Il testo arrivato in Parlamento conferma le più fosche preoccupazioni, il bilancio viene fatto quadrare a suon di tagli. Colpiti welfare, sanità, scuola, pensioni
È vero l’Italia ha un debito pubblico elevato; è vero il Governo Meloni pochissimi mesi fa ha sottoscritto le nuove norme europee che riportano il Paese all’austerità; è vero le risorse a disposizione sono poche visto che nonostante le magnificenze raccontate la crescita del Pil ricorda i prefissi telefonici. Tutto vero, ribadiamo, ma nonostante questo la manovra è frutto di scelte. È forse la legge che più di altre racconta quale sia la filosofia di fondo che chi siede – pro tempore – a Palazzo Chigi vuole affermare. Se ancora non si fosse capito quella di Meloni, sostenuta da ministre e ministri, è quella che – non dicendolo esplicitamente – va ridotto tutto ciò che ha il sapore di pubblico, spostando tutto quel che si riesce sul privato e sul mercato. Lo stato leggero, dunque che ha molto il sapore del neo liberismo che pensavamo esserci messi alle spalle.
L’analisi la compie la Confederazione di Corso d’Italia che dice: “Con una crescita del Pil dello ‘zero virgola’, diciannove mesi consecutivi di calo della produzione industriale, la povertà in aumento, l’economia sommersa in espansione, un lavoro sempre più precario, è stata varata una manovra di bilancio che non solo non risolverà alcun problema, ma peggiorerà ulteriormente la situazione”. E già perché tagli su tagli, al sociale ma non solo, anche agli investimenti, e in assenza di una politica industriale sarà l’intero Paese a fermarsi e a pagarne lo scotto.
La manovra è arrivata alla Camera in grandissimo ritardo rispetto alle tabelle di marcia stabilite per legge, ma si sa l’Esecutivo in carica tende a piegare le norme a suo piacimento. Ma cosa assai più grave, per la prima volta da quando abbiamo memoria, non è stato previsto nessun incontro, figuriamoci confronto, con le parti sociali. Il commento della Cgil è netto: “Tutto è stato deciso in maniera arrogante e autoreferenziale, senza neppure confrontarsi con le forze sociali: scelta che non ha precedenti. Di fronte a decisioni che non solo danneggiano le persone che rappresentiamo, ma porteranno a sbattere tutto il Paese, non possiamo restare a guardare. Andremo avanti con ogni iniziativa utile per determinare un cambiamento delle politiche economiche e sociali”.
Lo dicevamo la manovra, pur nel rispetto dei vicoli europei, si sarebbe potuta scrivere in maniera diversa, è frutto di scelte. Invece che tagliare tutto ciò che è pubblico a cominciare dal welfare, si può decidere di andare a prendere le risorse là dove ci sono, grandi patrimoni, evasione, extra profitti ecc, e si può decidere di allocarne diversamente altre. Un esempio, spostare una quota di quanto previsto per le spese militari sulla sanità. Lo afferma, in una nota, la Cgil nazionale che illustra come la manovra sia: “Un vero e proprio festival dei tagli al welfare universalistico, agli investimenti e ai servizi pubblici che – avverte la Confederazione – si scaricherà per intero sulle fasce popolari, già brutalmente impoverite da un’inflazione da profitti che, tra le altre cose, ha determinato, negli ultimi 4 anni, la drammatica riduzione del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, mentre gli utili netti in molti settori sono decollati”. Infine una vera e propria beffa, ricordate le pensioni minime, questa la promessa elettorale, sarebbero arrivate a 1000 euro. Ebbene no! L’aumento c’è ma ridotto rispetto agli impegni presi, raggiungerà la fantastica cifra di 3 euro (tre, non è un errore) al mese.
Questa deve essere la convinzione di Meloni, Zangrillo e Giorgetti, e così con un sol colpo si tagliano ai ministeri 7,7 miliardi in tre anni, dal 2025 al 2027, solo il prossimo vedrà meno 2,64 miliardi e altrettanti per gli enti locali dal 2025 al 2029, oltre quanto già disposto dalla precedente legge di bilancio. Siccome non si può non pagare luce e gas, come si risparmierà? Innanzitutto si scopre che surrettiziamente è stato reintrodotto il blocco del tour over nella pubblica amministrazione con un risparmio di spesa di 571 milioni di euro all’anno dal 2026. Con buona pace della promessa di un piano di assunzione straordinario per ringiovanire la pubblica amministrazione e renderla adeguata alle nuove necessità che la digitalizzazione porta con sé. E in barba al fatto che – come ricordato durante la manifestazione delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici lo scorso 19 ottobre – ne mancheranno da qui al 2030, 1 milione e 200mila addetti.
