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Con l’addio di Renzi al partito democratico alcune cose si chiariscono (spero) per tutti.  Le foto con Marchionne (pace all’anima sua) e la contestuale ripulsa per il dialogo con i sindacati; il jobs act (con annessa la fraudolenta estensione ai licenziamenti collettivi) e, sempre a livello simbolico, l’insofferenza per l’intonazione di Bandiera rossa al festival dell’Unità.  Badate bene si trattava non di rialzare e sventolare bandiere; che cosa volete mai che possano sventolare i pallidi ed estenuati epigoni di Zingaretti e della sinistra (mi metto fra questi)?. Si trattava soltanto di riconoscere una delle origini del PD, una delle matrici di quel progetto, così come gli ex comunisti rendono omaggio all’intelligenza politica di Moro o, perfino, al profilo da statista di DeGasperi.
Ma Renzi no, come alcuni altri che ne condividono le origini e la formazione culturale, di quella tradizione e di quelle origini, volevano soltanto rapinarne i voti, diciamo pure sedurre gli elettori con la (mancata) promessa della vittoria sempre anelata e mai conquistata.

Ora diventa tutto chiaro: avevano ragione quelli che nell’OPA di Renzi hanno visto soltanto il tentativo di distruggere la sinistra in Italia, lo dimostra in modo lampante il fatto che il partito che Renzi aveva in testa ed ha cercato di costruire era un partito “non contendibile”. Prima ha fatto terra bruciata, soprattutto attraverso il dileggio e l’insulto quotidiano, dei vari Bersani Speranza Cuperlo ecc., poi attraverso l’uso estremo di uno statuto che affidava il potere nel partito ad una platea indistinta di esterni al partito stesso (le primarie nelle quali, a livello locale, votavano regolarmente tutti gli elettori delle varie formazioni di centro destra e anche di Forza Italia) e attraverso una torsione autoritaria delle cariche che gli ha consentito (pretesa davvero al limite del credibile) di mantenerne il controllo anche dopo la catastrofica sconfitta, anche personale, nel referendum costituzionale del 2016. Il disegno di Renzi, o forse sarebbe meglio dire l’impulso irrefrenabile di Renzi, consiste probabilmente nella mitizzazione del potere personale, e temo che alla fine questa sia la lettura da dare anche a quel progetto di riforma costituzionale, miserabile nei contenuti, rischiosissimo per le istituzioni in un periodo di destra populista ed estremista trionfante, che qualche costituzionalista “di servizio” ebbe il coraggio di appoggiare ma mai nessuno di condividere fino in fondo mettendoci la firma. Come ricordate “il merito” fu attribuito alla Boschi, che una laurea ce l’ha ma un curriculum da costituzionalista proprio no. La versione sinistra dei saggi di Lorenzago, per quelli che hanno un po’ di memoria.

L’ossessione del potere personale, come strumento duttile e potente per affrontare un periodo estremamente difficile per la democrazia è ben comprensibile e infatti attraversa molti paesi (gli USA in testa), ma ha fra gli alti prezzi da pagare quello della distruzione dei partiti, trasformati in partiti personali che con il loro capo salgono in vetta e precipitano nella polvere!

Oggi promuove una scissione da un partito sofferente, col rischio di provocarne la morte, allo scopo di mantenere un potere personale, sia pure ridotto, quasi solo di ricatto, ma se sarà bravo anche di proposta, nonostante la sua stessa iniziativa ponga in crisi il governo ed i suoi sostenitori. Un governo tuttavia che è l’unica ancora di salvezza per la sua Italia Viva che nasce assai gracile.

