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SILICON MONEY. Oggi Trump è tornato su Twitter, per gentile concessione di un altro narcisista patologico qual è Elon Musk, ma non è detto che Twitter fra un mese, o un anno, esista ancora

 

Molti anni fa il grande economista Samir Amin scrisse un agile libretto intitolato L’empire du chaos, l’impero del caos. La sua tesi era che gli Stati uniti dominavano il mondo non attraverso un ordine internazionale ben organizzato, con istituzioni multilaterali funzionanti, trattati rispettati e una pace rotta soltanto da brevi conflitti locali: al contrario, Washington manteneva e rafforzava il suo dominio precisamente con l’uso di invasioni o almeno bombardamenti di paesi vicini e lontani (dal Vietnam all’Iraq, dall’isola di Grenada all’Afghanistan). Questo si accompagnava a un’intensa attività di sovversione di governi regolarmente eletti come quello di Salvador Allende (Cile, 1973) e decine di altri. Samir Amin era stato buon profeta: nell’ultimo mezzo secolo presidenti democratici e repubblicani hanno bombardato il Sudan, la Serbia, la Libia, Panama e molti altri paesi.

Uno dei problemi del caos è che, per

definizione, non è controllabile e il pensare di poterlo manovrare a proprio piacimento è un imperdonabile peccato di superbia (gli dei greci punivano severamente la hybris dei mortali). Gli Stati uniti, grazie alla loro superiorità militare ed economica credevano (e credono) di sfuggire a questa legge ferrea ma poi sono arrivati l’11 settembre 2001 e Donald Trump, che hanno dimostrato il contrario.

Trump, per esempio, è stato ed è la dimostrazione che il capitalismo disorganizzato disorganizza anche i sistemi politici, oltre che i suoi avversari. Benché il processo di decadimento delle istituzioni americane abbia origini lontane nel tempo, dal 2015 in poi la disfunzionalità è apparsa evidente anche ai più disattenti: nulla viene deciso dal Congresso senza incontrare prima una guerriglia giudiziaria e poi un rapido rovesciamento da parte dell’amministrazione successiva, se i rapporti di forza lo consentono. Come ciliegina sulla torta aggiungiamo il fatto che prima di Natale Trump sarà probabilmente rinviato a giudizio in tre distinti processi che si svolgeranno all’ombra della campagna elettorale 2024, in cui l’ex presidente è già sceso in campo.

Ieri Trump è tornato su Twitter, per gentile concessione di un altro narcisista patologico qual è Elon Musk, ma non è detto che Twitter fra un mese, o un anno, esista ancora. Facebook, decisivo nella vittoria rubata dello stesso Trump nel 2016, ha appena licenziato 11.000 dipendenti e soprattutto sta gettando buona parte dei miliardi che aveva guadagnato negli ultimi 15 anni nell’avventura di un “metaverso” di cui non importa nulla a nessuno. Le azioni di Zoom, che nell’ottobre 2020 valevano più di 559 dollari l’una, ieri ne valevano 77, con tendenza a ulteriori ribassi perché gli esperti prevedono che l’attività online diminuirà di circa l’8% nel corso dell’anno prossimo. Amazon, che pure fa viaggiare cose e non solo immagini sugli schermi, ha perso il 45% del suo valore dal 1 gennaio ad oggi, sta licenziando 10.000 persone (invece di assumerne per le vendite natalizie) e prevede di effettuare altri tagli nel 2023. I giornali già da qualche giorno scrivono che la «bolla digitale» è scoppiata.

Le cose sono un po’ più complesse di così ma riassumiamole con il titolo di un libro di David Sax uscito in questi giorni: The Future is Analog, il futuro è analogico, diciamo meglio: materiale. Possiamo sfuggire a molte cose ma non alla concretezza del mondo che ci circonda. Giusto per fare un esempio: ogni giorno il mondo consuma 100 milioni di barili di petrolio, una cifra un po’ astratta perché nessuno di noi sa a quanto corrisponda un barile. Si tratta di 159 litri, il che significa che ogni giorno bruciamo o trasformiamo circa 15,9 miliardi di litri della mefitica sostanza per riscaldarci, creare elettricità, avere i sacchetti di plastica, la tastiera su cui viene scritto questo articolo, le spine e i cavi per ricaricare il telefonino e, naturalmente, la benzina per le nostre amate auto (che a loro volta sono principalmente fatte di plastiche derivate dal petrolio altrimenti peserebbero due tonnellate).

I mondiali di calcio si stanno svolgendo presso una compagnia petrolifera che per caso ha anche un territorio, il Qatar, mentre l’altra compagnia petrolifera confinante, l’Arabia Saudita, ha ieri sconfitto l’Argentina di Lionel Messi, tanto per dimostrare che l’oro nero può fare tutto, anche segnare i gol, oltre che vietare alle donne di avere la patente e tagliare la testa agli oppositori politici. Soprattutto, può continuare a far aumentare l’effetto serra che, come hanno dimostrato le alluvioni in Pakistan l’estate scorsa, con 33 milioni di persone sfollate, provoca fenomeni climatici estremi, non piacevoli temperature miti tutto l’anno.

Questo significa che, nonostante tutte le chiacchiere sui “nativi digitali”, sull’economia della conoscenza e sul futuro in cui tutto avverrà via Internet la realtà è solidamente ancorata alla terra e all’acqua: carote e patate non crescono in rete e la California è da vent’anni colpita dalla siccità. Dieci multinazionali (Nestlé, PepsiCo, Coca-Cola, Unilever, Danone, General Mills, Kellogg’s, Mars, Associated British Foods, Mondelez) controllano praticamente tutto ciò che mangiamo (nel caso della birra, una sola corporation, Anheuser-Busch, ha un fatturato di 53 miliardi di dollari e possiede 500 marchi diversi).

Il caos sistemico del tardo capitalismo sembra ormai essere una condizione strutturale, non il frutto di bizzarrie di psicopatici come Elon Musk e Donald Trump, il che è piuttosto preoccupante per gli altri 7.999.999.998 abitanti del pianeta che vorrebbero più o meno vivere tranquilli, andare in spiaggia d’estate e mangiare la caldarroste d’inverno.