Diritto garantito dalla Costituzione ma che con i tagli previsti dalla manovra sarà difficilissimo rispettare. Come si traduce il taglio lineare a Ministero? In taglio agli organici. Il conto è presto fatto, si eliminano 5.660 posti per insegnati e 2.174 posti per personale amministrativo e ausiliario. Come si farà a garantire il tempo pieno nelle regioni meridionali? Come si farà a garantire le attività di sostegno ai ragazzi e alle ragazze, soprattutto a quelli più fragile? E tutte le attività legate al Pnrr che si scaricano sulle segreterie delle scuole come saranno evase? E quale sarà il destino degli oltre 250mila precari? Per non parlare delle risorse per il rinnovo del contratto che non sono proprio menzionate. Non foss’altro che per questo, ma c’è molto altro per cui protestare, il prossimo 31 ottobre il personale della scuola sarà in piazza, chiamato dalla Flc Cgil, per rivendicare un contratto giusto e un lavoro stabile.
Meloni ha girato un video per raccontare quante risorse, a suo dire mai così tante, sono state destinate alla sanità. Falso! Il ministro Schillaci più volte aveva annunciato che ci sarebbero stati almeno tre miliardi aggiuntivi rispetto allo scorso anno e invece saranno al massimo 1miliardo e 300miliano ma di questi una parte sono già “spesi” per impegni presi precedentemente, quindi se tutto va bene arriveranno 900 milioni, così non si coprono nemmeno i costi dell’inflazione. Di quei 900 milioni, 50 andranno a finanziare le indennità aggiuntive per medici e infermieri che operano nei pronto soccorso, 50 per le indennità di specificità dei medici e 50 per il personale sanitario, un incremento di ben 17 euro al mese per i medici e 7 euro al mese per il personale del comparto. Lordi eh, beninteso. Per il rinnovo del contratto risorse solo per un terzo della perdita del potere d’acquisto, nulla per i restanti 2/3 così come nulla per superare i limiti alla contrattazione di secondo livello tranne uno 0,22% sul monte salari 2021. Nulla per il piano straordinario di assunzioni, mentre ci sono 184,5 milioni di euro per il taglio delle liste d’attesa, peccato che andranno quasi tutti ai privati visto che il Governo ha incrementato ulteriormente il limite di spesa verso la sanità privata.
Il Governo è davvero sordo a qualunque richiesta, anche in questo caso i tagli la fan da padroni, innanzitutto quelli al personale, portato avanti di nascosto. Lo dicevamo si reintroduce il blocco parziale del tuor over, su 4 in quiescenza solo 3 verranno sostituiti. E poi attraverso le risicatissime risorse per il rinnovo dei contratti si conferma il taglio del potere di acquisto delle buste paga dei dipendenti pubblici dei 2/3. E tagli al personale sono anche quelli che scaturiranno dalla mancata stabilizzazione dei precari. Infine, con gli incentivi a rimanere al lavoro fino a 70 anni, in realtà si taglia la possibilità di rinnovare la pubblica amministrazione attraverso le assunzioni di giovani.
Altra retorica meloniana, la centralità dei lavoratori e delle lavoratrici che garantiscono sicurezza. Falso! Sono previsti 1,5 miliardi di tagli al ministero dell’Interno, tagli lineari che costituiscono una mazzata e incideranno negativamente su tanti fronti a iniziare dalle assunzioni, per arrivare all’acquisto di mezzi, apparecchiature, politiche alloggiative, formazione, fino all’acquisto di beni di copisteria. Altro che investimenti in sicurezza.
La strada da intraprendere è diversa, la via la indica la Cgil che sostiene che le risorse per evitare i tagli si dovevano prendere dove si sono prodotte, ci sono alcuni settori che hanno fatto profitti stratosferici e poi: “E’ da una seria lotta all’evasione fiscale, che andavano recuperate le risorse necessarie a rispettare i parametri del nuovo Patto di Stabilità, cui l’Esecutivo italiano ha purtroppo dato via libera nel Consiglio europeo”. “Si è scelto deliberatamente di non farlo, preferendo – aggiunge la Cgil – ridurre ulteriormente i dipendenti pubblici (a partire da insegnanti e personale scolastico), tagliare ancora una volta le risorse agli enti locali, rinunciare alle indispensabili assunzioni nella sanità, prevedere interventi peggiorativi in materia previdenziale, privarsi della stessa possibilità di mettere in campo politiche industriali in grado di invertire un declino produttivo sempre più evidente”. Non rimane che mobilitarsi in tutte le forme che la Costituzione e le norme prevedono, per far sentire la voce del lavoro.
La segretaria generale dello Spi Tania Scacchetti lancia la mobilitazione: “La manovra del governo colpisce gli anziani, non siamo il bancomat del Paese”
I pensionati italiani vanno alla mobilitazione. Nell’arco di quattro giorni, dal 28 al 31 ottobre, lo Spi Cgil sarà in piazza con venti manifestazioni territoriali, in tutte le regioni italiane, per protestare contro la legge di bilancio del governo Meloni. E non solo: sono molte le questioni in ballo, che vanno dalla rivalutazione del potere d’acquisto fino al sistema fiscale, rilanciando la richiesta di cambiare rotta subito. Un altro modello di sviluppo è necessario. Abbiamo fatto il punto della situazione con la segretaria generale dello Spi, Tania Scacchetti.
