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Morire sul lavoro non è da Paese civile

 

Tredicimila morti sul lavoro in Italia negli ultimi dieci anni. Quasi mille – assieme a 600mila infortuni – nei primi 11 mesi del 2017. E tanti non vengono denunciati perché avvenuti in condizioni di lavoro nero.

Calano le ore di lavoro e crescono le disgrazie, sempre uguali, dovute alle stesse cause e quindi prevedibili.

Può dirsi civile un Paese nel quale permane e si aggrava un simile stato di cose?

Le parole di circostanza gettate al vento, i soliti solenni impegni tante volti ripetuti all’indomani di ogni tragedia acquistano sempre più il sapore amaro di intollerabile ipocrisia. Lo sanno tutti, e lo sanno soprattutto quelli che hanno il dovere di porvi rimedio: la maggioranza degli infortuni è dovuta al mancato rispetto delle norme sulla sicurezza, ai minori controlli, alla crescente precarietà, a come avviene l’inserimento nell’attività lavorativa, al considerare i costi per la prevenzione un fastidio e uno spreco. E’ su questi fattori che si deve intervenire con determinazione e senza perdere altro tempo.

Può esserci maggiore tutela della salute e della vita quando si cancellano i diritti? Quando di fatto si nega il ruolo della contrattazione collettiva e delle rappresentanze sindacali? Quando il bisogno induce ad accettare qualsiasi lavoro, anche il meno sicuro e il peggio retribuito?

La si smetta di sbandierare numeri sull’occupazione che vorrebbero maldestramente nascondere una realtà fatta di sottosalario, di lavoro a chiamata e somministrato, di mancanza di futuro soprattutto per i giovani. Bisogna restituire dignità e diritti al mondo del lavoro: è questa la sola strada perché la sicurezza e la prevenzione tornino ad essere un dovere e un diritto per tutti.

 

Faenza, 19 gennaio 2018

 

 

L’Altra Faenza