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Tanti dubbi sul piano, appena partito con il bando da 3,7 miliardi per portare connessioni gigabit. Il ruolo del pubblico dovrebbe essere più chiaro, a tutela dell'interesse collettivo. Servirebbe una gestione unica invece che frammentata. Lo scrive il segretario confederale della Cgil su Agendadigitale.eu

 

Sabato 15 gennaio è stato dato il via al bando del Piano Italia a 1 Giga, 3,7 miliardi per coprire 7 milioni di indirizzi civici. È il primo dei maxi bandi da quasi 6,7 miliardi totali che insieme al Piano per il 5G (2 miliardi) e ai Piani Scuola (261 milioni) e Sanità connessa (501,5 milioni) e punta a garantire entro il 2026 una velocità di connessione delle reti fisse ad almeno 1 Gbit/s.

Italia gigabit, piano ambizioso
Si tratta di un piano ambizioso, che punta ad anticipare addirittura di quattro anni i tempi previsti dal Digital Compass e a dare una spallata a uno dei grandi nodi della modernizzazione del nostro Paese. Si chiede al mercato di mettere una “tesserina” ad un puzzle il cui disegno però non è sufficientemente chiaro e definito. E questo non è accettabile.

Il cavo, in sé, è inerte. La “posa”, in sé, è affare semplice e alla portata di tante imprese, grandi, medie o piccole. Non è questo il tema. Il cuore del problema sono l’architettura di rete, la gestione delle connessioni e la necessità di produrre innovazione attraverso investimenti che, per loro natura, non possono che essere pensati su scala larga. Voglio dire che non si sta costruendo una infrastruttura qualsiasi, né l’obiettivo della costruzione della rete in fibra può essere quello di velocizzare la spesa o sostenere le piccole imprese, tanto meno su questo si misura la capacità di “aprire mercati fin qui protetti”.

Del resto non è, questa, una prassi in uso nel resto d’Europa. Il sistema di tlc ha sempre retto la competitività interna sulla base del tasso di innovazione che gli operatori hanno saputo mettere in campo. È questo che chiedono gli utenti. Significa che sarà necessario collegare la rete a infrastrutture tecnologiche, e che ci sarà necessità di investimenti e aggiornamenti continui.

I dubbi della Cgil sul piano Colao “gigabit”
Chi investirà in innovazione tecnologica nelle aree meno remunerative? Avremo mai una rete “pensante” a Milano come a Enna? Ecco, i dubbi principali vengono da qui. Dal fatto, cioè, che quello del Ministro Colao sembra essere un piano di opere pubbliche e non di trasformazione digitale del Paese.

Rete unica
Siamo sicuri che sarà indifferente, a questo proposito, capire se l’Italia sceglierà la strada saggia della rete unica oppure no?

Siamo certi che il modello italiano si connoterà come tripartita tra una rete nazionale, una ausiliaria e, infine quella degli emarginati? Il bando invece va esattamente in questa direzione, riferendosi a 15 lotti e stabilendo che le imprese che partecipano potranno aggiudicarsene un massimo di otto. E questa è la prima grande questione, perché la fibra sarà anche parte integrante dello sviluppo del sistema 5G e questa possibile disomogeneità di composizione rischia di non semplificare ma, al contrario, di aggiungere difficoltà.

Il ruolo del pubblico
Poi c’è un’altra riflessione da fare: con questa operazione stiamo trasferendo risorse pubbliche ai privati per fare tratti di infrastruttura (chi si aggiudicherà la commessa avrà diritto a incassare fino al 70 percento delle spese sostenute), ma questo avviene nello stesso momento in cui Cdp sembra aver deciso di affrontare il ragionamento riguardante la costruzione della rete unica.

Cosa succederà una volta che gli operatori avranno realizzato con denaro pubblico porzioni di infrastruttura, diventandone proprietari, le rivenderanno allo Stato? Il rischio è evidentemente quello di avere un doppio fallimento. Il primo tecnologico, perché 10, 20 o 100 piccole reti non fanno l’infrastruttura di un Paese; il secondo riguarda la gestione dei conti e delle risorse.

Il tutto accade mentre non è ancora chiaro quale sarà il destino di Tim, il nostro (ex?) “incumbent” nazionale.

Aumento del digital divide
Credo che avere chiarezza su questi punti serva al Governo e al Paese. Per questi motivi non convince l’impianto presentato, perché c’è bisogno, soprattutto in questo settore, di economie di scala come presupposto per reggere la prova degli investimenti e dell’innovazione.

Al contrario, l’impostazione data dalla costruzione del bando spingerà i soggetti che parteciperanno alla gara a fare due conti, selezionando i lotti sulla base del massimo del profitto che immagineranno di ottenere. È evidente dunque che guardando anche semplicemente alla geografia del Paese alcuni lotti saranno più appetibili, altri meno, come ha dimostrato quanto è accaduto con il bando per il Piano Isole minori, che è andato deserto.

Anche l’idea stessa che “…resta inteso che in alcune aree rurali o a scarsa densità di popolazione, alcuni prodotti di accesso che richiedono costosi interventi sull’infrastruttura sovvenzionata non altrimenti previsti (ad esempio la co-locazione in punti di distribuzione intermedia) potranno essere offerti soltanto in presenza di una domanda ragionevole da parte di un operatore terzo…”, dimostra che dinnanzi ad una logica puramente mercatista, il rischio di continuare a condannare l’Italia ad una doppia velocità rimane immutato.

Nelle dichiarazioni del Governo il Piano in esame “intende favorire lo sviluppo di reti a banda ultralarga nelle restanti aree del Paese in cui si registra carenza di investimenti da parte degli operatori a causa di una minore redditività degli stessi rispetto ad aree più profittevoli”.

Temiamo, per le ragioni fin qui espresse, che questo difficilmente riguarderà le zone del Paese a minore densità di popolazione o geograficamente più disagiate, alimentando quel digital divide che non è più accettabile.

Così come siamo convinti che il sistema di telecomunicazioni nel nostro Paese non può servire solo a promuovere spesa, o puntare esclusivamente a favorire la concorrenza. Non può essere questo il nodo centrale di tutta l’operazione.

Serve una gestione unica
Del resto, osservando il modo in cui funzionano i grandi sistemi infrastrutturali del Paese, da Autostrade a Ferrovie italiane, vediamo che l’impostazione data va in direzione opposta. Lì la gestione è unica. Vi è una dimensione generale riguardo alla manutenzione così come alla tecnologia.

Noi invece stiamo trattando la rete di telecomunicazione andando per tratti, come per le opere pubbliche “inerti”, ignorando il fatto che stiamo parlando della struttura portante dell’intero impianto contenuto nelle missioni del Pnrr e dunque indispensabile per il rilancio del Paese. Il che pone il rischio di avere, a seconda dell’operatore, un avanzamento o un arretramento di tratti della rete, una disomogeneità che nel tempo mostrerà tutta la fragilità di questa operazione.

L’obiettivo da realizzare è quello di modernizzare il Paese, renderlo più efficiente, migliorare la vita di tutti senza dimenticare che questa può essere l’occasione di ripensare un grande settore la cui crisi è di origine politica e non industriale. Per questo siamo fermamente convinti che un’operazione di questo tipo non si possa fare senza avere chiari i termini del riassetto di Tim e di Open Fiber. Si torna al punto di partenza, dunque. E ci sembrerebbe anche una scelta opportuna.

* Emilio Miceli, segretario confederale Cgil
Articolo pubblicato su Agendadigitale.eu