sud. Uno era egiziano. Gli altri di Ravenna, di Bertisoro, di altri comuni vicini. Dieci erano ragazzi tra i 19 ed i 24 anni, e tre lavoravano ieri per il primo giorno. (…) Non si osi parlare di tragica fatalità (…) le responsabilità appaiono evidenti. (…) Eccoci allora dalla rabbia di nuovo al dolore. Dal dolore ancora all’incredulità. Come può succedere in un mondo che si pretende ‘civile’. Come può accadere in un’Italia che si pretende ‘avanzata’. Ora bisogna punire i colpevoli. Ma anche cambiare le cose. Lo dobbiamo a Alessandro, a Onofrio, ai loro compagni”.
Era 37 anni fa. Sembra oggi. “Ho raccontato negli ultimi anni molte morti sul lavoro - scriveva qualche tempo fa Angelo Ferracuti commemorando quella tragedia - La morte non è mai accettabile, ma morire per mille euro al mese facendo lavori di merda lo è ancora meno. (…) Ho visto centinaia di volte nella mia vita entrando dal giornalaio la locandina con gli strilloni impietosi: operaio fulminato dai fili dell’alta tensione, lavoratore barbaramente schiacciato da una pressa, manovale fatalmente cade dall’impalcatura. Fatalmente, pensa un po’. (…) Non voglio raccontarle più, ogni volta che torno da queste ricognizioni e debbo scrivere sento l’impotenza del testimone di seconda mano, di chi cerca di ricostruire una storia che è sempre la stessa, e quelle dolorose degli altri mi entrano nel corpo e non se ne vanno più. Mi tormentano, tornano come fantasmi a farmi visita nella vita onirica. Sono storie di una Spoon river italiana dove il bisogno di fare e guadagnarti i pochi soldi per campare può spingerti a volte nelle mani di un aguzzino, un caporale senza scrupoli che ti accompagna la mattina al lavoro e fa la cresta sul tuo misero salario, o di un padrone spietato che se ne frega altamente delle regole di civiltà in un paese tra i più industrializzati e ricchi dell’occidente come il nostro; e in nome del profitto, perché di questo si tratta, deregolamenterebbe persino il rispetto della vita”.
Solo nel mese di gennaio 2024 sono accaduti complessivamente 45 infortuni sul lavoro: sono stati 33 gli infortuni mortali in occasione di lavoro e 12 quelli in itinere. Rispetto allo stesso mese del 2023, il dato è in leggera crescita con un numero di decessi superiore di 2 unità (+4,7%).
I morti sul lavoro sono stati oltre 1000 nel 2023, quasi tre al giorno. Una strage. Un’infinita sequela di omicidi che ha un mandante: il disprezzo delle leggi, la corsa al profitto, lo sfruttamento del bisogno, la paura di perdere il proprio lavoro - quando si è così “fortunati” da trovarne uno -, il silenzio.
“Forse non sarebbe accaduto se quei giovani fossero stati aiutati a dire di no”, affermava l’arcivescovo di Ravenna, Ersilio Tonini, al convegno nazionale indetto da Cgil, Cisl, Uil sui “problemi della condizione di lavoro e della sicurezza”, tenutosi a Bologna il 10 aprile 1987. Forse non sarebbe accaduto.
“Da Ravenna - tornava a dire nella sua omelia del 16 marzo il monsignore - dalla stiva di quella nave si leva una denuncia; l’umanità sta distruggendo senza saperlo i suoi tesori più pregiati, il rispetto mutuo, la pietà, la solidarietà, in una parola; la capacità di amare… Bisogna pur dire che si sta perdendo il confine fra il bene e il male: il guadagno, il successo, la riuscita, la propria gratificazione prendono il posto di quella attenzione all’onestà che gli stessi atei della nostra Romagna hanno conservato come tesoro prezioso da trasmettere ai propri figli.”
“Le chiamano ‘morti bianche’ - scriveva Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico di Firenze e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza -, come se avvenissero senza sangue. Le chiamano ‘morti bianche’, perché l’aggettivo bianco allude all’assenza di una mano responsabile dell’accaduto, invece la mano responsabile c’è sempre. Le chiamano ‘morti bianche’, come fossero dovute alla casualità, alla fatalità, alla sfortuna. Le chiamano ‘morti bianche’, ma il dolore che fa loro da contorno potrebbe reclamare ben altra sfumatura cromatica. Le chiamano ‘morti bianche’ per farle sembrare candide, immacolate, innocenti. Le chiamano ‘morti bianche’, tanto non meritano che due righe sui quotidiani, sì e no una citazione nei TG. Le chiamano ‘morti bianche’, per evitare che si parli di omicidi sul lavoro. Le chiamano ‘morti bianche’, bianche come il silenzio, come l’indifferenza che si portano dietro. Le chiamano ‘morti bianche’, ma non sono incidenti, dipendono dall’avidità di chi si rifiuta di rispettare le norme sulla sicurezza sul lavoro. Le chiamano ‘morti bianche’, un modo di dire beffardo, per delle morti che più sporche di così non possono essere.
