Viaggio a Roma La torsione autoritaria di cui sono propugnatori il presidente americano e il suo vice Vance è abbracciata da correnti di cattolicesimo postliberale americano
Donald Trump atteso a Roma, mentre per la prima volta Putin apre ad un negoziato diretto con «il regime di Kiev». Già il vicepresidente Vance, a cui sono affidate le provocatorie azioni di comunicazione, aveva portato la sfida nel cuore della Capitale; Giorgia Meloni lo ha accolto con grande favore. Convertitosi a 35 anni nel segno di un «Gesù maestoso» che non è il Gesù degli ultimi, Vance si era già scontrato con la dottrina del Papa in tema di umanitario e deportazioni.
Nelle sue ultime ore fra i fedeli Francesco non si risparmiava, con richiami di stretta rilevanza per l’agenda politica internazionale, condannando il disprezzo verso i migranti e ricordando che non c’è pace senza disarmo. Stemperando l’idea di uno scontro frontale fra Washington e Santa Sede, Francesco ha poi concesso a Vance un breve incontro fotografabile, omaggiandone i figli con due uova di cioccolato da supermercato.
Il problema è che la pace, più volte annunciata dai Maga come pratica da sbrigare in fretta, non è arrivata né Ucraina, né a Gaza, né in nessun altro scenario di guerra. Il giorno di venerdi Santo, il segretario di stato Usa Rubio aveva descritto la Casa bianca pronta a staccare la spina e abbandonare gli sforzi di mediazione. Incontrando a Parigi i leader europei, ed incassando l’accordo ucraino sulle famose terre rare, Rubio aveva ribadito che il presidente Trump è ancora – bontà sua – interessato alla pace, ma ha molte altre priorità, ed è dunque pronto a passare ad altre occupazioni.
Nelle sue ultime ore, Francesco ha ripetuto i suoi richiami di stretta rilevanza per l’agenda politica internazionale, ricordando che non c’è pace senza disarmo
Questa tattica che non può sorprendere. Per quanto gli Usa abbiano ripreso tutti i talking point della propaganda russa – inventandosi persino un «cessate il fuoco parziale» sulle sole infrastrutture energetiche – il tavolo delle trattative non si è avvicinato. Allo stesso tempo, come ha chiarito Zelensky, le forniture militari Usa sono ormai praticamente a zero. Se la linea difensiva ucraina regge, nonostante le difficoltà a mobilitare uomini, è perché gli ucraini hanno ancora dotazioni militari che consentono di arginare l’offensiva. Ma nelle ultime settimane e nelle ultime ore l’intensità della guerra non è diminuita. Il massacro di civili della domenica delle Palme, con i missili russi lanciati in double tap sui civili a Sumy, ci ricorda che Putin, grazie alla compiacenza di Washington, può alzare in ogni momento il prezzo del tavolo negoziale.
Il Cremlino, per parte sua, aspetta che la produzione militare ucraina e le forniture europee non saranno sufficienti a compensare il venir meno delle armi americane. Questione di settimane, qualche mese al massimo. Mosca ha dunque l’interesse a tenere la fase negoziale in stallo, mascherando risultati a dir poco elusivi con compiacenza di ritorno verso la Casa bianca, comunque in sintonia ideologica.
Il punto è che, centinaia di migliaia di morti dopo, Washington ha sposato la narrazione di Mosca, ma Mosca non ha rinunciato a nessuno degli obiettivi enunciati all’inizio dell’invasione. Non solo: Putin ci ha tenuto a ricordare che la guerra non potrà finire «finché non ne verranno risolte le cause profonde». Una formula che rimanda alle architetture di sicurezza europee, ancorate all’alleanza atlantica. Nulla può corrispondere meglio agli obiettivi perseguiti da Putin che un’America che si ritira da presidi che non ritiene più strategici (ad esempio l’Africa, secondo le indiscrezioni riportate dalla stampa americana), e di un’Europa che finisce priva di garanzie sul piano della deterrenza nucleare.
Detto più chiaramente, l’obiettivo strategico del Cremlino, in un ordine internazionale da riconfigurare sulla base di intesa ideologica, è negoziare l’Europa direttamente con Washington, con la voce degli europei all’angolo, priva di credibilità, e gli ucraini come residuo ormai invisibile. Trump è visto come null’altro che l’acceleratore di una dinamica di fondo già in atto: lo spostamento del baricentro degli interessi strategici americani verso la regione indo-pacifica (la Cina, ma non solo), con conseguente alleggerimento della propria presenza nel Mediterraneo e in Europa.
La redazione consiglia:
Quei cattolici che sfidano la furia di TrumpTrump e accoliti vedono la Nato, fondata sulla preservazione dello status quo geopolitico, come un sistema che abusa della fiducia americana. In questo quadro vanno letti gli attacchi di Vance ai valori della liberaldemocrazia europea, l’endorsement dato alle forze di estrema destra, e – più in profondità – l’appoggio ad operazioni di influenza a più lungo termine, incluse quelle che passano per le organizzazioni cattoliche più conservatrici. Le stesse impegnate, anche in vista del Conclave, a cancellare l’azione di Francesco, il papa che ha visto nella guerra in Ucraina, come in ogni guerra, una guerra civile. Che denunciato il terrorismo contro i palestinesi di Gaza. Che ha incontrato i signori della guerra nel Sud Sudan, gettandosi ai loro piedi perché fermassero i massacri.
L’Occidente che conoscevamo, qualunque cosa esso fosse, non esiste più davanti alla sfida del resto del mondo che cresce, e al tentativo di militarizzarne gli esiti. Gli stessi leader europei ce lo ricordano, quando disegnano un futuro di nazioni armate, guerre per l’egemonia e paci imperiali.
La torsione illiberale e autoritaria di cui è propugnatore Vance è predicata su una teologia della guerra che è abbracciata da correnti di cattolicesimo postliberale nordamericano, ben oltre i temi del tradizionalismo reazionario: un’umanità precipitata in una battaglia esistenziale, dove il popolo che crede in una «divinità maestosa» accetta la violenza come necessaria. L’Italia di Meloni sembra candidarsi a fungere da apriporta. La teologia della pace di Francesco ci lascia molto su cui riflettere.