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(da Ravenna in Comune)
Come anticipato pubblichiamo la seconda parte dello scritto di Roberto Riverso per Questione Giustizia (trimestrale promosso da Magistratura Democratica) in occasione della festa del 1° maggio. Ci è parso importante dare rilievo a questo contributo alla riflessione post Covid-19. 
Nella foto: l’intervento del Giudice Roberto Riverso al convegno “Dignità e legalità del lavoro” organizzato da Ravenna in Comune nel marzo 2016.
 
8. L’esigenza delle ripartenza non può portare ad alcuna sottovalutazione. Il legislatore deve necessariamente prevedere che le attività economiche possano sì riprendere e proseguire, ma solo se, quando ed in quanto saranno garantite le misure di tutela per la salute. E soltanto sotto stretto monitoraggio e controllo al fine di assicurare il rispetto di tutti i limiti e le prescrizioni necessari per l’immunizzazione (distanze, mascherine, occhiali, tute, calzari, guanti, screening, sanificazione degli ambienti, informazioni precise, tempi di vestizione adeguati) e contenute nelle disposizioni riferibili alla prevenzione del rischio da coronavirus; e senza che venga ostacolata l’attività ispettiva e di indagine atte a garantire nei fatti l’efficacia di quelle prescrizioni.
Salute (art. 32 Cost.) e lavoro (art. 4 Cost.) vanno perciò tutelati insieme anche nel mondo nuovo che si profila. L’integrazione reciproca e la tutela sistemica che a tutti i diritti dovrà essere assicurata non potrà comportare alcun conflitto dichiarato ed alcuna compressione rispetto al diritto alla salute; neppure oggi, e tanto meno oggi.
9. Il “non può svolgersi” dell’art. 41 Cost. vuol dire ancora, semplicemente, che esiste un divieto di esercitare un’attività economica che offenda la sicurezza e la dignità dei lavoratori. E significa perciò che la vera tutela della salute è quella primaria. Ossia quella che evita il rischio e che può comportare anche, in caso di incompatibilità, un obbligo di astensione. La vera sicurezza sul lavoro e la vera tutela della salute dei cittadini e dei lavoratori vanno perciò improntate in termini di prevenzione ex ante e non ex post. La chiave di tutto è la tutela effettiva del bene salute: evitare il rischio, eliminarlo alla fonte; integrare la prevenzione nella concezione stessa della società, del lavoro e dei luoghi di lavoro. Non ci possiamo accontentare di trasferire i rischi dall’ambiente, dai luoghi e dai mezzi di lavoro, ritenuti immodificabili, alle persone dei lavoratori. Neppure oggi, e tanto meno oggi.
10. Per fare vera prevenzione sul lavoro occorrono quindi molte condizioni: normative, organizzative ed istituzionali, con una organizzazione eminentemente pubblicistica. Ed i relativi precetti non si realizzano mai da soli perché sono giusti e buoni. Occorrono azioni positive, battaglie politiche, lotte sociali per realizzarli. Perché, il datore di lavoro – debitore della sicurezza – diceva un grande penalista come Federico Stella, è come la capra a cui venga affidato il compito di fare il giardiniere. Sicché non ci si può rassegnare all’ideologia dell’impresa come luogo dell’interesse generale interpretato naturaliter dalla proprietà.
11. Non è un caso se una concezione della salute così impegnativa e pregnante, come quella prima richiamata, risulti affermata in un testo che ha riguardo alla sicurezza dei lavoratori. Questo accade perché la salute dei lavoratori è sempre a rischio di essere violata, essendo parte dell’oggetto di un contratto che coinvolge la persona stessa e da cui non può essere separata. Che sia così lo dice l’amara realtà dello stato della salute sul lavoro nel nostro paese e le diverse migliaia di morti all’anno (se ai mille morti circa per infortuni si aggiungono quelli per malattia professionale). Ma anche l’epidemia Covid-19 si è assunta il compito di darcene conferma: non sono forse alcune categorie di lavoratori (medici, infermieri, operatori sanitari) ad essere state colpite con le più alte percentuali di contagio per rischio contratto nei luoghi di lavoro? E non sono queste morti a suscitare più impressione nella opinione pubblica generale? E se tutto questo è accaduto non è forse perché le misure adottate e disponibili non sono state adeguate rispetto al rischio?
12. È tutta da scrivere, evidentemente, la storia delle responsabilità (politiche anzitutto, ma anche scientifiche e giudiziarie) – per le conseguenze prodotte nel nostro Paese, ma anche in Europa e nel mondo, dalla pandemia da Covid-19 in termini di perdita di vite umane e di costi economici e sociali.
Una pandemia alla quale, questo si può già dire, almeno in via di prima approssimazione, quasi tutti i Paesi sono arrivati impreparati facendosi cogliere di sorpresa; chi più chi meno. Sotto il profilo dell’apprestamento di mezzi di protezione adeguati, delle informazioni rese a cittadini e lavoratori, dei test da approntare, dei piani pandemici sanitari e delle strutture ospedaliere utilizzate. Evidentemente le carenze erano strutturali e di lungo corso; e non potevano essere sanate con semplici provvedimenti normativi. Che pure sono stati molteplici essendosi susseguiti a raffica almeno nel nostro Paese. La strategia è stata così sperimentata sul campo, giorno dopo giorno; a partire dall’Italia. Da Codogno al lockdown totale che ha confinato in casa circa 60 milioni di italiani.