Le chiamano ‘morti bianche’, ma sono il risultato dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, dove la vita non ha valore rispetto al profitto. Le chiamano ‘morti bianche’, ma sono un’emergenza nazionale, anche se c’è chi dice che sono in calo. Le chiamano ‘morti bianche’, un eufemismo che andrebbe abolito, perché è un insulto ai familiari e alle vittime del lavoro. Le chiamano ‘morti bianche’, ma quanto tempo passerà ancora perché vengano chiamate con il loro vero nome?”.
Le chiamano morti bianche, ma non lo sono mai. Sono morti rosse, come il sangue versato. Morti nere, come la coscienza di chi ha la responsabilità di evitare che queste disgrazie accadano. Morti nere. Come nero, troppo spesso, è il lavoro. Morti nere. Come la nostra rabbia. Come la nostra - di tutti! - vergogna.
Gesmundo, Cgil: “La transizione energetica e digitale dev’essere guidata. Siamo in pieno declino e la politica se ne occupa poco e male”
“Con il superamento delle partecipazioni statali e le privatizzazioni, in Italia abbiamo smesso di fare politiche industriali. Avevamo aziende riconosciute e affermate in tutto il mondo, oggi siamo in pieno declino industriale”. A dirlo è Pino Gesmundo, segretario confederale della Cgil, che il 13 marzo a Verona interverrà su questi temi alla tavola rotonda “Nelle due grandi transizioni”.
“L’idea, sbagliata, che bisognava togliere lacci e lacciuoli alle imprese e che il mercato avrebbe garantito il benessere nazionale - continua Gesmundo - si è rilevato un errore grossolano”.
La legge di bilancio del Governo Meloni contiene un’inversione di tendenza o questa mancanza continua?
Purtroppo, l'attuale governo continua a lavorare nella stessa direzione: non disturbare chi produce, erogare finanziamenti a pioggia senza condizionalità e nella totale assenza di ambizione di guidare il settore industriale italiano ad affrontare la transizione digitale e quella energetica. Le imprese, da sole, non possono farcela. O meglio il grosso delle imprese, quelle piccole, medie e medio-grandi, non riusciranno a fare gli investimenti necessari per affrontare i cambiamenti epocali che abbiamo di fronte. Non è un caso che l'esecutivo non commenti mai i continui cali della produzione industriale e non abbia strumenti per affrontare le crisi che si stanno aprendo. Siamo in pieno declino industriale e la politica se ne occupa poco e male.
La transizione energetica e ambientale è la prima grande esigenza del Paese. Le scelte del governo, come ad esempio il “decreto energia”, favoriscono questo passaggio?
No, o meglio, solo in misura minima e del tutto insufficiente ad affrontare i cambiamenti. Sarebbe necessario programmare lo sviluppo di energie rinnovabili e conseguentemente agire sulle imprese per riconvertirle sulle nuove filiere produttive necessarie. Le poche grandi imprese “pubbliche” rimaste (Enel, Eni) o le multiutility che si sono sviluppate al Centro-Nord del Paese (Hera, A2A Iren, Acea) dovrebbero diventare le capofila di questo cambiamento, aiutando le imprese private a ricollocarsi sulle nuove produzioni.
Un esempio?
Se l’idrogeno sarà un pezzo del futuro, dovremmo predisporci a produrre elettrolizzatori per generare idrogeno verde, oppure se la mobilità si dovrà spostare sull’elettrico, dovremmo riposizionare la filiera produttiva in quell’ambito. Invece nulla. Solo proclami ideologici sulla difesa del made in Italy, senza una strategia e senza una visione. Si continuano a usare le imprese pubbliche per fare immensi utili, tralasciando gli investimenti necessari e affossando le imprese private. Quello che ci stupisce è la scarsa reazione del mondo delle imprese private.
Appunto, cosa stanno facendo le aziende private?
Sono ovviamente consapevoli delle difficoltà presenti, ma si accontentano di gestire la situazione massimizzando i guadagni senza nessuna prospettiva per il futuro. Sarebbe invece necessaria una grande intesa tra imprese e mondo del lavoro per imporre politiche che evitino il declino del Paese e offrano una prospettiva certa alle future generazioni. La transizione, se vuole trovare consenso e appoggio da parte dei cittadini, deve essere giusta, evitando di far pagare il prezzo alle fasce più deboli, altrimenti continueremo ad alimentare malcontento, antieuropeismo e populismo. Quanto avvenuto con la crisi degli agricoltori è un segnale da non trascurare.
