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L’eredità del Pkk Sono trascorsi poco più di dieci anni dal 26 gennaio 2015 e dall’immensa bandiera curda, 75 metri di stoffa, appesa a sventolare sulla collina di Mistenur, alle porte di Kobane. […]

Il XII Congresso del Partito dei Lavoratori del Kurdistan Il XII Congresso del Partito dei Lavoratori del Kurdistan

Sono trascorsi poco più di dieci anni dal 26 gennaio 2015 e dall’immensa bandiera curda, 75 metri di stoffa, appesa a sventolare sulla collina di Mistenur, alle porte di Kobane. L’impressione era che a muoverla non fosse il vento, ma l’aria limpida della ritrovata libertà dopo mesi di occupazione islamista. Il Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan, era stato fondato parecchi decenni prima, nel 1978, ed è impossibile dire che quella fosse stata la sua prima conquista. Eppure, in qualche modo, quella bandiera sopra Kobane è il simbolo dei risultati raggiunti.

I risultati ottenuti da un movimento che in cinquant’anni di storia ha cambiato il volto del Medio Oriente e della questione curda: 75 metri di stoffa dicevano che da una lotta armata durissima, da una guerra civile che ha provocato 40mila morti, dal sacrificio di centinaia di migliaia di famiglie che hanno perso figlie e figli spariti tra le montagne per imbracciare un fucile, era nato un embrione di liberazione. Dal colonialismo ma anche dai suoi retaggi: la liberazione dall’idea dello stato nazione, dal nazionalismo monolitico, dai confini dentro cui chiudere un’identità unica, di per sé fittizia in una regione tanto ricca di popoli diversi. Il Pkk, che annuncia il suo scioglimento per la fine del proprio ruolo storico, lo fa lasciando dietro di sé una rivoluzione tuttora in corso, che è politica, geopolitica, anti-patriarcale e anti-gerarchica, sociale, filosofica. Servirà tempo per comprendere appieno cosa ha mosso il XII Congresso del Partito, quali le prese d’atto e quali le prospettive future.

Servirà tempo per capire se la scelta compiuta è stata quella giusta, lungimirante come i precedenti punti di svolta teorizzati dal fondatore-prigioniero Abdullah Ocalan e resi pratica da milioni di persone in Kurdistan, tra Turchia, Siria, Iraq e Iran.

Quello che oggi, tra le emozioni confuse che solo i momenti storici sanno provocare, si può dire quello che il Pkk ha ottenuto, anche e soprattutto scegliendo – negli anni Ottanta – la via della lotta armata.

Ha lanciato una rivoluzione sociale, il confederalismo democratico, tra i cui pilastri – accanto a liberazione delle donne, democrazia dal basso ed ecologismo – si impone l’idea dell’autodifesa popolare. È con la lotta armata che il Pkk e le organizzazioni sorte nel suo solco (le Ypg e le Ypj siriane, le Yjs e le Ybs ezide) hanno liberato milioni di persone dal giogo dello Stato islamico. Con le armi è avanzato villaggio per villaggio un nuovo paradigma, rivoluzionario, che ha trovato terreno fertile non solo tra le comunità curde ma tra quelle arabe, assire, ezide, circasse, turkmene, oltre confini settari vecchi di un secolo, avulsi dalla realtà millenaria della regione. È avanzata l’idea che le donne occupino lo stesso posto degli uomini, dentro le istituzioni, le cooperative, le comuni. È avanzata l’idea che si difendano da sé.

Allo stesso modo, in Turchia, il Pkk è stato l’anima di una trasformazione politica che ha permesso alle più recenti formazioni politiche di estrazione curda (l’Hdp prima, il Dem poi) di diventare non solo terzo partito in parlamento, ma di attirare intorno a sé una galassia di movimenti di sinistra, femministi, ecologisti, Lgbtqia+, socialisti, sindacali, capace di sopravvivere a una repressione di stato con ben pochi precedenti e alla detenzione (ormai decennale) dei suoi leader più iconici, Selahattin Demirtas e Figen Yüksekdag.

Dal Pkk è nato tantissimo. L’«ultimo» lascito è il messaggio che tiene insieme tutto il resto: in un mondo che corre verso un riarmo suicida, che impone la guerra come unica soluzione ai conflitti politici attraverso l’eliminazione dell’altro, che militarizza l’immaginario in nome di nuovi nazionalismi, il Pkk parla di pace e pratica il disarmo.