CONVEGNO SLC CGIL E ARTICOLO 21. Tanti protagonisti dell'informazione esprimono le loro paure per i provvedimenti del governo. «Un cantiere aperto a tutti per contrastare la deriva democratica in atto da mesi»
Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini al convegno “No signal. Al lavoro per una nuova società dell’informazione. Libertà, democrazia, beni comuni”
Il mondo della comunicazione riunito dalla Cgil per lanciare un cantiere aperto a tutti per contrastare «l’emergenza democratica in atto». Il convegno organizzato dalla Slc Cgil – la categoria dei lavoratori della comunicazione – e da Articolo 21 ieri mattina ai Frentani a Roma ha visto la partecipazione di tantissime personalità del mondo della televisione e della carta stampata.
Vincenzo Vita, di Articolo21 che ha svolto il ruolo di moderatore della mattinata dal titolo “No signal. Al lavoro per una nuova società dell’informazione. Libertà, democrazia, beni comuni”, ha dettato la linea: «Far crescere forte la consapevolezza che l’informazione non è solamente un tema di convegni e seminari, ma è anche un tema di lotta e conflitto» perché «non siamo solo di fronte a un attacco alla libertà di stampa, ma a un disegno preciso che punta a produrre una vera e propria svolta autoritaria».
Il presidente della Federazione Nazionale della Stampa (Fnsi) Vittorio Di Trapani ha sostenuto che tutti i lavoratori dell’informazione rischiano in Italia di divenire «sottoproletari», ovvero precari e poveri, perché questo indebolimento continuo e progressivo dello status professionale e della capacità reddituale è funzionale all’interesse del sistema a reprimere il dissenso.
Il padrone di casa Riccardo Saccone, segretario nazionale della Slc Cgil ha denunciato il «digital divide» che affligge il nostro paese dove si sta «procedendo alla diffusione della rete ultraveloce in maniera difforme territorialmente, creando così nuove diseguaglianze e nuovi divari. La digitalizzazione è questione che riguarda l’economia, certo, ma è anche e forse soprattutto una questione di cittadinanza e di democrazia. Si è scelto di abbondare la strada della costruzione del “campione nazionale e in questi giorni si sta compiendo l’ennesimo scempio che sta caratterizzando il lento quanto inesorabile declino industriale italiano: la separazione della rete di Tim dai servizi condannerà definitivamente il Paese alla irrilevanza tecnologica».
Dopo gli interventi di tanti esponenti del mondo della comunicazione, compresa la nostra vicedirettrice Micaela Bongi e Sigfrido Ranucci, Silvia Truzzi e Marco Tarquinio, è toccato a Maurizio Landini tirare le fila del dibattito. «Non siamo solo di fronte a un attacco a libertà di stampa ma a un disegno preciso che punta a una vera e propria svolta autoritaria nel paese e, in modo molto esplicito, a stravolgere la Costituzione», ha attaccato il segretario generale della Cgil. «Il convegno di oggi è molto importante per un percorso da avviare insieme. Se questa operazione dovesse funzionare, sarebbe una svolta autoritaria con il suggello democratico di chi è andato a votare al referendum – sottolinea Landini – a rischio c’è la libertà di tutti noi cittadini, non solo di stampa, ma anche per esempio, di avere un lavoro non precario». «Abbiamo la necessità di definire un programma di lavoro” per difendere la democrazia e ricostruire fiducia nei cittadini – dichiara- e qui il problema non è cosa fa la destra o se ci stanno i fascisti ma cosa fanno gli antifascisti. Credo che gli antifascisti siano la maggioranza ma una maggioranza che ha bisogno di organizzarsi, mobilizzarsi ed esserci».
In quest’ottica arriva un annuncio importante: «Vogliamo rilanciare l’iniziativa di “La via maestra” e pensare alla preparazione di una grande manifestazione nazionale da fare a Napoli l’11 maggio per affermare i valori della Costituzione e della realizzazione dei principi della Costituzione». La “Via maestra” vuole essere «pronta a fare la campagna referendaria sul premierato, se ci sarà, e tutte le campagne referendarie che ci potranno essere dall’autonomia differenziata alle battaglie che come Cgil abbiamo deciso di fare per cancellare le leggi balorde che in questi anni hanno favorito la crescita della precarietà», conclude Landini
AudioCoop segnala Spotify al ministero della Cultura. Il presidente Giordano Sangiorgi: “Così si cancella un intero patrimonio musicale”
AudioCoop è un’associazione che si rivolge a discografici, editori, produttori, artisti, festival e videomaker italiani indipendenti, ovvero dediti all’autoproduzione, nata nel 2000 all’interno del Mei di Faenza (il Meeting delle etichette indipendenti) e che rappresenta, oggi, circa il 5% del mercato discografico italiano. Obiettivo di AudioCoop è fare conoscere le diverse realtà indipendenti italiane alle istituzioni e agli organismi che operano nel settore culturale e musicale. Nei giorni scorsi, l’associazione ha segnalato Spotify al Ministero della Cultura.
