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Referendum La sinistra deve attrezzarsi a un conflitto che potrebbe diventare molto duro, dove le regole del gioco non più come la garanzia della correttezza del confronto democratico, ma come la posta in gioco

Cittadini al voto per il referendum a Milano foto Claudio Furlan/LaPresse Cittadini al voto per il referendum a Milano – foto Claudio Furlan/LaPresse

Una sconfitta, perché di questo si tratta, può diventare un’opportunità per fare una riflessione che vada oltre le cause immediate della disfatta. Che non fosse facile raggiungere il quorum era chiaro a tutti, tanto che negli ultimi giorni qualcuno aveva già indicato una soglia intorno al trenta per cento dei votanti come obiettivo minimale per “salvare la faccia”.

In retrospettiva forse non proprio un’idea brillante per motivare gli indecisi. Un conto è andare votare se si pensa di poter dare un contributo alla vittoria, un altro è farlo per una sconfitta onorevole. Anche perché questa motivazione partigiana era meno efficace proprio per gli elettori di destra sensibili ai temi referendari che si voleva convincere facendo leva sugli interessi e non sull’appartenenza politica.

A essere colpito più duramente dal risultato del referendum è stato senza dubbio il Partito democratico. L’attuale segreteria ha scelto di impegnarsi in una battaglia che era stata voluta dal sindacato, e che avrebbe fatto emergere ancora una volta le profonde divisioni che ci sono all’interno del partito, e questo è certamente un dato di cui bisogna tener conto in vista del futuro. La segretaria ha deciso di non affrontare questa fronda interna direttamente quando andava fatto, in occasione di precedenti contestazioni della linea ufficiale del partito, e questo ha dato l’impressione di una leadership che non ha il pieno controllo della situazione. La pattuglia dei riformisti probabilmente non pesa molto sul piano dei consensi tra i militanti, ma può contare su un ampio sostegno da parte della stampa più sensibile agli interessi padronali.

Nelle ultime settimane prima del voto tutti i principali architetti delle politiche di precarizzazione del lavoro volute dal Pd nella sua stagione neoliberale sono stati molto attivi nel difendere le misure che il referendum puntava ad abolire. L’argomento era sempre lo stesso: presentare il Jobs Act come una misura progressiva, in linea con le scelte considerate ortodosse dalla dottrina economica. Questo era un tema su cui si poteva ingaggiare un confronto serrato, facendo leva sui lavori più recenti di economisti di sinistra che hanno messo in discussione quelle ricette.

Queste risorse, tuttavia, sono rimaste poco utilizzate nella campagna, lasciando ai riformisti l’ultima parola sul terreno del dibattito pubblico. Qualcuno sostiene che sia arrivato il momento di sciogliere il nodo, magari attraverso un congresso o una conferenza programmatica, ma una mossa del genere è resa più difficile all’indomani di una sconfitta che ha indebolito la segretaria e il suo gruppo dirigente. Più che di un congresso, ci sarebbe bisogno di un lavoro capillare da fare su due fronti: quello del partito, per aggiornarne la linea programmatica rendendola più solida e coerente con la linea della segreteria, e quello dell’opinione pubblica, dove il ruolo di tecnici e intellettuali in grado di comunicare in modo efficace le idee di una sinistra egualitaria e attenta alle aspirazioni dei più deboli dovrebbe essere valorizzato al massimo.

Quando è diventata segretaria del Pd, Elly Schlein ha scelto comprensibilmente di muoversi con prudenza. Ha lavorato sul rinnovamento del gruppo dirigente e dei quadri, sottraendosi al conflitto con chi, dall’interno e dall’esterno, la trattava quasi come l’occupante abusiva di un ruolo che per diritto spetterebbe ai riformisti. Negli ultimi due anni, tuttavia, il mondo è cambiato ulteriormente, in peggio dal punto di vista di chi condivide i valori della sinistra, e questa tattica di temporeggiamento comincia a mostrare i propri limiti. La destra è sempre più aggressiva, e si è saldata con i moderati nel perseguimento di un progetto che vede nella compressione dei diritti sociali e politici un requisito per un regime economico che tiene insieme alcuni aspetti del neoliberalismo con una visione autoritaria del ruolo del governo. La crisi di Gaza è stata un test, che ha mostrato fino a che punto è possibile spingersi nel reprimere il dissenso e avvilire la partecipazione democratica. Per fare fronte al futuro la sinistra deve attrezzarsi a un conflitto che potrebbe diventare molto duro, e che vedrà le regole del gioco non più come la garanzia della correttezza del confronto democratico, ma come la posta in gioco. La sconfitta al referendum è forse l’ultimo avvertimento. Bisogna prepararsi al peggio, oppure rassegnarsi a un inesorabile declino della sinistra democratica