La mobilitazione dei pensionati e delle pensionate viene da lontano, è una lunga battaglia condotta dallo Spi Cgil. Come si arriva a queste giornate?
Arriviamo alla protesta nell’ambito della mobilitazione più generale proclamata dalla Cgil Nazionale, per contrastare la legge di bilancio e le politiche economiche e sociali complessive, che sono un tratto dell’attuale governo ma anche dell’Europa: oggi rischiamo il ritorno all’austerità. Non c’è alcuna risposta adeguata sul tema della redistribuzione della ricchezza.
Qual è l’obiettivo delle piazze che avete convocato?
Il nostro scopo è mettere al centro la condizione dei pensionati: non a caso lo slogan, “Il potere d’acquisto logora chi non ce l’ha”, è dedicato proprio alla tenuta del potere d’acquisto. Nell’epoca delle grandi diseguaglianze i pensionati hanno lasciato tanto sul campo e rischiano di perdere molto altro, impoverendo una generazione che si basa proprio sul welfare. Poi c’è un altro grande tema portante della protesta, che riguarda la tenuta del patto previdenziale.
Ce lo puoi spiegare?
Siamo molto preoccupati del taglio sulla rivalutazione degli assegni. Bisogna ricordare che negli ultimi trent’anni abbiamo avuto 100 miliardi di euro di tagli, oltre 16 miliardi negli ultimi due anni. Un sistema del genere si appresta ora a chiedere un contributo di solidarietà alle banche, che poi verrà restituito, questo dà la misura esatta di ciò di cui parliamo. Mentre agli altri più forti si restituisce, alle pensioni viene chiesto da sempre un contributo di solidarietà, che non torna mai indietro. Non siamo più disponibili a fare il bancomat del Paese.
Tra i nodi della mobilitazione, avete poi messo sul tavolo il problema annoso della sanità e della non autosufficienza.
Certo. Il sistema sanitario è allo stremo, continua ad arretrare e non si mettono risorse, la conseguenza è che risultano oggettivamente penalizzati i più fragili. I pensionati sono tra questi: non c’è un accesso facile alla sanità, i redditi vengono compromessi dalla necessità di ricorrere al privato, una spesa molto alta che erode ulteriormente la condizione degli anziani. Dei quattro milioni di cittadini che si curano nel privato, moltissimi sono pensionati.
Come si inserisce il fisco in questo quadro?
La questione fiscale è prioritaria. Abbiamo una grandissima distrazione di risorse, non si fa niente contro l’evasione e l’elusione, anzi i continui condoni proteggono sempre le stesse persone seguendo una logica corporativa. È proprio così che si rompe il patto fiscale tra lo Stato e i cittadini: in Italia oltre il 90% Irpef è a carico di lavoratori dipendenti e pensionati, il fisco è davvero la madre di tutte le questioni.
Alla luce di queste ragioni, per quattro giorni si va in piazza in tutta Italia. I protagonisti sono i pensionati, ma non solo.
La mobilitazione vuole mettere al centro i bisogni degli anziani e delle anziane per far crescere l’intero Paese. È anche una grande questione democratica. Da lunedì a venerdì vedremo nelle piazze una parte importante dell’Italia, i pensionati, che rifiutano la logica imposta dal governo, la torsione autoritaria preoccupante, la volontà di cambiare la Costituzione e stravolgere il ruolo del lavoro che sta scritto nella Carta. Sono piazze che rivendicano la pace, che si oppongono al ddl sicurezza, che indicano un modello diverso rispetto all’idea di questo esecutivo. Insomma, quella dei pensionati è una battaglia per la democrazia e per cambiare modello di sviluppo.
Precarietà dilagante e salari da fame svuotano le buste paga delle famiglie italiane. Perdita record del potere d’acquisto. Gabrielli, Cgil: “Il governo cambi radicalmente".
Non deve essere stato facile per Meloni leggere i dati diffusi dall’Istat sulla povertà e quelli resi noti dall’Inps sulla perdita di potere di acquisto, contrappuntati dalle parole del capo dello Stato Mattarella su salari e precarietà. O può anche essere che la presidente del Consiglio preferisca la sua narrazione ai dati di realtà e le parole del Presidente non abbia avuto il tempo di ascoltarle. Restano i numeri e restano le frasi pronunciate.
È aumentata la povertà relativa e assoluta, ed è aumentata ancor di più la povertà delle famiglie in cui l’adulto di riferimento è un operaio o un lavoratore assimilabile. Attesta l’Istat nel sul Rapporto annuale sulla povertà in Italia che nel 2023, secondo anno di governo Meloni, l’incidenza di povertà tra le famiglie con persona di riferimento operaio e assimilato è pari al 16,5%, in crescita rispetto al 14,7% del 2022, “raggiungendo il valore più elevato della serie dal 2014”. Lo stesso Istituto nazionale di statistica racconta che nel medesimo anno si contano 419mila occupati e occupate in più rispetto a quello precedente.