Giordano Sangiorgi, presidente AudioCoop, come mai questa iniziativa?
L’antefatto è che nei giorni del ponte dell'8 dicembre 2023 tantissime piccole realtà musicali in Europa e in Italia hanno ricevuto la mail di un aggregatore digitale che rappresenta la maggioranza, quasi un monopolio a livello europeo. Stiamo parlando di Believe, una realtà nata in Francia nel 2008 che aggrega tantissime piccole realtà musicali, ma anche i big delle major. Nella mail si segnalava che, nel caso di scoperta di brani fake, ovvero truccati coi bot o con acquisizione di finti streaming, si sarebbe proceduto alla cancellazione del brano. Su questo noi siamo totalmente d'accordo, così come sulla cancellazione dei rumors, e cioè quei brani con registrazione di rumori della strada, che vengono messi online solo per incassare. La cosa grave secondo noi è che si proceda a cancellare l’intero catalogo dell'artista o dell'etichetta. Parliamo magari di artisti con cinquanta, cento brani caricati in quindici anni, o etichette che ne hanno più di duemila. Questa posizione presa da Believe in maniera del tutto unilaterale è per noi molto grave, ma lo possono fare perché non ci sono norme a tutela dei consumatori, né degli artisti che si affidano a questi aggregatori digitali.
Contemporaneamente c’è un’altra presa di posizione che vi ha spiazzati: l’annuncio di Spotify di non voler più pagare le royalties sotto i mille stream.
Diciamo che questa azione congiunta, in tempi brevissimi, ci ha allarmati. Abbiamo immediatamente segnalato queste che ci paiono pratiche eticamente scorrette e totalmente illegittime. Non pagare sotto i mille stream è come dire a un cameriere che non lo paghi se non porta almeno mille caffè al giorno. Una cosa veramente grottesca, che abbiamo segnalato al Ministero della Cultura e al Ministero delle Imprese e del Made in Italy. Abbiamo incontrato la sottosegretaria alla Cultura Lucia Borgonzoni e chiesto un intervento immediato a tutela di tutte quelle piccole realtà indipendenti che sarebbero state colpite nell’immediato da questi provvedimenti. Non pagare sotto i mille stream significa risparmiare tre euro per circa 150 milioni di brani, ovvero ben 450 milioni. Il rischio non è solo la cancellazione immediata delle piccole realtà discografiche, ma anche di un interno e prezioso patrimonio musicale, che negli ultimi quindici anni ha vissuto prevalentemente sulle piattaforme digitali. Chiediamo al governo di tutelare la musica schiacciata dalle multinazionali, e di investire per creare delle piattaforme digitali europee nazionali alternative a questi colossi multinazionali.
La sensazione è che, come succede sempre nella storia, quando una realtà produttiva artistica si crea dal basso, a un certo punto arriva sempre la longa manus del mainstream a invaderla. Quello che nasce come un territorio di democratizzazione dei processi culturali, viene alla fine comunque colonizzato dai colossi.
Chi detiene il potere economico aspetta solo il momento che tutti i pionieri abbiano speso le loro risorse, per raggiungere quella massa critica di utenti per “comprarseli”. È la stessa cosa che è successa con le radio libere, poi fagocitate dalla concentrazione dei grandi network nazionali. Questo ha significato non solo annientare le piccole radio locali di comunità, ma anche diffondere la stessa musica ovunque. Quello che sta accadendo col digitale è ancora peggio, perché non esiste più il mercato fisico della distribuzione della musica. Prima c’erano i cd, le musicassette, i dischi. Negli anni Novanta gruppi come i Modena City Ramblers, i Mao Mao e tanti altri bastava che distribuissero una cassetta, magari autoprodotta, e in un anno erano capaci di vendere 5, 10 mila copie ai concerti. Allora c'era una massa critica nel mercato dei giovani consumatori musicali alternativa al circuito Sanremo. Oggi questo non esiste più, nel mercato digitale non c'è una piattaforma alternativa, perché non ci sono le risorse per farla vivere. E poi ci troviamo di fronte a un cambiamento dei gusti, degli stili, del modello giovanile di consumo, che sta mettendo in crisi questa realtà. Ci troviamo di fronte a due tipi di mercati musicali totalmente antitetici e lontani: da un lato quello delle major, che offrono intrattenimento da villaggio turistico in serie. Vai a un concerto e trovi un pubblico che canta le canzoni in coro con l’iPhone di fronte a un singolo, che spesso non è neanche un vero musicista. Lo stesso fenomeno Måneskin è rimasto un unicum, perché portare in giro le band costa. Dall’altro lato, ci sono gli artisti che innovano, sperimentano, che hanno contenuti sociali, civili. Musicisti che continuano a suonare dal vivo, ad andare in studio, con i costi che questo comporta, ma non hanno più un mercato a cui rivolgersi. Ed è qui che devono intervenire il governo e l'Unione Europea.