La transizione digitale è l’altra grande trasformazione dei tempi presenti. Una transizione che andrebbe indirizzata e gestita, non lasciata alle sole leggi di mercato. Stiamo andando in questa direzione?
Qui siamo in una condizione ancora più grave, e probabilmente irrecuperabile. La sbagliata privatizzazione di Telecom e le scelte attuate da questo governo di separare la rete dalle tecnologie che consentono la trasmissione di voce e dati, e dai servizi, porteranno il nostro Paese a sparire dal mondo delle telecomunicazioni, diventando solamente un mercato per il resto d’Europa. La difficoltà del settore telecomunicazioni, alti investimenti per accompagnare le nuove tecnologie associato a bassi profitti determinati da un eccesso di offerta e di concorrenza, ha portato l’Europa a decidere il consolidamento delle imprese a livello europeo. Solo in questo modo riusciremo a competere e tenere testa ai colossi americani e asiatici. Il consolidamento sarà guidato dalle ex aziende monopoliste statali (gli incumbent), il cui controllo a livello europeo è ancora in mano pubblica.
L’Italia parteciperà a questo processo?
Purtroppo no. E questo perché ci arriverà con un’azienda non più integrata verticalmente (rete e servizi) e non in grado di sostenere, da sola, gli ingenti investimenti necessari. Così, con buona pace del governo sovranista, il nostro Paese diventerà un mercato per le imprese straniere esattamente come già avvenuto per il settore del trasporto aereo dove la nostra compagnia Ita vale 1/10 di quella tedesca o francese. A questo si deve aggiungere la sfida imposta dall’intelligenza artificiale. Qui gli investimenti materiali non saranno elevatissimi ma sarà, invece, necessario un investimento formativo e di competenze enorme. Le piccole e medie imprese italiane, lasciate sole, non riusciranno ad agganciare le nuove tecnologie.
Queste due transizioni avranno un notevole impatto sul Paese. L’Italia però è segnata da un forte squilibro economico e sociale, con un Mezzogiorno che fatica a connettersi con le aree del Centro-Nord. Cosa sta facendo l’esecutivo per colmare questo divario?
La risposta è semplice e breve: nulla. Anzi, con le sue politiche determinerà un allargamento della forbice tra Nord e Sud. Anche in questo caso, le politiche industriali realizzate dalle aziende partecipate avevano prodotto insediamenti industriali importanti nel Mezzogiorno. La fine di quell’epoca e la scelta del laissez faire e dello strumento degli incentivi a pioggia ha ridotto drasticamente gli investimenti al Sud. La causa è semplice: se mi limito a dare soldi alle imprese, e le imprese stanno in larga parte nel Nord del Paese, io sto decidendo di investire più soldi nell’area che ne ha minor bisogno, contribuendo ad aumentare il divario. Questo è esattamente quello che è successo negli ultimi 25 anni con buona pace di tutti i proclami che continuiamo a sentire. A questo fenomeno che è già in corso se ne aggiungerà uno nuovo.
Quale, in particolare?
Nel Sud sono concentrate moltissime imprese legate ai combustibili fossili. Queste nei prossimi decenni sono destinate a chiudere la loro produzione, perché la scelta di neutralità carbonica adottata dall’Europa porterà quei combustibili a non essere più utilizzati. Se non si lavora da subito per trasformare il Mezzogiorno nell’hub delle energie rinnovabili, nel centro di produzione dell’idrogeno e della filiera degli accumulatori o della produzione delle nuove filiere produttive necessarie al cambiamento, si condannerà tutto il territorio. E se vogliamo che il nostro Paese cresca abbiamo bisogno di far crescere il Mezzogiorno, altrimenti questo non sarà mai possibile. Oltre, ovviamente, a dover fermare l’emorragia di giovani che ormai da decenni quel territorio sta subendo. Se a questa miope politica economica e industriale associo la scellerata idea dell’autonomia differenziata che il governo sta portando avanti, la condanna per il Sud del Paese è definitiva.
Mercoledì 13 marzo si tiene anche la riunione del G7 Industria. Cosa dovrebbe uscire da quel vertice? E come l’Europa può tornare a essere protagonista dello sviluppo?
