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Il «pactum sceleris» del leader leghista sulle riforme

Gaetano Azzariti  da “il Manifesto” del 15.08.2019

L’ipotesi formulata in sede parlamentare dal leader della Lega di sciogliere le Camere dopo l’approvazione di una legge costituzionale di riduzione dei suoi componenti non può essere in nessun caso perseguita. Presentata come una “mossa del cavallo”, in grado di scompaginare i piani e le alleanze per la formazione di un nuovo governo parlamentare espressione di una diversa e legittima maggioranza politica, in realtà si rivelerebbe un atto di grave destabilizzazione costituzionale.
Già i modi della proposta risultano non solo del tutto inusuali, ma mostrano anche una disinvoltura nei confronti delle regole istituzionali non accettabili in uno Stato costituzionale di diritto. Proporre in Parlamento un accordo su una materia non disponibile, di esclusiva competenza del Capo dello Stato, è spia di una tendenza a non rispettare il principio supremo della divisione dei poteri.
Evidentemente il leader della Lega ritiene che già il popolo italiano gli ha conferito i “pieni poteri”, senza bisogno neppure di un plebiscito reale (forse sarebbe bene ricordare che i “pieni poteri” sono solo quelli dittatoriali che non hanno alcuna cittadinanza nel nostro ordinamento costituzionale, quale che sia il peso elettorale e politico dei governanti di turno). Ma lo “sgarbo” istituzionale è ancor più preoccupante in quanto rappresenta un vero e proprio pactum sceleris.
Si vorrebbe imporre al capo dello Stato di compiere un atto (lo scioglimento del Parlamento) che impedirebbe in realtà la conclusione della riforma appena approvata dalla maggioranza dei parlamentari, aprendo uno scenario di certa delegittimazione dell’intero sistema politico e di quello parlamentare in particolare.
Facendosi dunque promotore di una futura e grave instabilità costituzionale.
Non credo che Mattarella potrebbe mai accettare di dare seguito all’ipotesi prospettata. Basta pensare al certo scenario che si verrebbe a creare. Ai sensi dell’articolo 138 della Costituzione la legge costituzionale approvata a maggioranza assoluta dei componenti delle due Camere non entra in vigore, ma è solo pubblicata affinché sia conosciuta e sia possibile, nei tre mesi successivi richiedere un referendum. La legge viene promulgata solo dopo che sia stata approvata anche dalla maggioranza dei voti validamente espressi dal corpo elettorale, ovvero dopo tre mesi nel caso nessuno richieda il referendum.
Dunque, seguendo la infausta ipotesi avanzata, andremmo a votare subito per delle Assemblee che sono già state dichiarate superate dalla votazione della maggioranza assoluta del Parlamento attuale e che dopo pochi mesi sarebbero definitivamente delegittimate dal responso popolare. Con quale possibilità di poter proseguire la propria attività?
Vorrei chiarire quel che è l’aspetto più rilevante e più preoccupante, che non riguarda solo la legalità formale, bensì ancor più la legittimità sostanziale. Dunque, quel piano – la legittimità contro la legalità – scivoloso, forse sfuggente, ma certamente il più profondo, che regge l’intero sistema democratico.
Infatti, nella situazione descritta, da un lato, la “forma” indurrebbe a proseguire la legislatura, non essendoci alcuna norma che prevede espressamente lo scioglimento anticipato (ed anzi essendo prevista nella legge costituzionale in corso di approvazione l’entrata in vigore nella legislatura successiva), dall’altro, ci troveremmo dinanzi ad un potere legislativo che opererebbe privo ab origine di una legittimazione sostanziale, in una composizione squalificata. Tutti i suoi atti, compresi quelli relativi alla formazione dei nuovi governi, sarebbero gravemente compromessi. Unicamente chi non ha senso alcuno delle istituzioni e vuole governare in nome della sola forza dei numeri può auspicare un simile scenario.
Un’ultima osservazione appare necessaria. Sono stati richiamati dei precedenti di leggi costituzionali approvate da parlamenti in scadenza di legislatura e che hanno visto i referendum svolgersi dopo le nuove elezioni: i casi del 2001 sulle autonomie territoriali e quelli del 2005 sulla modifica della seconda parte della Costituzione formulata dal centro-destra.
Il confronto non ha fondamento. Intanto, in entrambi i casi non si è proposto alcuna fine anticipate della legislatura, ma lo scioglimento delle Camere era “dovuto”. E poi, soprattutto, in nessuno dei due casi la riforma aveva come oggetto esclusivo la composizione dell’organo legislativo che si voleva cambiare. La riforma del centrodestra prevedeva sì una riduzione dei parlamentari, ma entro un ben più ampio quadro di riforma del bicameralismo che imponeva differenti problematiche. Nella nostra ipotesi, invece si vuole far votare un diverso assetto del Parlamento, ma senza poi voler ultimare l’iter di riforma che si deve compiere immediatamente dopo l’approvazione, almeno in tutti i casi in cui non si è obbligati dalla scadenza della legislatura.