Non solo, per l’Istat la povertà assoluta tra “le famiglie con persona ritirata dal lavoro mostrano valori stabili (5,7%) dopo la crescita del 2022, mentre si confermano invece i valori più elevati per le famiglie con p.r. in cerca di occupazione (20,7%)”. Insomma solo poco più di 4 punti percentuale di incidenza della povertà assoluta separa le famiglie con persona di riferimento in cerca di lavoro da quelle operaie.
Perché nell’anno record per numero di posti di lavoro creati aumenta la povertà tra chi un lavoro ce l’ha e rimane stabile tra chi un lavoro lo cerca? Le risposte arrivano proprio da Istat e Inps, ma bisogna avere l’umiltà di leggerli con occhiali neutri, non con quelli offuscati dalle lenti della propaganda. E poi occorre saper “mettere insieme i pezzi”. Cominciamo con ordine.
Afferma l’Inps nel XXIII Rapporto annuale che a fronte di un aumento dell’occupazione “non è corrisposto un incremento dei redditi e delle retribuzioni tale da compensare pienamente la perdita di potere d’acquisto conseguente alla recrudescenza del fenomeno inflattivo”. E già perché mentre l’inflazione viaggiava abbondantemente a doppia cifra arrivando a superare il 17%, sempre secondo l’Istituto, salari e stipendi sono aumentati del 6,8% lordo. Piccola notazione, come si sa l’inflazione ha un’incidenza maggiore proprio sui redditi più bassi, quelli da lavoro dipendente e pensioni.
Parlando dal palco di Piazza del Popolo a Roma davanti a migliaia di lavoratrici e lavoratori pubblici a cui il governo vorrebbe rinnovare il contratto con il 5,78% di aumento a fronte di un’inflazione ben oltre il 17%, il segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha ricordato che quella che ha attraversato l’Europa è un’inflazione da profitti non da dinamica salari-prezzi. Il che significa che rendite e imprese se ne sono giovate “lucrando” sul lavoro e su chi quei profitti produce con la propria fatica.
Se questa della perdita del potere di acquisto dei salari è la prima ragione dell’impoverimento delle famiglie dei lavoratori e delle lavoratrici dipendenti, la seconda risiede nel modo in cui si leggono i dati del mercato del lavoro. Ci ricorda la sociologa statistica Linda Laura Sabbadini “che se guardiamo agli occupati in più del 2023, ci accorgiamo che la stragrande maggioranza erano ultracinquantenni, segmento meno a rischio di povertà assoluta dei giovani, che invece non hanno ancora raggiunto i tassi di occupazione precedenti alla crisi del 2008-2009”.
Precario, part time, femminile, giovanile. Questo è il lavoro creato e incentivato dal governo Meloni. Sono oltre 4 milioni di donne e uomini che lavorano e ogni anno portano a casa meno di 12mila euro lordi. È lavoro povero perché la paga oraria è bassa, o perché le ore lavorate sono poche, davvero troppo poche. Ma Meloni non solo ha fatto e continua a fare una guerra senza quartiere al salario minimo legale, ma con il Collegato lavoro vuole introdurre un’ulteriore liberalizzazione e incentivazione della precarietà. E per di più, per quel che è dato sapere, nella prossima manovra non ci saranno nemmeno le risorse sufficienti per il rinnovo del contratto dei dipendenti pubblici.
A conferma di quanto fin qui abbiamo illustrato arriva ancora l’Istat che attesta come l’incidenza della povertà assoluta nelle regioni meridionali sia la più alta del Paese ma è stabile, il 12% contro il 9,1 del Nord Ovest e l’8,6 del Nord Est, mentre nelle regioni settentrionale i poveri aumentano passando da 2 milioni e 298mila a 2 milioni e 413mila. Il settentrione è proprio quella zona a maggior incidenza di occupazione, che quindi sconta di più sia la perdita di potere di acquisto di salari e pensioni, sia la maggior quantità di lavoro povero.
“L’occupazione, non soltanto nel nostro Paese – ha affermato il capo dello Stato durante la cerimonia di consegna delle Stelle al merito del lavoro – si sta frammentando, con una fascia alta, in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre più in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentati anche da part-time involontari e da precarietà. Si tratta di elementi preoccupanti di lacerazione della coesione sociale”.
Non foss’altro che per il fatto che il presidente della Repubblica è il garante della Costituzione che sancisce che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, e che all’art. 36 afferma: “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un'esistenza libera e dignitosa. La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi”. Mattarella andrebbe ascoltato.
