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Le connessioni tra guerra in Ucraina e crisi energetica e le politiche necessarie per affrontarla, analizzate dal direttore esecutivo di Greenpeace Italia, Giuseppe Onufrio.

 

Esiste un legame stretto tra la guerra in Ucraina e la questione energetica. L’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) in un recente commento ha ricordato che l’aumento dei prezzi del gas, già iniziato nell’autunno del 2021, era legato alla riduzione dei flussi dalla Russia come la stessa IEA aveva denunciato a settembre.

L’allarme sulla strategia russa di creare una scarsità nel mercato e, dunque, un aumento artificiale dei prezzi era stato poi rilanciato dal direttore IEA Faith Birol lo scorso gennaio, senza un apparente reazione dei Paesi europei.

Dunque, oltre ad aver creato artificialmente una difficile situazione per i Paesi consumatori in Europa – utilizzando, va ricordato, un meccanismo di mercato europeo assai discutibile – la Russia ha iniziato a incassare flussi di denaro importanti per finanziare l’imminente invasione dell’Ucraina, iniziato a mettere in difficoltà l’economia europea e, inoltre, importanti aziende russe hanno svolto azioni di lobby per far includere gas e nucleare nella Tassonomia verde europea.

Le azioni lobbistiche russe e non solo

Questa azione di lobby da parte delle aziende di stato russe è stata documentata da un rapporto di Greenpeace Francia, che ha evidenziato le azioni di lobby ad alto livello di aziende come Gazprom, Rosatom e Rosfnet.

Una azione di lobby, peraltro, congiunta a quella francese sul nucleare (esistono legami di collaborazione ufficiali tra industria nucleare francese e russa) e, con ogni probabilità, un’azione concomitante sul gas a quella di Paesi come l’Italia (che chiedeva mano più larga sui criteri per il gas). Così la decisione di includere gas e nucleare in tassonomia dello scorso febbraio fu salutata dal Ministro russo dell’energia Nikolai Shulginov come un’opportunità per vendere più gas, combustibile nucleare e reattori (vedi report “How russian companies lobbied for the Ue taxonomy to include fossil fuel and nuclear energy” – pdf)

Una novità assoluta di questi mesi è l’utilizzo sia delle centrali nucleari che della zona contaminata di Cernobyl come obiettivi militari. C’è allarme per la “situazione fuori controllo” della centrale di Zaporizhzhia, la più grande in Europa, sotto il controllo dei militari russi (e dei tecnici della Rosatom).

Oligopolio fossile russo vs transizione energetica

Ma, oltre all’utilizzo dell’energia come arma geopolitica, c’è anche un elemento di fondo che collega la guerra in Ucraina anche con la transizione verso le rinnovabili per combattere la crisi climatica.

La Russia fa parte a pieno titolo dell’oligopolio globale del settore petrolifero e del gas, pochi grandi attori statali e privati, settori che una seria politica climatica dovrebbe abbandonare progressivamente.

Dunque, un aspetto del conflitto innescato da Putin – potremmo dire una “ragione sottostante” – riguarda la natura della forza economica della Russia e cioè il suo essere parte integrante e rilevante di un oligopolio mondiale del petrolio e del gas, ruolo di fatto messo in discussione dalla prospettiva della transizione energetica che, pur con una ambizione non adeguata alla sfida climatica, l’Unione Europea, principale cliente della Russia, ha avviato.

Un rapporto di pochi anni fa dell’agenzia internazionale sulle fonti rinnovabili Irena analizzava come cambierà la geopolitica dell’energia dopo la transizione energetica e, tra i Paesi in maggiori difficoltà, si identificava proprio la Russia e a ben vedere.

Oltre a petrolio e gas, la Russia è esportatrice anche di carbone – la fonte in assoluto più sporca – e controlla anche oltre un terzo del mercato globale del combustibile nucleare. Una transizione verso le fonti rinnovabili, globalmente guidata dalla Cina con Europa e Usa a seguire, spiazzerebbe la posizione economica della Russia, il cui bilancio dello Stato è fortemente dipendente dalle esportazioni delle fonti fossili.

Eolico e rinnovabili sul territorio russo?

Se il primo impianto eolico a capacità industriale in Russia è stato impiantato solo l’anno scorso dall’italiana Enel, la piccola Danimarca, che oggi produce con l’eolico più di quanto consuma, aveva iniziato nel 1987 seguita nel 1991 dalla Germania.