A parte Maria Elena Boschi e Teresa Bellanova, non seguono, apparentemente, Matteo Renzi nella nuova avventura tutti i maggiori esponenti della sua corrente o gruppo di fedeli: non lo segue Luca Lotti e neppure Lorenzo Guerini, mancano all’appello tutti i sindaci a lui legati a doppio filo, da quello di Firenze, Nardella, a quello di Bergamo, Gori, a Matteo Ricci (Pesaro) già responsabile Enti locali del Pd renziano, a quello di Bari il potente Decaro, neppure la presidente dell’Abruzzo Di Pasquale, non lo seguono nemmeno “i toscani” Simona Bonafè, eurodeputata, Marcucci, capogruppo Pd al Senato, e nemmeno il sen. Parrini, fino a far sorgere in numerosi commentatori l’indicibile sospetto che si tratti di scelte strumentali tese a ricattare il segretario PD Zingaretti dall’interno. A me appare un’ipotesi davvero incredibile, ma la dice lunga sul tipo di considerazione e fama che riscuote Renzi all’interno della stampa, compresi i giornalisti a lui più vicini. Ogni “machiavellismo” sembra credibile se si tratta di Matteo Renzi!
Ma forse bisognerebbe notare, e la grande stampa non lo fa, come la scissione di un leader che non riesce portarsi dietro nemmeno i fedelissimi (che al capo devono proprio tutto, spesso ben oltre i loro meriti) è una scissione fallita!

Basta guardare a livello locale: né il sen. Collina, né la consigliera regionale Rontini, pur in dichiarati strettissimi rapporti con Renzi fin dalle sue origini, lo seguiranno in questa avventura. Anche per loro si tratta di una scelta “tattica”? E’ difficile crederlo, anche perché è assai dubbio quale potrà essere la loro futura carriera in un Pd senza Renzi. Chi si fiderà di loro fin dalle prossime scadenze elettorali?

Dunque una scissione formalmente fallita; i parlamentari renziani erano stimati

a quasi i 2/3, e seguono Renzi meno del 30% dei deputati e senatori; eppure … Eppure Renzi la considera utile o necessaria, perché conta sulla rinnovata visibilità e sul potere di ricatto sul Governo. Un governo che non può far cadere pena il suicidio, ma insieme alla distruzione anche del Pd e dei 5stelle.

Ecco perché la sua attuale posizione mi ricorda quella di Mastella ai tempi dell’Ulivo, che poteva far cadere il governo, come puntualmente accadde, ma al prezzo anche dell’autodistruzione. Se ricordate bene, infatti, lo fece solo quando le inchieste giudiziarie misero a rischio la sua sopravvivenza politica.  Altri lo hanno voluto paragonare al Ghino di Tacco che Craxi interpretò ai tempi del Caf; ma sbagliano, perché Craxi in ogni istante sapeva di avere una carta di riserva: l’alleanza a sinistra.

Renzi non ha alleanze alternative da praticare, perché la destra è oramai egemonizzata dall’estremismo populista della Lega; ne è così consapevole che la prima sfida mediatica che ha lanciato è proprio quella del confronto-scontro televisivo con Salvini. Dunque in realtà la sua sfida è a Zingaretti (altro che ai 5stelle!) e proprio al Pd. il suo progetto è quello di apparire l’unico leader “moderno” in grado di sfidare e vincere la novità del populismo della destra. Battere un populismo di destra con un altro populismo, diciamo di centro, se non si trattasse di un’assurdità.

E’ una sfida che porterà a contraddizioni senza fine, perché la sopravvivenza del governo è condizione anche per la sua sopravvivenza, ma il successo dell’alleanza Pd-5Stelle seppellirebbe le sue ambizioni. Pertanto il governo deve vivere ma il merito deve essere di Renzi. Tutto ciò comporta conseguenze anche positive: sarà stimolato ad avere un ruolo fortemente propositivo ed innovativo, a fare proposte che i suoi partner “non possono rifiutare”. Ma poi cercherà costantemente di boicottare le iniziative altrui e svolgere il ruolo del “terzo incomodo”.
Le cose, ahimè, stanno così, e nel suo gioco non si intravede una prospettiva positiva. D’altra parte, il politico Renzi è fatto così: molta tattica e niente strategia!

Il compito di avere un respiro strategico spetta dunque ad altri, ai suoi competitori/alleati, al Pd, alla sinistra e, se credete ai miracoli, al Movimento 5 Stelle.

Alessandro Messina

25 settembre 2019