“La fotografia del Paese conferma la necessità di un cambio radicale delle politiche del lavoro”. Così Maria Grazia Gabrielli, segretaria nazionale della Cgil commenta il Rapporto dell’Istat, e aggiunge: “Le tante forme di discontinuità lavorativa e orari ridotti legati al part-time involontario generano quel lavoro povero che continua a negare prospettive e opportunità alle persone a partire proprio dai giovani, dalle donne e dalle persone con maggiori vulnerabilità. Se alla crescita dell’occupazione non corrisponde un aumento della qualità del lavoro significa che i provvedimenti e le misure intraprese sono sbagliate e non hanno scalfito precarietà e disuguaglianze che caratterizzano il mercato del lavoro. Come la persistente presenza di lavoro sfruttato, irregolare e nero, continua ad alimentare una economia del sommerso a danno del Paese che relega le persone alla povertà e all’insicurezza”.
Come sempre si tratta di scegliere quali sono le priorità, cosa fare per invertire la china del lavoro povero. Per la dirigente sindacale occorre “agire per rimuovere la povertà del lavoro necessita di azioni su più piani, dal tema dei salari al cancellare le forme contrattuali precarie ad investire realmente nelle politiche attive del lavoro. Le misure degli incentivi alle assunzioni, la continua liberalizzazione dei contratti precari e flessibili reiterati dal governo anche nel recente Collegato Lavoro non rispondo al bisogno di un lavoro stabile, sicuro, tutelato e dignitoso”.
Migliaia di lavoratori dell’automotive invadono Roma per lo sciopero generale del settore. De Palma, Fiom: “Eccoci qui, è ora di riprenderci il potere”
Un fiume colorato ha attraversato il centro di Roma. Migliaia di metalmeccanici sono arrivati nella Capitale da ogni parte d'Italia per denunciare le grandi difficoltà che sta attraversando l'automotive, in occasione dello sciopero generale del settore indetto da Fiom Cgil, Fim Cisl e Uilm Uil. Un comparto strategico per l'Italia, che continua ad essere il secondo Paese manifatturiero d'Europa (pesa l'11 per cento del Pil).
Una punteggiata di bandiere rosse, verdi e blu , striscioni e fumogeni, cori manifestazione e canzoni. Il corteo è partito poco prima delle ore 11 da piazza Barberini, imboccando poi via Sistina per concludersi in piazza del Popolo, dove hanno parlato numerosi delegati sindacali, ospiti internazionali ei segretari generali delle tre sigle metalmeccaniche.
L'industria automobilistica si trova nel mezzo del percorso verso la transizione all'elettrico e necessita di scelte strategiche importanti. Scelte che coinvolgono la Commissione Europea, il governo italiano e Stellantis . A preoccupare è soprattutto la situazione dell'ex Fiat: la produzione nel 2024 è in forte calo, l'utilizzo degli ammortizzatori sociali sta crescendo ovunque e prosegue la strategia di riduzione del numero di dipendenti attraverso lo strumento degli incentivi all'esodo.
“In un'assemblea in piazza a Torino, assieme alle lavoratrici e ai lavoratori, avevamo detto che senza risposte da Stellantis, senza risposte dal governo, avremmo scioperato e manifestato a Roma. La nostra parola in assemblea vale più di una firma: eccoci qui”. È con queste parole che il segretario generale Fiom Cgil Michele De Palma ha iniziato il comizio conclusivo della manifestazione di Roma.
“In questi anni – ha proseguito – pensavano di averci divisi, frantumati, cancellati: i lavoratori dell'industria e dell'automotive erano quasi diventati invisibili. I riflettori erano per gli amministratori delegati e per i presidenti, vedevamo ogni volta i politici sgomitare per avere un selfie con loro. Ma le auto non esistono senza chi le progetta, le assembla, le costruisce, le produce: senza prodotto non c'è alcun profitto per le aziende”.
De Palma ha rimarcato che “sono passati 30 anni dall'ultimo sciopero dell'automotive: oggi abbiamo svuotato le fabbriche di Stellantis e della componentistica. E abbiamo riempito piazza del Popolo, che possiamo ribattezzare ‘piazza del Popolo delle metalmeccaniche e dei metalmeccanici’. Ma la riuscita di questo sciopero non è frutto dei segretari generali o dei funzionari, bensì del lavoro costante e della credibilità che il sindacato e i suoi delegati hanno dentro i luoghi di lavoro”.
Il leader Fiom ha poi sottolineato che questo sciopero è “riuscito a unire tutti, dai sindacati alle istituzioni, dalle forze sociali ai cittadini, alle associazioni. E anche qualche imprenditore ha chiamato per dire: ‘fate bene a scioperare’. Questa piazza non ha riunito solo il mondo del lavoro, ma guarda anche a quel mondo delle imprese che ha subìto gli effetti delle scelte scellerate fatte da Stellantis. Noi qui oggi siamo al centro della nascita di un movimento multinazionale dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori”.
