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Siamo al punto di non ritorno Valdimir Putin al Cremlino - Ap

Putin alla fine ha rotto gli indugi, ha parlato alla Russia chiedendo sostegno per la «storica difesa della madrepatria» minacciata dall’Occidente «che ha superato ogni limite» nel sostegno militare a Kiev, giustificando come «inevitabile» l’operazione speciale con cui ha invaso l’Ucraina; i territori ucraini che vanno al referendum dal 23 al 26 settembre «hanno il sostegno di Mosca»; e ha chiamato alla mobilitazione parziale 300 mila veterani, escludendo i soldati di leva.

Concludendo con echi da “Grande Russia”: «È nostra tradizione storica e destino del nostro popolo fermare coloro che cercano il dominio mondiale, che minacciano di smembrare e rendere schiava la madrepatria», «che difenderemo con ogni mezzo» perché, in riferimento alle parole di Biden di due giorni fa, anche la Russia «dispone di vari mezzi di distruzione». Il ministro della difesa Shoigu ha aggiunto: «Combattiamo non solo con l’Ucraina ma con tutto l’Occidente» e ora l’obiettivo è «contrastare le armi fornite all’Ucraina dai Paesi occidentali».

Siamo all’escalation annunciata della guerra. Al punto di non ritorno. Del resto le dichiarazioni erano già nel precipizio da due giorni. «Non usare l’arma nucleare» ammoniva Biden a Putin per aggiungere «sarebbe consequenziale», vale a dire: lo facciamo pure noi. Altrettanto esplicita ma ancora criptica appariva la risposta dell’ineffabile Peskov, portavoce del neo-zar.

«Guardate la nostra dottrina, le useremo solo se sarà messa in pericolo la sicurezza del suolo russo». Una dottrina che ora Putin sembra voler forzare. Le armi atomiche tra un intercalare e l’altro, sembrano una sfida verbale ma alludono stavolta ad una minaccia concreta. Inoltre solo due giorni fa la Casa bianca aveva detto no alla ripetuta richiesta di Zelensky di missili a lungo raggio, non più di difesa, che possono colpire il territorio russo, mentre dallo stato maggiore Usa trapelava la notizia inversa dell’invio invece di carri armati di nuova generazione dalla lunga portata.

Un botta e risposta tragico, nella disattenzione della «nostra» politica immersa in una campagna elettorale che ha cancellato la guerra, nonostante sia stata tra i motivi decisivi della crisi del governo Draghi. E nell’irresponsabilità dei governi occidentali che hanno delegato l’interpretazione del leader russo al Sultano Erdogan, che solo ieri ripeteva: «Putin vuole finire la guerra al più presto». No, non sembra proprio la fine della guerra al più presto.

Con l’annuncio della data dei referendum da domani, dal 23 al 26 settembre – è settembre il più crudele dei mesi a quanto pare – per l’annessione alla Russia delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk – a cui si aggiungono Kherson e la provincia «atomica» di Zaporizhzhia a dir poco contesa – decisa da un Putin in difficoltà sul fronte militare e pronto a prendersi subito quel che ha conquistato e che non può perdere, si rendono evidenti interrogativi e certezze gravi quanto ineludibili.

Che quello dei referendum sta per diventare per Putin territorio della «madrepatria»; che un cessate il fuoco è ormai lontano anni luce, nonostante che dall’Onu Guterres ricordi i positivi accordi sul grano e alcuni commentatori americani indichino in questo «riposizionamento»» un disperato finale di partita che chiama ad una ridefinizione della crisi – lontana anni luce dagli accordi di Minsk (l’autonomia del Donbass dentro l’Ucraina) a dire il vero seppelliti dai governi di Kiev negli 8 anni precedenti di «guerra che non c’era»; e che anche la risposta finora utilizzata dell’invio di armi a Kiev si trova di fronte ad un impasse drammatico, se è vera com’è vera la denuncia – in in queste ore pesa doppio -, di Amnesty International: che la grande quantità di armi, l’hub più grande del mondo, arrivate in Ucraina che li disloca in combattimento, in basi e siti in «centri abitati, anche in scuole e ospedali» mette in pericolo la popolazione civile».

I governi europei, Washington e la Nato fanno capire subito che non riconosceranno i risultati dei referendum di Lugansk e Donetsk, di Kherson e Zaporizhzhia. Ma che accadrà nei rapporti internazionali se altri Paesi come la Cina- pure cauta e recalcitrante – non condanneranno? Inoltre, quanto alla «normalità» dei referendum, come dimenticare che molte di quelle aree erano a maggioranza filorusse e che invece la guerra di Putin ha sconvolto la sua credibilità, al punto che non è e non sarà come la scelta popolare nella Crimea del 2014; soprattutto in quelle zone si combatte ferocemente e l’esercito ucraino galvanizzato dall’ultima avanzata non si fermerà.

Saranno referendum sotto le cannonate, e comunque una violazione del diritto internazionale, una usurpazione di un Paese sovrano e «fratello», e già scende in piazza in Russia la protesta contro la mobilitazione e la fuga spontanea di chi non vuole farsi arruolare.

Sulla violazione del diritto internazionale che rilancia l’Onu, qui almeno gli storici potranno riconoscere il comportamento speculare, da fotocopia e vendicativo, di Putin rispetto a quello dell’Occidente e della Nato nell’ex Jugoslavia: il riconoscimento di indipendenze fondate su base etnica, la guerra «umanitaria» contro Belgrado stavolta «speciale» nel disprezzo dell’Onu, l’avvio del referendum per l’indipendenza unilaterale del Kosovo nel 2008 con tanto di riconoscimento Usa e di gran parte dell’Europa come Stato in violazione di accordi di pace che sancivano il contrario. Noi non abbiamo dubbi, Putin con le sue stragi di civili è un criminale di guerra, ma che ad accusarlo siano altrettanti criminali di guerra che hanno disseminato il mondo di stragi di civili è davvero una farsa.

La pace rischia di restare in queste ore di «mostruosità», dice papa Francesco, parola velleitaria, per qualcuno chiacchiera morale «francescana». Non è, forse, inutile però che il tema della guerra, il suo sistema di distruzione dell’umanità e delle risorse con il suo permanente e «necessario» riarmo, torni in queste ore, almeno sul baratro di un conflitto atomico o nano-atomico che sia, ad essere pensata e rifiutata subito in questa campagna elettorale che azzera i contenuti. Il peggio è già arrivato e non è solo quello del dopo 25 settembre.