Hai citato Sanremo, dove ormai nella presentazione degli artisti in gara c’è sempre il riferimento a quanti streaming ha fatto, come nuova unità di misura del successo. Cosa ne pensi?
Penso che faccia parte di una logica mainstream di cui poi gli artisti pagano le conseguenze. Penso a Sangiovanni, penso a Ghemon. Se vivi solo di numeri, quando i numeri si abbassano tu vieni messo da parte, passi dalle stelle alle stalle in pochissimo tempo. Il problema è che a volte i numeri sono farlocchi, perché è noto che anche molti big, per esempio nel mondo della trap, gonfiano i numeri. E quindi sei fuori se imposti dei ragionamenti con canzoni che vanno al di là di slogan, testi banali, basi banali, e un linguaggio volgare che puntano a un consumo usa e getta. La sola misurazione attraverso la quantità è un danno, ma lo era anche cinquant’anni fa, quando Luigi Tenco scrisse “mi suicido” (al di là chiaramente delle problematiche personali), mentre andava in finale Io, tu e le rose. Quell’epoca per alcuni versi era simile a quella contemporanea. Negli anni Sessanta ci fu il boom dei singoli in un momento in cui si era abituati ad ascolti di quaranta, cinquanta minuti. Il disco era come un libro, era un racconto.
Se la musica non è più una risposta generazionale, ma solo una risposta di mercato, il messaggio rivoluzionario e culturale si depotenzia e tu artista emergente diventi quello che serve alle major per fare i soldi.
Diciamo che questo è un fenomeno anche qui che c'è sempre stato, persino con il rock. Chi detiene il potere economico cavalca il fenomeno di tendenza. Il rock and roll era un movimento di ribellione giovanile addirittura censurato dalla tv americana, Elvis Presley non poteva muovere il bacino. Ma poi diventò una gigantesca macchina da soldi per l’industria discografica, e non solo. Però accade che quando il fenomeno alternativo diventa un fenomeno di massa, si trasforma in prodotto e perde di autenticità. Il mercato allora crea artisti da allevamento come polli in batteria, che non hanno fatto alcuna gavetta, nascono e muoiono nel giro di pochi anni. Non hanno quel curriculum che fa capire se sei uno che ha iniziato studiando musica, che ha fatto i palchi dei contest e quelli dei pub sconosciuti, che poi è arrivato ai festival più grandi. La gavetta aiuta a crescere, a sviluppare una personalità. Oggi, invece, ci troviamo di fronte a una trap modaiola, fatta da giovani dell’alta borghesia che fingono di essere dei gangster rap, aggrappandosi a modelli che sono anni luce lontani da loro. Oppure, completamente all’opposto, artisti in testa alle classifiche che stanno agli arresti domiciliari, e a cui gli adolescenti si ispirano. Ma è tutta una questione di marketing, se l’inno cubano facesse vendere, le major si butterebbero su quello. Poi ci sono, invece, quelli come Ghali che, cantando L’italiano di Toto Cutugno a Sanremo, ha fatto un’operazione di grande caratura politica.
C’è un problema etico, certamente, però bisogna anche dire che tra i giovani musicisti non esistono solo i trapper. Ci sono artisti molto diversi, che però le case discografiche molto spesso non hanno interesse a sostenere e promuovere.
Non si è giovanilisti appoggiando tutto ciò che ci viene narrato sui giovani. Lo si è appoggiando i giovani. La narrazione dei giovani tutti trapper è totalmente falsa. Io frequento tantissimi festival e contest legati alla musica live dal basso, e incontro tanti gruppi rock, cantautrici brave, gruppi folk. C’è un incredibile ritorno al prog. Dietro la trap ci sono anche motivazioni economiche: fare una canzone nella propria cameretta costa pochissimo e quindi ti permette nell'economia del digitale di guadagnare molto di più. Se invece devi impegnare un quintetto rock di giovani che per suonare si devono incontrare, andare in sala prove, poi in studio, spostarsi per i live, i costi si quintuplicano. Non dovrebbe essere più libera solo la musica, ma anche i media che la raccontano, soprattutto i più grandi. E purtroppo, non è così.
Si moltiplicano iniziative, atti e leggi per reprimere il dissenso e punire chi protesta: un filo antidemocratico lega il decreto anti-rave ai fatti di Pisa
Dal decreto anti-rave alla legge contro gli attivisti climatici. Dalla riforma del reato di diffamazione alla revisione di quello di tortura. Dai 54 milioni di persone identificate nel solo 2023 ai provvedimenti-bavaglio che vogliono ridurre le notizie pubblicabili. È l’Italia delle restrizioni della libertà, dove il dissenso non trova cittadinanza e la protesta è da condannare. O anche da prendere a manganellate, come è successo a Pisa e Firenze agli studenti che pacificamente manifestavano per la Palestina nelle strade del centro e sono stati caricati dalla polizia.