De Palma ha evidenziato che “decidere di alzarsi in piedi e incrociare le braccia non è mai semplice. Capita talvolta che ci dicano: ‘andate a fare la passeggiata a Roma’. Provate a dirlo a chi è in cassa integrazione da dieci anni, a chi non ha i soldi per far studiare i propri figli o per fare qualche giorno di vacanza. Provate a dirlo a chi sta in cassa integrazione con mille euro al mese. Oppure a chi non è condizione di aiutare il padre o la madre che si ammalano, ed è costretto a chiedere i soldi del Tfr per poter tenere testa alla situazione casalinga”.
Per De Palma l’amministratore delegato di Stellantis Carlos Tavares “dovrebbe avere rispetto per queste lavoratrici e lavoratori. In Parlamento ha detto che i lavoratori sono rancorosi. No, noi non siamo rancorosi: noi siamo incazzati, perché vogliamo lavorare e cancellare le parole esuberi e cassa integrazione della nostra vita. Le fabbriche sono nostre e noi le difendiamo come difendiamo l'industria del nostro Paese. Per questo, con grande umiltà, vorrei chiedere al presidente della Repubblica, custode della nostra Costituzione, di ascoltare il silenzio delle fabbriche chiuse per lo sciopero e il rumore della vita della nostra Repubblica fondata sul lavoro”.
Continuando su Tavares, il leader Fiom ha rimarcato che l'ad Stellantis “parla solo di tagli: tagli degli occupati , tagli al salario con la cassa integrazione, tagli dei tempi di lavoro quando sei in linea di montaggio. E ci dice che per produrre auto in Italia bisogna tagliare i costi. Ma l'unico taglio di cui Stellantis ha bisogno è quello degli stipendi di Tavares, della proprietà e degli azionisti. E quelle risorse debbono essere investite in ricerca, sviluppo, produzione, salute e sicurezza nelle fabbriche”.
È ora di tirare le somme: “Siamo al fallimento della strategia di Stellantis , considerato che anche le agenzie di rating la ritengono meno affidabili. Quest'anno, nonostante i 950 milioni di investimenti pubblici nei bonus, rischiamo di andare sotto le 300 mila vetture prodotte, malgrado sconti e bonus c'è un calo del 20% delle vendite. Dobbiamo chiederci: noi le auto le sappiamo produrre, ma l'amministratore delegato le sa vendere?”.
Negli Stati Uniti la Casa Bianca ha scritto una lettera a Stellantis per sollecitare il rispetto delle promesse fatte. “In Italia, da Palazzo Chigi solo silenzio”, ha proseguito: “Il ministro Urso ha appena detto di aver ascoltato questa piazza e che ci convocherà. Noi siamo per il rispetto istituzionale, quando le istituzioni chiamano noi ci siamo sempre. Ma questa piazza dice una cosa precisa: vogliamo andare a Palazzo Chigi per negoziare con l'amministratore delegato Tavares, vogliamo contrattare la transizione e non essere ostaggi dei veti incrociati tra azienda e governo. È ora che a Palazzo Chigi si negozi per la rigenerazione del lavoro e la transizione tecnologica ed ecologica. Ma la prima cosa da fare è fermare la chiusura e le delocalizzazioni delle aziende italiane”.
La Fiom Cgil chiede al governo l'apertura di una trattativa vera. Ma lo chiede anche a Bruxelles: “Dobbiamo impegnarci per ottenere un fondo straordinario per la ripresa dell'iniziativa in ricerca e sviluppo e per le missioni produttive in tutti gli stabilimenti. Il punto non è che Stellantis ha spostato la sede in Olanda e quella legale in Inghilterra: il problema vero è che non abbiamo più l'autonomia di ricerca, sviluppo e produzione perfino sui marchi italiani”.
Michele De Palma ha così concluso: “Siamo noi che immaginiamo, progettiamo e produciamo le Fiat, le Alfa, le Maserati. È la nostra intelligenza a immaginare la mobilità del futuro, ed è la nostra manodopera a crearla. Non provate a dividerci tra gli stabilimenti, per lingua o per contratto. Noi oggi abbiamo scioperato per il lavoro , per l'ambiente, per la salute. Abbiamo scioperato per la nostra dignità e per il nostro futuro. È ora di riprenderci il potere, con la passione, con la forza e con il coraggio”
Due parole circa la manifestazione di ieri, visto che doveva rappresentare l'apice della narrazione "destra" sull'alluvione, racconto che voleva essere appunto suffragato dalla mobilitazione degli stessi alluvionati, addomesticata sulla medesima linea d'onda.
A quanto pare le attese sulla partecipazione (dalle mille alle duemila persone) sono state piuttosto deluse, accontentandosi di aggirarsi attorno ai 200 presenti, numeri che realtà come la nostra o quella del Comitato Borgo di Faenza riescono abitualmente a muovere da soli. Un flop che ovviamente ha tenuto alla larga "i pezzi grossi" dall'esporre il proprio cappello politico sull'evento deludente.
