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Alcuni operatori hanno comprato a prezzi bloccati e rivendono a più del doppio. Perché non conviene estrarre altro gas in Italia

 Il persistere dell’enorme incremento dei costi di generazione dell'energia sta avendo conseguenze economiche molto preoccupanti, sia lato inflazione sia per il pericolo di un rallentamento (se non addirittura interruzione) della ripresa, e ha di fatto messo in crisi il sistema produttivo italiano. Le cause intrinseche di questo aumento derivano dalla struttura del sistema energetico europeo e dalla sua dipendenza dal gas.

L’Unione europea, pur disponendo di un sistema di infrastrutture di importazione diversificato, non ha potuto sottrarsi alle dinamiche globali, non dominabili, degli aumenti di prezzo. Questo per una serie di motivi: gli approvvigionamenti si concentrano per oltre il 50% su un solo fornitore extra UE; manca una regolamentazione comune e applicata in tutti gli Stati membri sulla sicurezza, con particolare riferimento alla gestione degli stoccaggi e al relativo uso delle riserve; le barriere tariffarie determinate dalla regolamentazione degli scambi cross border (tariffe infrastrutture gas) hanno penalizzato l’Italia; i prezzi della CO2 sono aumentati, e su tutto ciò vi è una sensibile presenza di posizioni finanziarie speculative che peggiorano la situazione.

Palese, dunque, l'incremento dei costi di generazione dell'energia, ma altrettanto palesi gli extra profitti degli operatori, che non aiutano a calmierare tali costi. Circa i due terzi di combustibile che importiamo dalla Russia, infatti, vengono acquistati a valori quasi dimezzati rispetto alle attuali quotazioni, grazie a contratti a lungo termine siglati anni fa, a prezzi fissi tarati sui valori di allora. È lo stesso presidente russo, Vladimir Putin, ad affermare che le compagnie energetiche italiane stanno facendo affari d'oro con il gas russo, rivendendolo a quasi il doppio del prezzo che stanno pagando. Si parla di extra profitti che ammontano ad almeno 4 miliardi di euro: per fare due conti, un metro cubo viene pagato circa 30 centesimi e rivenduto a 50, con un profitto di 20 centesimi, che basta moltiplicare per 20 miliardi di metri cubi (fonte: dichiarazioni presidente Nomisma).

Però, a causa della riservatezza dei dati e di strategie di acquisto differenti da soggetto a soggetto, è estremamente difficile individuare chi realmente abbia subito l’aumento del costo energetico. Gli acquisti effettuati con contratti di lungo termine avrebbero dovuto azzerare, o quanto meno calmierare, l’incremento di prezzo rispetto a chi ha operato in mercati spot. Il consumatore legato a contratti di lungo periodo, cioè, non avrebbe dovuto subire incrementi di costo della componente energia, quando sembra stia accadendo il contrario, dato che il prezzo di questi contratti si sta agganciando al prezzo del mercato spot.

Le infrastrutture nazionali (i cui costi devono in parte ancora essere ammortizzati) garantiscono un approvvigionamento di provenienza diversificata che, secondo i dati sul bilancio del gas naturale forniti dal MiTE, non è sfruttato al massimo della sua capacità. Gli scenari futuri di riduzione dei consumi nazionali prevedono, infatti, un aumento della capacità dei punti di ingresso che saranno impiegati per il gas di transito, così come sta avvenendo in questo momento.

Attualmente le forniture per l’importazione in Europa sono state garantite e secondo alcuni analisti non c'è motivo di ritenere che la Russia non intenda rifornire più l'Europa, d’altronde ci guadagna. È da notare come il gas russo, nonostante le garanzie di Putin a Draghi sul mantenere stabili le forniture nei confronti dell’Italia, stia cedendo il passo a forniture di Gnl fortemente sostenute dalla diplomazia europea, disponibile ad aprire relazioni con Stati arabi, come il Qatar, e gli USA. Solo da pochi giorni, inoltre, è ripreso l'approvvigionamento anche dalla Libia.

Pensare di riprendere una produzione nazionale di gas non fa che consolidare la dipendenza del nostro sistema energetico a una fonte dalla quale dovremmo a mano a mano affrancarci, e non è un’operazione conveniente per più ordini di motivi.

Nell’ambito del mercato del gas, le regole europee di formazione dei prezzi non permettono di ricavare vantaggi diretti dall'aumento della produzione nazionale di gas naturale. Dovrebbe essere messo in piedi un complesso normativo “di emergenza”, temporaneo, che deroghi alle attuali regole di mercato, e questo non sarebbe né semplice né veloce. Nel frattempo non avremmo una riduzione dei costi energetici rispetto a quelli di mercato. Ed in ogni caso anche aumentare la produzione interna non è una faccenda veloce, ci vorrebbe almeno un anno.

Poi c’è il rispetto degli obiettivi climatici, che impongono una notevole decrescita dei consumi finali da fonti fossili e da gas naturale. Un ribasso previsto anche nel PNIEC, i cui obiettivi devono essere ancora adeguati all'European Green Deal, per arrivare a un'Europa climaticamente neutra entro il 2050. Eventuali incrementi di produzione nazionale di gas naturale potrebbero comportare anche una revisione dell’appena pubblicato Piano per la Transizione Energetica Sostenibile delle Aree Idonee (PiTESAI), che dovrà valorizzare la sostenibilità ambientale e socio-economica delle diverse aree, ridurre gli impatti complessivi derivanti dalle attività upstream e accompagnare il processo di decarbonizzazione (il Piano suggerisce di valutare una dismissione anticipata di alcune concessioni di idrocarburi considerate scarsamente produttive).

