Due anni dopo Le piazze piene sono la forma assunta da un movimento spontaneo, che non sappiamo se e quanto durerà. Di certo, però, da quella consapevolezza non si torna indietro
Sciopero generale e manifestazioni per Gaza, il 22 settembre, Roma – lapresse
Il 25 dicembre 2023, dal pulpito della Chiesa della Natività a Betlemme, il reverendo palestinese Munther Isaac tenne un’omelia per il mondo: «Noi palestinesi ci riprenderemo. Ci rialzeremo di nuovo dalla distruzione come abbiamo sempre fatto come palestinesi. Ma coloro che sono complici, mi dispiace per voi. Vi riprenderete mai da tutto questo?».
Di fronte aveva un presepe avvolto tra le macerie simbolo dell’annichilimento di Gaza. Erano trascorsi pochi mesi dall’attacco di Hamas, dai 1.200 israeliani uccisi e gli oltre 250 rapiti e dall’inizio di un’offensiva feroce contro la Striscia che si è fatta genocidio.
Sono trascorsi 732 giorni e l’abisso non è mai sembrato tanto profondo, capace di inghiottire vite umane, comunità, sogni, ma anche gli strumenti condivisi del diritto internazionale e un bagaglio di valori dato per scontato.
Il secondo anniversario del 7 ottobre cade, però, in un contesto molto diverso dal primo, in un turbinio che è doppio: il negoziato egiziano e la mobilitazione globale. Due piani paralleli: da una parte l’idea della pace come mera assenza di conflitto che non prevede eguaglianza né liberazione; dall’altra una richiesta potente di giustizia per le vittime e i sopravvissuti, per una storia che non si limita a questi 732 giorni ma che attraversa intere generazioni di oppressi.
A Sharm el-Sheikh si discute una «pace» che pace non è, perché il suo sguardo di lungo periodo si fonda sull’assunto che i palestinesi devono accontentarsi di restare vivi. Cessa il fuoco, non l’occupazione.
La redazione consiglia:
Al via i negoziati sulla StrisciaDue anni di genocidio in diretta hanno però prodotto anche altro, accanto allo svelamento dello storico obiettivo della pulizia etnica della Palestina. Hanno prodotto una consapevolezza nuova, che ha impiegato tempo ed energie per radicarsi, tanto tempo, probabilmente troppo per chi è prigioniero a Gaza, ma che ha stravolto le coordinate politiche occidentali. Moltitudini in ogni angolo del pianeta stanno facendo confluire le proprie rivendicazioni, apparentemente particolari, dentro un paradigma globale e che ha trovato una sua bandiera.
La Palestina è divenuta il simbolo di dinamiche internazionali, dello spossessamento, della disumanizzazione, dell’oltraggiosa idea che esistano vite che valgono più di altre, delle forme più palesi o più sottili del colonialismo contemporaneo. Le piazze piene sono la forma assunta da un movimento spontaneo, che non sappiamo se e quanto durerà. Di certo, però, da quella consapevolezza non si torna indietro. Può servire a salvare anche noi.