Non è comunque mancata la vistosa ed esibita presenza di diversi esponenti e candidati di Lega e Fardelli d'Italia, tra cui Pompignoli (l'articolo di Forlitoday è sostanzialmente una sua intervista).
Anche i contenuti, come avevamo previsto, si sono distinti soprattutto per un acceso anti-ambientalismo e un concentrarsi attorno alle responsabilità della Regione, evitando di menzionare concetti come quello di crisi climatica (spesso negato tout court) o di chiamare in causa governo e struttura commissariale.
Il condizionamento strumentale è stato evidente, e il fatto che non ci fossero bandiere di partito non significa assolutamente nulla (non è che il ladro indossi una maglietta con scritto "scippatore" prima di compiere il furto). C'è da capire come abbiano potuto sentirsi a proprio agio in questo clima, esponenti di comitati da sempre assillati dalla preoccupazione di essere strumentalizzati.
Il ricorso all'affluenza da altre parti d'Italia, attingendo dal cosiddetto movimento dei trattori, non ha certo aumentato la qualità dei contenuti e tantomeno i numeri dei partecipanti.
Molti comitati aderenti infine non sono riusciti a portare a Bologna più di due persone per comitato.
Tutto questo ci dice che la capacità di muovere alluvionati e cittadini da parte del VAD si è dimostrata piuttosto scarsa, così come il rilievo mediatico conseguente, limitato principalmente alla sola stampa locale, soprattutto quella web.
Tutto questo ci deve spronare e incoraggiare a costruire un nostro percorso di mobilitazione ampio e unitario, perché le possibilità di affermare una definizione corretta della questione Alluvione, così come di ogni suo portato, ci sono tutte.
Al centro dell’agenda politica presentata dall’associazione c’è il contrasto alla crisi climatica: “Servono azioni rapide per la riduzione delle emissioni e per la protezione dagli eventi meteorologici estremi”
Nei 13 punti proposti da Legambiente trovano spazio la revisione della legge urbanistica per ridurre realmente il consumo di suolo, la riscrittura del Piano Regionale dei Trasporti e il rilancio di obiettivi ambiziosi in materia di economia circolare
Legambiente: “Dall’Emilia-Romagna parta una risposta ambiziosa ai tentativi evidenti del governo nazionale di rallentare la transizione ecologica, con il rischio evidente di lasciare a Cina, USA e Germania il mercato internazionale delle tecnologie pulite”
Oggi a Bologna Davide Ferraresi e Francesco Occhipinti, rispettivamente presidente e direttore di Legambiente Emilia-Romagna, hanno presentato le proposte per l’agenda politica della prossima legislatura regionale, alla presenza del presidente nazionale dell’associazione Stefano Ciafani.
Il documento redatto dall’associazione ha come fulcro il contrasto alla crisi climatica, sia sotto il profilo della mitigazione, per ridurre le emissioni, sia rispetto agli interventi per l’adattamento al nuovo clima. Quest’ultimo aspetto si lega inevitabilmente con quanto accaduto tragicamente negli ultimi due anni nel territorio romagnolo.
Gli eventi estremi che si sono succeduti a partire dal maggio 2023 hanno messo in luce l’urgenza di agire rapidamente per progettare e realizzare interventi di messa in sicurezza che non solo consentano le emergenze più immediate, ma che guardino oltre e puntino alla gestione di scenari in linea con quanto si aspetta la ricerca scientifica in materia di cambiamento climatico. La messa in sicurezza del territorio, secondo Legambiente deve includere una nuova modalità di gestione dei fiumi e delle aree per la laminazione e il deflusso delle acque in corrispondenza di eventi meteorologici estremi.
L’associazione evidenzia poi la necessità che l’Emilia-Romagna faccia la propria parte nel processo di decarbonizzazione, in linea con gli obiettivi più ambiziosi presentati dall’Unione Europea e dalla Regione stessa nell’ultima legislatura. Per raggiungerli, servono misure coerenti per favorire la diffusione degli impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili su tutto il territorio regionale, approvando ambiziose linee guida sulle aree idonee entro la fine dell’anno, coinvolgendo la popolazione e i portatori d’interesse per ridurre il più possibile gli impatti e garantire una condivisione dei benefici prodotti.
Il documento di Legambiente approfondisce anche gli altri temi al centro delle attività dell’associazione, a partire dal settore agrozootecnico, dove si auspica una riduzione dei quantitativi di acqua prelevati per le produzioni agricole e per l’allevamento degli animali, e una diminuzione della densità del numero di capi allevati per arrivare a un ridimensionamento degli allevamenti intensivi sul territorio regionale.
Altro tema cardine dell’attività dell’associazione in Emilia-Romagna è quello della pianificazione territoriale, degli insediamenti e delle infrastrutture. In questo contesto, Legambiente auspica la revisione della legge urbanistica regionale per eliminare le deroghe presenti e ridurre realmente il consumo di suolo. Sul versante dei trasporti, è necessario che il nuovo Piano Regionale che dovrà essere varato nella prossima legislatura segni un cambiamento reale nelle politiche della Regione: le grandi infrastrutture autostradali devono essere sostituite con progetti di rafforzamento ed estensione delle reti ferroviarie, per disincentivare l’utilizzo di mezzi privati e il trasporto merci su gomma.