Il potenziale eolico della Russia è gigantesco e, quindi, non ci sarebbe nessun problema se quel Paese iniziasse a investire anche in questa fonte. E, proprio a inizio 2022, la Germania aveva aperto un “ufficio idrogeno” anche a Mosca, proprio nell’intento di iniziare una possibile collaborazione anche con la Russia oltre che col Medio Oriente.

In sostanza, se oggi la Germania è il primo importatore di gas russo in Europa, seguita dall’Italia, domani potrebbe importare idrogeno verde che potrebbe essere prodotto proprio a partire dall’eolico.

Ma c’è una sostanziale differenza tra un assetto dominato dall’industria fossile e quello dominato dall’industria rinnovabile.

Nel primo si tratta di controllare fisicamente pochi siti di produzione in cui con “buchi e tubi” estrarre le risorse fossili per venderle. L’oligarchia di Mosca è “petrolchimica” (e nucleare) e cioè legata alla gestione e al controllo dei flussi energetici fossili e di combustibile e tecnologie nucleari.

Invece, uno scenario dove a comandare sono le rinnovabili è completamente diverso. Si tratta di dover investire in moltissimi impianti, creare una classe di imprenditori e tecnici specializzati, e condividere con le autorità locali anche i benefici degli investimenti.

In sostanza, uno sviluppo di questo genere è scarsamente compatibile con la persistenza di un’oligarchia petrolifera basata sul controllo territoriale dei giacimenti come quella attuale.

Rinnovabili, come progetto di pace

Il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres ha dichiarato di recente che “se agiamo insieme la transizione verso le rinnovabili è il progetto di pace per il 21mo secolo”.

Passare dal secolo del petrolio a secolo del solare, semplificando, è un cambio d’epoca che stiamo vivendo. Questi cambi d’epoca sono spesso stati accompagnati e risolti con le guerre.

Da questo punto di vista, l’accordo di Parigi non è solo un accordo sul clima globale ma è anche un accordo di pace, perché crea un quadro istituzionale globale per gestire in modo negoziato questo cambio d’epoca. Non va dimenticato infatti, che l’Accordo di Parigi nel 2015 fu preceduto da un accordo di cooperazione tecnologica tra Usa e Cina promosso dalla Presidenza Obama.

I rischi di guerra di queste settimane, legati anche alla geopolitica delle risorse energetiche, vanno in senso opposto. E la possibilità di una “guerra fredda” estesa, che coinvolga anche la Cina, è un rischio anche per la lotta alla crisi climatica che, invece, richiederebbe un quadro di collaborazione. Nonostante le pericolose frizioni su Taiwan, il tema della crisi climatica è stato citato nei colloqui tra il Presidente Biden e il Presidente Xi Jin Ping, c’è dunque un tenue segnale di speranza che il dialogo continui.

Le politiche pro-gas dell’Italia

Il conflitto tra fossili e rinnovabili l’abbiamo vissuto anche in Italia. E lo vediamo tuttora: una parte dell’industria – quella elettrica – è disponibile a investire, ma è stata frenata in vari modi.

La reazione alla crisi del gas innescata dal conflitto in Ucraina è stata gestita col tentativo di trovare altre fonti di approvvigionamento in Paesi politicamente instabili, alcune delle quali (gas liquefatto), richiederanno comunque tecnicamente alcuni anni.

Mentre la proposta di accelerare sulle rinnovabili – e avviare espandere investimenti in risparmio ed efficienza – è stata pressoché snobbata. Una risposta che sembra voler garantire il mercato del gas invece di accelerare su tecnologie che possano ridurne la dimensione. Una politica volta a preservare il mercato dell’Eni – che importa il gas russo – più che gli interessi del Paese e del clima. Questo perché Eni ha un piano industriale totalmente inadeguato ad affrontare la crisi climatica e investe solo marginalmente in rinnovabili. Dunque, una accelerazione sulle rinnovabili e sull’efficienza toglierebbe mercato all’azienda.

Un sistema basato sulle rinnovabili è possibile. Ma è necessario accelerare: non è vero quello che dice il ministro Cingolani che bisognerebbe rallentare per non perdere posti di lavoro e accelerare per salvare il clima. Al contrario, bisogna accelerare anche per non perdere posti di lavoro nei nuovi settori, che verranno occupati da altri Paesi e che, invece se creati da noi possono consentire una transizione più giusta per riconvertire i lavoratori dei settori fossili.