Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Referendum A rischio di una lettura consolatoria, dall’analisi dell’esito del referendum ci pare possano venire anche alcune indicazioni positive

Una possibilità per la sinistra da quei sì sul lavoro

 

A rischio di una lettura consolatoria, dall’analisi dell’esito del referendum ci pare possano venire anche alcune indicazioni positive. Intanto, al referendum ha partecipato poco meno della metà (30,6%) dei votanti alle ultime elezioni politiche (il 64%). Poco, molto?

Considerando che oramai un terzo circa dell’elettorato italiano è strutturalmente astensionista (e sulle ragioni di ciò si potrebbe a lungo discutere) i quasi 14 milioni di votanti sono una cifra cospicua, tanto più se si considera una variabile sempre più decisiva nel motivare o meno la partecipazione al voto: la percezione sull’incertezza della competizione. E, nel nostro caso, non ha pesato solo un’esplicita campagna di boicottaggio (che toglieva ogni pathos alla gara), ma uno scetticismo oramai diffuso sulla possibilità di raggiungere il quorum.

È bene chiarire: è un errore considerare i sì sui primi quattro referendum come voti per il futuro «campo largo»; e tuttavia, ha un senso l’operazione inversa, ossia valutare se e in che misura l’attuale base elettorale della sinistra abbia mostrato una capacità di tenuta, su un terreno – è bene ricordarlo – su cui la sinistra ha molto da farsi perdonare per le sue politiche del passato. Ha senso dunque confrontare i 12 milioni e 300 mila sì (per i quesiti sul lavoro) con gli 11 milioni e 675 raccolti da Pd, Avs e M5s alle politiche del 2O22, a cui si devono aggiungere anche i 400 mila voti di Unione popolare. Tra gli italiani all’estero, 800 mila sì, rispetto al circa mezzo milione di voti della sinistra nel 2022.

Più complessa appare l’analisi della percentuale di no sul quinto quesito; solo analisi più raffinate potranno dirci se esiste una correlazione significativa tra almeno tre variabili: una specifica dimensione sociale-territoriale, il tasso di partecipazione, il livello precedente del voto al M5s. Le ipotesi che si dovranno verificare sono essenzialmente tre: quanto pesa una quota di lettori di destra (che però, in tal caso, avrebbero votato sì negli altri referendum), oppure, in modo più rilevante, a nostro parere, una quota di elettori M5s (non credo che sia stato un caso che Conte abbia lasciato «libertà di voto»: evidentemente ha intuito questi umori), e soprattutto «normali» elettori di sinistra, che sui temi dell’immigrazione non sembrano in sintonia con la visione politica e culturale che su tale questione viene loro proposta dai partiti di riferimento. È certo un fenomeno preoccupante, che solleva molti problemi; ma non per questo se ne può dedurre che, avendo votato no questi elettori non possono essere considerati di sinistra, né togliere il fatto che essi stessi si percepiscano come tali e come tali si comportino su altri terreni.

In ogni caso, per la sinistra si può parlare di una buona prova di compattezza e mobilitazione, un segnale di ritrovata sintonia politica con il proprio elettorato di riferimento, e su un terreno dall’alto valore simbolico. E si conferma, altresì, come la destra non sia maggioranza nel paese.

Il referendum su questi temi ha cercato e forse, almeno in parte, riattivato una relazione positiva con il mondo del lavoro. Non sappiamo se fosse questo, all’inizio, l’obiettivo che ha spinto la Cgil a promuovere un’iniziativa così rischiosa come un referendum: ma si può dire che uno degli effetti sia stato proprio quello di aver lanciato un messaggio unificante ad un mondo del lavoro che vive in uno stato di frammentazione, isolamento, debolezza contrattuale.

I temi al centro del referendum (la precarietà, i diritti, la sicurezza) sono temi che hanno parlato trasversalmente a tanti segmenti sociali che sono e si percepiscono come ininfluenti, non tutelati né rappresentati, e che spesso non comunicano neanche tra di loro. E non è forse un caso se le città con la più alta partecipazione (a parte Bologna e Firenze) siano state Torino (41,4%) e Genova (40,4%). E che le regioni con la più alta crescita, rispetto alla base elettorale precedente, siano il Piemonte (+16%) e la Liguria (+9%).

Anticipo un’obiezione: non può essere un referendum a rimettere la questione del lavoro al centro dell’agenda politica. E non può essere nemmeno solo il sindacato a farsene carico. Ed è certo così. La parola spetta alla politica, naturalmente. Va dato pieno merito a Elly Schlein di essersi schierata con decisione a fianco della Cgil e i dati mostrano come in questo abbia colto profondamente idee e sentimenti dell’elettorato del partito.

Con il referendum, il Pd compie una tappa importante nel processo di ridefinizione del proprio profilo politico. Tanto più importante, questo passaggio, se si considera il consueto copione recitato dalla cosiddetta «minoranza riformista» (non tutta, ad onor del vero: Bonaccini ha detto cose ragionevoli). Una «minoranza rumorosa», che gode di una copertura mediatica compiacente e che ha tutta l’intenzione di condurre una guerriglia di logoramento, garantendosi una comoda rendita di posizione.

Francamente, detto da un semplice osservatore esterno, non se può più. Né Elly Schlein può proseguire con il suo atteggiamento serafico («non ti curar di loro, ma guarda e passa»): alla lunga, e in vista delle elezioni del 2027 ne va di mezzo la coerenza dell’immagine del partito e la credibilità dell’alternativa che si vuole costruire. Dall’interno della maggioranza del Pd si sono levate alcune voci che chiedono un congresso straordinario, tematico e programmatico: non è una cattiva idea, bisognerebbe lavorarci da subito.