Sarà fondamentale anche rendere più ambizioso il Piano Regionale dei Rifiuti, che nell’ultima legislatura ha sostanzialmente previsto un incremento della produzione di rifiuti sul territorio emiliano-romagnolo. Occorre rendere più ambiziosi gli obiettivi e verificare l’efficacia dei modelli del sistema di raccolta, per promuovere quelli più funzionali a ridurre la produzione dei rifiuti e a migliorare la qualità (non solo le quantità relative) della raccolta differenziata, realizzando l’impiantistica più innovativa a partire da quella finalizzata alla produzione di compost e biometano, al recupero delle materie prime critiche dai Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche e al riciclo dei prodotti assorbenti delle persone.
Legambiente ha formulato anche proposte per la tutela degli ecosistemi, a partire dall’ampliamento della superficie delle aree protette in linea con gli obiettivi della Strategia europea per la Biodiversità, che prevede il 30% di territorio e di mare protetto entro il 2030 per tutti gli Stati membri. Insieme a questo, l’associazione invita la Regione ad adottare strumenti per il riconoscimento dei servizi ecosistemici forniti dalle aree naturali, in modo da poter valutare in modo completo le conseguenze dei processi di trasformazione del territorio.
Per quanto riguarda il territorio costiero, serve anche in questo caso una maggiore protezione dell’ecosistema marino dalle attività umane e della linea di costa dai processi erosivi: in entrambi i casi, la risposta è lasciare maggiore spazio alla natura, riducendo la durata della pesca attraverso opportuni incentivi e rinaturalizzando nuove aree lungo la fascia costiera.
Ultimo punto promosso da Legambiente è il sostegno a tutte le forme democratiche e partecipative che consentono ai cittadini di rendersi protagonisti all’interno di percorsi consultivi e co-decisionali sul territorio dell’Emilia-Romagna.
È necessario che la Regione riconosca l’impegno di cittadini e organizzazioni che utilizzano gli strumenti di democrazia partecipativa per contribuire al progresso dell’Emilia-Romagna. Occorre poi un impegno di tutti gli attori politici per evitare la compressione degli spazi di democrazia e favorire invece la partecipazione pacifica e propositiva della cittadinanza.
“La prossima legislatura regionale sarà cruciale per il raggiungimento di tutti gli obiettivi in materia di sostenibilità fissati dall’Europa al 2030”, dichiara Davide Ferraresi, presidente di Legambiente Emilia-Romagna. “Dalla mitigazione del cambiamento climatico alla tutela della biodiversità, serve un cambio di passo sostanziale. Le risorse economiche della Regione, insieme a quelle dello Stato, dei Comuni e dei privati dovranno essere indirizzate esclusivamente su azioni migliorative in termini di impatto ambientale, eliminando previsioni e progetti in contrasto con gli obiettivi da raggiungere.”
“Chi governerà l'Emilia-Romagna dovrà darsi come priorità la mitigazione della crisi climatica e l'adattamento”, aggiunge Francesco Occhipinti, direttore di Legambiente Emilia-Romagna. “Oramai, almeno a noi ed al mondo scientifico, sono chiare quali sono le cause del cambiamento climatico. Gli investimenti nel fossile, l'inquinamento e la cementificazione sono le prime cause da affrontare ed eliminare. Non possiamo più permetterci, come accaduto anche dopo l'ultima alluvione di settembre, di parlare solo di risarcimenti e ricostruzione: bisogna assumere la consapevolezza che tutto non potrà continuare come prima. Dobbiamo uscire dalla logica dell'emergenza puntando su una corretta pianificazione e gestione ordinaria del territorio basandosi su evidenze scientifiche e non su presupposti ideologici.”
“Con le proposte che indirizziamo oggi ai candidati governatori in corsa per le prossime elezioni regionali” conclude Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente “vogliamo proporre uno scenario ambizioso per un’Emilia-Romagna che vuole perseguire convintamente gli obiettivi europei del Green Deal. A livello nazionale, alcuni discutibili provvedimenti del governo, come quelli che puntano sul gas e sul nucleare, e su opere pubbliche inutili come il Ponte sullo Stretto di Messina, e la narrazione fuorviante di Confindustria sul piano europeo per la decarbonizzazione, rischiano di rallentare la transizione ecologica. Questo sarebbe un delitto anche per il tessuto produttivo italiano, a partire da quello emiliano-romagnolo. Serve un protagonismo e un’ambizione delle Regioni nella lotta alla crisi climatica per arginare i tentativi nazionali di rallentamento della riconversione ecologica, che rischiano di minare la competitività del Paese, lasciando a Cina, USA e Germania il mercato internazionale delle tecnologie pulite”.
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