Occorrerà perciò sottoporre ad esame una per una queste norme e queste misure. Soprattutto sotto il profilo della loro tempestività. Perché la strategia principale rispetto alla pandemia, questo lo abbiamo capito tutti, sta nella scelta dei tempi, e nella velocità della risposta. Non solo se e come, ma soprattutto quando si interviene: nell’individuazione dei casi positivi, dei focolai, per contenerli e impedire la diffusione del contagio e l’impatto sul sistema sanitario nazionale, il terminale contro cui va a cozzare ogni epidemia, rischiando di determinarne il collasso. Sarà necessaria una complessa indagine di ricostruzione storica e normativa; attraverso un metodo rigorosamente diacronico e senza il cd. senno di poi. Per capire in primo luogo come e perché quello che si riteneva da più parti un contagio locale, confinato in Cina a Wuhan, sia potuto divenire un contagio globale che ha riguardato buona parte della popolazione mondiale.
13.– Andrà perciò analizzata con precisione la lunga, e talvolta contraddittoria, sequela di atti, circolari, decreti legge, Dpcm. Andranno esaminati i provvedimenti che a livello nazionale, regionale, locale, ma anche a livello di unità sanitaria e di dipartimenti ospedalieri sono stati messi in campo. Andrà poi ricostruita la mappa dei comportamenti aziendali; anche per le imprese ammesse alla continuazione dell’attività aziendale per decreto occorrerà verificare il livello delle protezioni apprestate. Solo così si potrà giudicare su ciascun comportamento anche a livello individuale e sui singoli casi. Uno per uno. Ed è questa un’opera necessaria, che andrà effettuata in sede processuale dalla magistratura; non potendo esserci altra istituzione in grado di accertare le eventuali responsabilità penali, civili, contabili. In relazione a ciascun fatto, che non è mai uguale rispetto agli altri fatti.
14. In questa fase peraltro è assolutamente necessario garantire condizioni di serenità e continuità nell’esercizio della propria attività a chi si trova esposto in prima linea come gli esercenti la professione sanitaria (medici, farmacisti, infermieri); i quali hanno pagato un tributo di vittime elevatissimo (forse il più elevato tra le categorie dei lavoratori). Sicchè sono pure da stigmatizzare quei professionisti legali che in piena pandemia si sono spinti a pubblicizzare azioni di carattere risarcitorio e penale nei confronti degli operatori sanitari. Tuttavia verrà il momento della verifica, in cui la questione dell’eventuale accertamento di responsabilità non potrà essere elusa. A nessun livello. Data la vastità dei numeri è possibile che, in alcuni casi, si interverrà con appositi fondi; sul genere di quelli che operano per le vittime del dovere o anche per i danni da HIV, trasfusioni, vaccinazioni, ecc.; fondi che erogano una riparazione monetaria che prescinde dall’accertamento di responsabilità civili o penali. Ed è pure possibile che, come già emerso da alcune proposte legislative, si cercherà di operare una delimitazione dei casi di responsabilità all’ipotesi di colpa grave. Ma è difficile pensare che si possa procedere con scudi, lodi ed immunità generalizzate. Anche perché se si pensa di rendere in tal modo un buon servizio a medici ed operatori sanitari occorrerà interrogarsi seriamente non solo sulla conformità dello strumento allo scopo, ma anche sui possibili equivoci che misure del genere potranno ingenerare, anche sotto il profilo del principio di eguaglianza. Una eventuale immunità potrebbe colpire per primi proprio i lavoratori che si intenderebbe proteggere. Salvo che si pensi l’impensabile, ovvero di concepire regole che selezionino la responsabilità in modo da garantire una tutela risarcitoria piena o addirittura agevolata quando l’operatore sanitario figuri come vittima ed invece un’immunità per le ipotesi in cui possa essere sindacato l’esercizio della sua attività.
15. La situazione descritta ci conferma comunque, ancora una volta, che i diritti del lavoro, per quanto basilari e previsti nei principi fondamentali della Carta, siano ancora oggi i più deboli tra i diritti sociali; deboli nel rapporto ed oramai anche fuori dal rapporto: nella società e nella politica che la rappresenta. Questa tragica realtà impone perciò, perennemente, di agire per ridurre lo scarto enorme tra regole (di cui abbondiamo) e loro applicazione (in cui invece scarseggiamo). E questo scarto si può ridurre solo in due modi: restituendo dignità al lavoro da una parte e garantendo l’applicazione delle regole dall’altra.
Restituire dignità al lavoro significa anzitutto restituire dignità a chi lo rende, riconoscere che il lavoro è inseparabile dalla persona che lo presta e dal carico dei diritti che essa inevitabilmente pretende e si porta con sé.
Per rendere effettive le tutele proclamate sulla carta occorre invece agire in tante direzioni, sul piano normativo certamente, ma anche nei servizi, negli ospedali, nelle scuole, nelle università, e non da ultimo nelle aule di giustizia.
Serve infatti una giustizia più attenta alle ragioni dei deboli e che intervenga non solo dinanzi alle stragi che fanno notizia, ma soprattutto in via preventiva: sulle modalità del lavoro, sulle catene illecite di appalti, per le condizioni di igiene sul lavoro, per gli orari di lavoro non rispettati che creano rischi. Dare risorse ed efficienza alla Giustizia, come sempre si reclama, è necessario ma da solo non basta se manca poi la necessaria sensibilità e professionalità, purtroppo carenti da sempre ma indispensabili per porre un argine diffuso e adeguato alla gravità del problema. Sulla tutela della salute e sulla sicurezza sul lavoro la magistratura è chiamata a dover fare sempre di più. Anche e soprattutto ora.
1 maggio 2020