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POLITICA ECONOMICA. Il consenso a Meloni inizia prima del governo Draghi e la sua opposizione non si è mai spinta fino a rompere, sul piano macroeconomico, il perimetro draghiano

La transizione soft tra Draghi e la Melonomics Foto di Johannes Eisele

Se da noi la vittoria elettorale di Giorgia Meloni è stata giustamente considerata un terremoto politico di portata storica, non uguale agitazione si è determinata a nei mercati finanziari internazionali. Almeno per ora.

In effetti lo spread in questo inizio di settimana è salito di poco. Ieri ha oscillato attorno ai 250 punti base, un livello tale da richiamare l’attenzione della Bce, ma non certo per predisporre l’avvio dello scudo di nuovo conio, il Tpi. Eppure autorevoli analisti internazionali, quali

quelli di Oxford Economics, ma non solo, avevano previsto che il programma della destra – “se attuato in pieno” – potrebbe spingere il deficit al di sopra del 6% per i prossimi 5 anni, così da provocare una pesante reazione dei mercati sui rendimenti delle obbligazioni italiane.

Il punto sta in quel “se”, ovvero nel fatto che, dice Goldman Sachs “solo una piccola selezione delle proposte avanzate durante la campagna elettorale ha una effettiva possibilità di attuazione”. Se poi quella “piccola selezione” dovesse travolgere il reddito di cittadinanza, poco importa agli investitori. Anzi. Non si tratta quindi di un’improvvisa luna di miele, né di una distrazione dei mercati. I quali al contrario sono molto attenti a quanto accade in Europa.

Vale l’esempio della Gran Bretagna, anche se non è più nella Ue. L’annuncio della nuova premier Liz Truss di ridurre di 45 miliardi di sterline le tasse soprattutto ai ricchi (che pure è un antico mantra neoliberista) ha provocato l’immediato crollo della sterlina, mentre lo spread fra i corrispondenti titoli inglesi e quelli tedeschi ha toccato livelli che non si vedevano da venti anni, per la paura di un brusco innalzamento del debito pubblico, proprio mentre la Bank of England sta preparando la vendita sul mercato di quantitativi considerevoli di titoli di Stato comprati negli anni passati.

Nel caso italiano i mercati puntano più che su una transizione morbida, su una continuità di fondo tra la Melonomics e le scelte di Draghi. Il partito di FdI si è sicuramente avvantaggiato della collocazione all’opposizione del governo Draghi, ma bisognerebbe tenere presente che la crescita dei consensi alla sua leader è cominciata ben prima del varo del governo uscente e che quella opposizione non si è mai realmente spinta fino alla rottura del perimetro draghiano, solo apparentemente virtuale, ma quanto mai reale se visto alla luce della macroeconomia.

Il Documento programmatico di Bilancio (Dpb) in teoria dovrebbe giungere a Bruxelles entro il 15 ottobre. Il che non accadrà visto che le Camere sono convocate per il 13 e un nuovo governo non può nascere in poche ore, data anche la delicatezza politica della sua composizione. Ma il ritardo non provocherà drammi. Né Draghi ha manifestato l’intenzione di assumersene la responsabilità, come invece fece la Merkel lo scorso anno, inviando un documento scritto dal suo governo uscente, dopo le elezioni che ne decretarono l’uscita di scena.

D’altro canto il Dpb non può essere scritto a “quattro mani” – come nella gaffe di Guido Crosetto – cioè da due governi, soprattutto quando uno non c’è ancora. Ma la fila di esperti economici della destra in visita al ministro dell’economia Franco si allunga sempre di più in queste giornate. Nel mentre Draghi non fa che rassicurare sia oltreoceano sia le principali capitali europee, non solo della fede atlantista e filo Nato di Meloni, ma anche della sua non intenzione di ricorrere a nuovi scostamenti di bilancio.

Alain Minc, il politologo vicino a Macron, si spinge più in là, assicurando che Meloni non è Le Pen e che vi può essere una base di intesa fra lei e Macron attorno alla riforma del Patto di stabilità europeo, dal momento che Francia e Italia sono paesi pesantemente indebitati. In altre parole, anche se può sembrare un paradosso, i meccanismi europei possono funzionare come un vincolo esterno inaggirabile anche quando se ne propone la revisione.

Un’ulteriore mortificazione della attuale politica. Si potrebbe dire dal basso, con l’astensionismo elettorale più elevato di sempre tutt’altro che immotivato, e dall’alto nel senso che gli organismi sovranazionali e gli agenti economici stabiliscono i paletti del suo campo d’azione.

Questo quadro è tutt’altro che consolatorio né può edulcorare il passaggio di consegne nel nostro paese. Anzi renderà ancora più crudele il comportamento e l’agire del governo di destra nei confronti dei diritti e delle condizioni concrete di vita delle persone, con l’intento di ridisegnare la struttura istituzionale della Repubblica a partire dal presidenzialismo e dalla secessione dei ricchi, altrimenti chiamata autonomia differenziata, cercando anche il coinvolgimento e l’aiuto dei vari Calenda e forse non solo.
Che l’opposizione a questi disegni debba essere dura non c’è dubbio. Che la si possa fare solo in Parlamento non è credibile. E’ il caso che una sinistra sociale, pur ancora in assenza di una necessaria sinistra politica, se ne faccia pienamente carico