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COMMENTI. Si sono fatti passi indietro rispetto allo Statuto che, nella prima fase, prevede il dibattito su documenti politici e programmatici poi posti al voto in alternativa tra loro

 

Nonostante i fieri propositi (“le idee prima dei nomi”), il congresso del Pd, oggi riunito in assemblea, sembra avviato sui binari consueti: lo dicono le modalità della fase di apertura all’esterno. Del resto, se la fase di apertura all’esterno viene concepita come una sorta di mega-consultazione per dare indicazioni al comitato dei saggi che dovrebbe riscrivere il Manifesto dei valori, allora si finisce per dare ragione a coloro che spingono per “fare presto”: si vada ai gazebo, piantiamola con le chiacchiere filosofiche e torniamo subito nei bar….

Il gruppo dirigente del Pd dovrebbe spiegare perché si è scelta questa via, e non invece quella del tutto plausibile che partiva dalla stesura di un testo, preparato da una commissione nominata dal segretario o dalla Direzione, aperto e emendabile, su cui sollecitare un dibattito, fuori e dentro il partito. Si sono fatti passi indietro rispetto allo stesso testo vigente dello Statuto che, nella prima fase del percorso congressuale, prevederebbe la discussione di “documenti politici” e “contributi programmatici” poi “posti al voto in alternativa tra loro”.

Certo, nell’attuale versione dello Statuto, sarebbero stati solo gli iscritti a votare i documenti, mentre poi piombano sulla scena i candidati e tutto finisce nei gazebo, dove naturalmente va a votare chi nulla sa di quanto discusso e approvato in precedenza. Ma volendo fare un “congresso aperto”, nulla impediva di aprire anche agli aderenti esterni il voto sui documenti della prima fase. Non lo si è voluto fare, per una precisa ragione: c’era il rischio di non poter controllare gli esiti di questo confronto.

E così si affida ad un consesso di sapienti (espressione, vien detto, di diversi “mondi sociali”: ma anche di diverse culture politiche? Chi lo sa…) il compito di distillare gli orientamenti che emergono dalla discussione. E’ evidente che non può certo partire in questo modo una vera ricerca di una nuova possibile identità del Pd. Ma, in ogni caso, staremo a vedere se, in corso d’opera, qualcuno prova a rompere un cammino che sembra già segnato.

Le cosiddette primarie si confermano ancora una volta come una iattura. Perché mai il Pd è così inchiodato su questa concezione delle primarie? Perché non si è mai riusciti a ridiscuterne? Perché, se ogni tanto qualcuno solleva anche solo una timida riserva, le “primarie aperte” (che sono pur sempre solo un metodo per eleggere il segretario) divengono addirittura un “tratto identitario” del Pd?
Credo che, oramai, a distanza di anni, si sia compreso come questo attaccamento patologico ad un modello che nel tempo si è rivelato fallimentare, nasca dal fatto che oramai questo modo di selezionare i gruppi dirigenti è profondamente connaturato alle dinamiche del potere interno: semplicemente, è in questo modo che si controlla il partito.

I candidati-segretario contrattano il sostegno con i capo-corrente, questi attivano le loro filiere e, infine, i referenti locali lavorano per mobilitare la gente che va a votare ai gazebo. Da un parte si discetta sui “valori” e sui “nodi”, dall’altra poi il partito viene affidato a chi è maggiormente in grado di attivare le proprie reti di relazione. Il trionfo dell’ipocrisia: ed è una mistificazione bella e buona presentare queste primarie come l’apoteosi del cittadino-elettore.

D’altra parte, tutto lascia presagire come si sia giunti oramai ad un punto di non ritorno: tutta la querelle sulle possibili alleanze alle regionali nasce fondamentalmente dall’indeterminatezza dell’esserci del Pd (potremmo dire, civettando con il lessico filosofico), dall’assenza di un’identità condivisa e riconoscibile.

C’è un noto modo di dire, «dimmi con chi vai, e ti dirò chi sei», usato in genere quando si vuol mettere in guardia dalle cattive compagnie. In politica, vale l’inverso: «dimmi chi sei, e ti dirò con chi puoi andare». Chi scrive viene da una scuola politica per cui non è per nulla motivo di scandalo, di per sé, il fatto che una forza di sinistra possa fare alleanze elettorali e anche compromessi programmatici con forze centriste o moderate. Ma solo se sai chi sei, puoi reggere alleanze con il diverso da te. Se non sai chi sei, sono le alleanze che definiscono la tua identità. Solo quando le culture politiche erano forti e ben identificabili, si potevano concepire grandi compromessi (storici e costituzionali).

Perché il sostegno a Letizia Moratti in Lombardia (prima della candidatura ufficiale di Pierfrancesco Majorino) si rivelava una scelta suicida, nonostante le insistenze di tanti, da ultimo l’ingegner De Benedetti? Perché l’incerta identità del Pd in questo momento comporta che ogni alleanza – anche solo tattica, elettorale, limitata, ecc. – diventa l’unica occasione per definire un’identità: ma in modo subalterno. E non verrebbe accettata dall’elettorato, privo di un metro di giudizio se non le alleanze elettorali.

“E’ lo sfarinamento delle culture politiche che porta a far precipitare” tutto sulla questione delle alleanze: quante volte, anche durante la recente campagna elettorale abbiamo sentito risuonare la frase: “vai con quelli? E allora non ti voto!”. L’incertezza sul tuo essere porta alla paura della contaminazione.

La questione vale per il Pd ma vale anche per altri, in particolare il Movimento Cinque Stelle: è comprensibile che, in questa fase, punti a consolidare la sua autonomia, ma non può essere un gioco a tempo indeterminato. Il M5S deve considerare che, tra i motivi della credibilità acquisita e premiata dagli elettori, c’è stata anche la rivendicazione dei risultati (pur parziali) dell’azione di governo, proprio grazie ai compromessi con altre forze. Una qualsiasi idea di autosufficienza, per il M5S, così come per il Pd la velleità e la nostalgia di pensarsi ancora in nome della “vocazione maggioritaria”, sarebbe esiziale, per tutti. Speriamo che lo si comprenda.