Ma ammettiamo che si voglia aumentare la produzione nazionale di gas naturale. Attualmente è di circa 3,3 miliardi di metri cubi. Senza ulteriori investimenti e sfruttando le attività esistenti, si arriverebbe a un incremento di soli 0,7 miliardi di metri cubi all'anno. Stando alle dichiarazioni del ministro Cingolani, si potrebbe invece arrivare a circa 8 miliardi di metri cubi. Più che raddoppiare la produzione attuale significherebbe aggiungere pozzi nei giacimenti già in produzione (infilling), procedere a un'attività di manutenzione straordinaria dei pozzi esistenti (workover), oppure sviluppare nuove concessioni (in Adriatico, e non solo, operazione quest’ultima altamente sconsigliata per gli impatti ambientali e sociali che comporta). Si tratta di manovre che, a essere ottimisti, richiederebbero almeno un paio di anni e che avrebbero anche un costo molto alto.

Affinché il progetto prospettato dal MiTE possa prendere corpo, lo Stato dovrà poi trovare un accordo coi produttori su come recuperare gli investimenti necessari e gli effetti delle annunciate cessioni a prezzo calmierato all'industria (non è chiaro se con prolungamenti/ampliamenti degli attuali ambiti di attività o altre forme di contropartita) e si dovrà sobbarcare ulteriori oneri, ai quali vanno aggiunti anche quelli derivanti dai maggiori impatti sanitari e ambientali sui territori e sulle economie locali interessate.

L’operazione inoltre non ha nessuna certezza di mercato. I costi del gas naturale prodotto in territorio Italiano sono superiori rispetto a quelli del gas importato. Oggi abbiamo diversificato la capacità di approvvigionamento di gas naturale, attraverso investimenti sulle infrastrutture, le quali hanno costi socializzati che, a prescindere dal loro utilizzo o meno, sono comunque scaricati in bolletta. Si tratta di costi che, auspicabilmente, in un periodo minore rispetto a quello necessario per incrementare la produzione nazionale (almeno 2 anni), potrebbero essere ammortizzati meglio.

Nella valutazione complessiva è importante tener presente che nel territorio nazionale non abbiamo riserve certe di gas naturale. Secondo i dati forniti dal MITE, esse ammonterebbero a 45,7 miliardi di metri cubi standard (Sm3) (attualmente ne estraiamo circa 3,3 miliardi di Sm3, che si vorrebbero portare a 8; in tal caso bruceremmo riserve strategiche che potrebbero esserci utili in casi di necessità e urgenza, ipotesi al momento lontane secondo i criteri di valutazione del MiTE).

Tutto questo per dire che, proprio perché stiamo pagando carissimo le scelte sbagliate degli anni passati che ci hanno legato alle fossili, al petrolio e al gas, è arrivato il momento di liberarci da questo cappio al collo e puntare alla transizione energetica come a una grande opportunità. Va riformato e completato il mercato energetico, ancora strutturato per il vecchio modello fossile, e ripensata la fiscalità, per ridistribuire equamente i sacrifici e i vantaggi. Vanno liberati da una serie di ostacoli irragionevoli le rinnovabili e gli interventi di risparmio energetico, che rimangono la migliore soluzione. Dobbiamo accelerare su autoproduzione, autoconsumo ed efficientamento energetico e rafforzare le comunità energetiche, sia nel settore privato che in quello pubblico, sfruttando i tanti fondi a disposizione. Dobbiamo sostenere le aziende che hanno subito fortemente l’aumento dei costi e supportarle verso l’innovazione tecnologica e la conversione ecologica dei processi produttivi, oltre che pensare a nuove filiere produttive.

Sono tutti interventi ampiamente descritti nella mozione appena presentata e sottoscritta da tutto il Gruppo M5S Senato, di cui sono il primo firmatario. Nei 27 impegni che chiediamo al Governo nel testo della mozione è racchiusa una cassetta degli attrezzi con la quale costruire un nuovo modello energetico efficiente, sicuro e democratico, attraverso interventi concreti con effetti immediati nel breve e lungo periodo; sono tutti strumenti di cui ci auguriamo il Governo faccia tesoro, anche nella messa a punto del nuovo decreto contro il caro bollette. E se al momento la priorità è trovare risorse per calmierare i prezzi delle bollette per cittadini e imprese, sarebbe il caso di andarle a recuperare da chi in questa emergenza sta godendo di extra profitti, anche nel settore delle fossili.

Perseverare con l’attuale modello energetico sarà un diabolico bagno di sangue, non il contrario. Gli strumenti a disposizione ci sono. Utilizzarli significa non solo ridurre i costi delle bollette, ma anche aumentare l’autonomia energetica di famiglie e imprese, affrancarci concretamente dalle fossili, rispettare in pieno gli obiettivi climatici, combattere la povertà energetica e alimentare un circolo virtuoso di lavoro sostenibile che rilancia il comparto produttivo e protegge l’ambiente, noi stessi e le future generazioni.

* Presidente Commissione Industria del Senato e coordinatore del Comitato Transizione ecologica del M5S