“C’è una compressione dei diritti di espressione e di manifestazione, un’evidente insofferenza verso il dissenso e una sostanziale incapacità di esercitare la democrazia, perché la forza di governo viene da una matrice fascista – afferma Tomaso Montanari, storico dell’arte, saggista e rettore dell’università per stranieri di Siena –. Quello che è successo a Pisa è un salto di scala: lì non c’era nessuna ragione plausibile per fermare con la violenza gli studenti. L’idea che si possa essere picchiati in qualsiasi momento dalle forze dell’ordine, senza alcun motivo, è un’idea devastante, da Paese sudamericano, che spiega l’intervento del presidente della Repubblica che ha
Leggi tutto: L’Italia delle restrizioni - di PATRIZIA PALLARA
Il ddl sul commercio di armi prosegue il suo iter alla Camera: l’appello di Banca etica per stop e l’allarme dell’associazionismo
Il Senato ha approvato in aula lo scorso 21 febbraio le modifica alla legge che regola l’import-export degli armamenti che mirano a cancellare i meccanismi di trasparenza e controllo parlamentare sul commercio di armi e sulle banche che finanziano tali operazioni. Se la legge sarà approvata in via definitiva alla Camera, non sarà più possibile avere la lista delle ‘banche armate’.
“Con una fretta inconsueta e degna di miglior causa e approfittando della distrazione della stampa e dell’opinione pubblica – afferma la presidente di Banca etica, Anna Fasano -, il disegno di legge di iniziativa governativa è stato approvato in tempi record prima in commissione e poi in aula al Senato, dove sono stati bocciati tutti gli emendamenti che tentavano di mitigare gli effetti più nefasti del disegno di legge in esame”.
Fasano illustra poi l’importanza della legge 185/1990 sull’export di armi , “che ora si vuole smantellare in nome della rapidità nelle operazioni militari e della sburocratizzazione: il provvedimento poneva l’Italia all’avanguardia, con una forte attenzione verso il rispetto delle convenzioni internazionali specialmente per quanto riguarda le vendite a Paesi in conflitto o che violano i diritti umani, e imponeva alle banche di rendere noti al Parlamento i finanziamenti e i servizi che rendono tali operazioni possibili”.
L’associazione Rete pace e disarmo spiega che i tre emendamenti al ddl approvati non solamente inficiano gravemente la trasparenza della Relazione annuale al Parlamento sulle esportazioni dall’Italia di materiali militari, ma si innestano su un testo che presenta già aspetti problematici “perché modifica i meccanismi di rilascio delle autorizzazioni affidando il cuore delle decisioni all’ambito politico senza un adeguato passaggio tecnico che garantisca il rispetto dei criteri della legge italiana e delle norme internazionali sulla materia”.
“Particolarmente negativo – afferma Giorgio Beretta dell’Osservatorio Opal – è l’emendamento volto ad eliminare ogni informazione riguardo agli Istituti di credito operativi nel settore dell’import/export di armamenti. I correntisti non sapranno più dalla Relazione quali sono le banche, nazionali ed estere, che traggono profitti dal commercio di armi verso l’estero, in particolare verso Paesi autoritari o coinvolti in conflitti armati”.
Bocciati quasi tutti gli emendamenti delle minoranze, ma anche alcuni importanti emendamenti proposti dalla stessa relatrice, che andavano nella direzione di un miglioramento di controlli, meccanismi decisionali e trasparenza sull’export. Si conferma quindi l’atteggiamento di sordità rispetto alle richieste giunte dall’associazionismo che si batte affinché sistemi d’arma italiani cessino di essere inviate in situazioni di conflitto e di violazione diritti umani anche con il sostegno delle banche, che con il ddl diverrebbe occulto.
Anche Banca etica è nata “dall’impulso delle grandi reti della società civile italiana che si battevano anche per una finanza etica che rifiutasse di fare affari con chi produce strumenti di morte”, spiega sempre la presidente Fasano. “Oggi il Gruppo chiede a quelle reti e a tutta la società civile di mobilitarsi per dire di no all’approvazione definitiva delle modifiche che cancellerebbe ogni forma di trasparenza e di controllo da parte del Parlamento, dei cittadini e dei risparmiatori sugli affari delle industrie belliche e delle banche che le affiancano”. In vista del passaggio a Montecitorio chiede inoltre “ai deputati di approvare modifiche alla norma per ripristinare il controllo del Parlamento sull’export di armi e sulle banche che fanno affari con tali operazioni”.