Dal G7 ci aspettiamo solamente la conferma di un percorso che imbocchi con decisione la via della decarbonizzazione. I cambiamenti climatici in atto ci hanno dimostrato che non c’è più tempo e che non possiamo fallire gli obiettivi di contenimento dell’aumento della temperatura entro un grado e mezzo. E forse è già tardi. Dall’Europa, invece, molto di più. Le due transizioni in atto stanno portando a una competizione tra continenti in grado di riposizionare completamente l’apparato produttivo. Gli americani hanno dimostrato di esserne consapevoli inserendo nell’economia centinaia di miliardi per guidare a accelerare la transizione verso le nuove tecnologie. L’Asia è nella stessa condizione, facilitata anche da poteri di indirizzo molto maggiori rispetto ai modelli democratici europei.
E l’Europa?
Il nostro continente, che ha fissato gli obiettivi di decarbonizzazione, si ostina a non voler realizzare politiche industriali comuni, lasciando i singoli Stati in competizione tra di loro. In questo modo nessun Paese europeo ci riuscirà. Nemmeno la Germania, considerata sino a poco tempo fa locomotiva dell’Europa, aiutata dal basso prezzo del gas russo e dallo sfogo sui mercati asiatici, ci riuscirà. È necessario che l’Europa guidi attraverso politiche industriali comuni il riassetto dell’economia del nostro continente. Per farlo sono necessari ingentissimi investimenti, quantificati in oltre 500 miliardi di euro. In questo caso si tratta di realizzare un fondo sovrano europeo che aiuti a spostare l’ingente ricchezza privata presente nel continente dalla finanza all’economia reale. Solo realizzando risorse comuni saremo in grado di competere con i continenti asiatico e americano e non perdere la sfida in corso. D’altronde è ormai evidente che i rischi per l’Europa sono immensi. Il Pil qui prodotto rispetto a quello degli altri continenti sta già diminuendo da decenni e non dobbiamo dare per scontato che il nostro continente resterà centrale rispetto all’economia del mondo. Per farlo è necessario che gli Stati comprendano la portata della sfida in corso e accettino di giocare la partita.
E quindi cosa dovrebbe fare il nostro Paese?
Anche in Italia, dove viviamo una condizione economica che potremmo riassumere con la battuta “il convento è povero ma i frati sono ricchi”, visto l’enorme debito pubblico e la ristrettezza finanziaria che impedisce investimenti mirati, è necessario creare un’Agenzia per lo sviluppo che operi da fondo sovrano nazionale, provando a indirizzare le ingenti risorse rappresentate dai fondi pensione e dai risparmi privati dalla finanza all’economia reale. Non farlo significherà alimentare una sfiducia nelle istituzioni, un populismo antieuropeo crescente che ha già dimostrato di non avere nessuno strumento per invertire la rotta, alimentando una sfiducia dei cittadini che metterà a rischio la tenuta democratica del Paese.
Il segretario generale della Cgil dalla manifestazione di Roma: “Cessate il fuoco subito. Dobbiamo fermare tutte le guerre, c’è domanda di pace”
“Siamo qui perché bisogna applicare le direttive dell'Onu, a partire dalla soluzione dei 'Due popoli, due stati’. Siamo in piazza per difendere il diritto del popolo palestinese e il diritto del popolo israeliano di esistere. E questo può avvenire solo con la pace”. Lo ha detto il segretario generale della Cgil Maurizio Landini nel corso della manifestazione romana organizzata dalla Coalizione AssisiPaceGiusta, alla quale ha aderito con convinzione il sindacato di Corso d'Italia.
“Quello che sta facendo il Governo Netanyahu non va in questa direzione – ha continuato Landini-. Ciò che sta facendo è anche contro il proprio popolo. Per questo penso che bisogna che il Governo italiano la Commissione europea intervengano con maggior forza per chiedere di cessare il fuoco e aprire una vera e propria conferenza di pace che vada in questa direzione. Bisogna fermare tutte le guerre, quella in Ucraina, quella in Siria, quelle in atto in Africa. Non siamo disponibili ad accettare il fatto che la guerra sia tornata ad essere uno strumento di regolazione dei rapporti tra gli stati”.
E ancora: “Si sta aumentando la spesa militare e la compravendita di armi. Credo che questo sia molto pericoloso. Per questo è importante mobilitarsi. Ma siamo qui anche per difendere il diritto a manifestare, è il modo migliore per rispondere alla logica pericolosa del governo Meloni, che anziché misurarsi con le richieste democratiche che vengono dal Paese pensa di usare la forza”.
“Non è questa la strada- ha continuato Landini - e lo dico anche nel rispetto dei lavoratori della polizia perché il problema non sono loro. Il problema sono gli ordini e la logica sbagliata che sta usando il Governo”.
“Qui non c'è solo la Cgil – ha concluso Landini-, ma tutte le associazioni che hanno dato vita quest'anno alle lotte per la pace. Abbiamo riempito le piazze e credo che sia molto importante la risposta che c'è stata oggi, perché ci dice che c'è una vera domanda di pace”.