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ECONOMIA. Via l’Irap, silenzio sugli extraprofitti, nulla per la giungla delle “spese fiscali” (626 per un totale di 155 mld) che erode base imponibile e penalizza incapienti e bassi redditi

La ricetta fiscale, un mix di neoliberismo e corporativismo

 

La «rivoluzione fiscale» (copyright di Giorgia Meloni) è iniziata e mai pubblicità fu così ingannevole. Difficile vedere qualcosa di rivoluzionario nel tagliare le tasse ai ricchi. Sarebbe più appropriato definirla rivoluzione «corporativa», un tentativo di adattare il fisco ai diversi e frammentati interessi, di costruire più solidi recinti (legali) intorno ai grandi patrimoni, ai privilegi e alle posizioni di rendita.

Va in questa direzione l’istituto del “concordato fiscale”, uno strumento di negoziazione biennale tra imprese e agenzia delle entrate per concordare appunto gli importi da versare. Un regime fiscale à la carte, un trattamento speciale e di riguardo che tende a spostare l’aliquota sugli utili aziendali dal 24 al 15 per cento (un deciso passo avanti verso la generalizzazione della flat tax). Il colpo di spugna sui reati fiscali è la ciliegina sulla torta, nella mal riposta speranza che questa dolce terapia riesca a ridurre, almeno in parte, l’elevato tasso di evasione. Le linee guida di questa pseudo rivoluzione sono dunque la tassa piatta e la pace fiscale.

La progressività fiscale va in soffitta e la regressività diventa la nuova regola, con tutte le iniquità e le implicazioni negative: le spaccature nel mondo del lavoro, i divari territoriali e le distanze sociali, il prosciugamento delle fonti di entrata (basti pensare all’abolizione dell’Irap) con i conseguenti effetti devastanti sul debito e sulla tenuta del Welfare. Nulla di concreto è previsto per sfoltire la giungla delle “spese fiscali” (se ne contano 626 per un valore complessivo di 155 miliardi) che erode base imponibile e penalizza incapienti e bassi redditi. Mettere un tetto alle detrazioni, in base al reddito dei contribuenti, non attenua le sperequazioni esistenti e, comunque, consente una riduzione di appena il 3 per cento delle spese fiscali. Oltre tutto, in una logica di scambio, il meccanismo delle agevolazioni e dei bonus conviene alla destra per attrarre nella sua orbita imprenditori, lobby, manager, settori della rendita e della finanza, categorie del lavoro autonomo.

Nel mix di liberismo e corporativismo c’è più coerenza politica e ideologica di quanto si possa immaginare. Le imposte sono considerate dalla destra alla stregua di un furto di Stato, una sottrazione indebita di risorse ai consumi privati e al mercato. In questa visione tagliare le tasse è la chiave di volta per riaccendere i motori della crescita economica. Naturalmente vanno tagliate soprattutto ai ricchi, non ai redditi medio-bassi. Dal tavolo del governo è scomparso perfino il dossier sulla tassazione degli extraprofitti, che pure era stato un cavallo di battaglia di Fratelli d’Italia in campagna elettorale. Silenzio sui cospicui “dividendi di guerra” delle compagnie energetiche, dell’industria delle armi, delle big tech, delle big pharma, del settore alimentare, delle società finanziarie.

L’Eni ha registrato, nel 2022, un utile operativo di 20,4 miliardi, più del doppio rispetto al 2021, di cui 12,5 di extraprofitti. Giorgia Meloni dimentica le promesse elettorali e incassa i complimenti di illustri opinionisti e uomini d’affari per il realismo e lo spirito pragmatico che sta dimostrando. Alla presidente del Consiglio non manca l’arte di trovare argomenti per distrarre l’attenzione da alcuni temi sensibili e usa la retorica patriottarda intorno a un fantomatico “Piano Mattei” per mascherare il via libera ai massicci investimenti Eni nella ricerca di nuovi giacimenti di gas e petrolio. Da parte sua il ministro della difesa, Guido Crosetto, risulta impegnato in una serrata trattativa con l’Ue per ottenere che gli investimenti in armi siano classificati come spese in ”beni comuni europei”, scomputandole quindi dal calcolo del deficit.

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Sugli impegni per la transizione ecologica il dietro front non potrebbe essere più clamoroso. La transizione va bene, come nella vicenda del Superbonus e delle case green, solo fino a quando a guadagnarci sono imprese private e ricchi proprietari.

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La propaganda populista mostra il suo carattere classista e reazionario e si ribalta nella difesa delle rendite di posizione (vedi balneari e altre corporazioni) e dei ceti benestanti. D’altra parte, basta evocare la «patrimoniale», perché la destra insorga come un sol uomo. E non è certo un caso che la riforma del Catasto resti ben chiusa in qualche cassetto. Il volto generoso e clemente dei nostri governanti verso lor signori, magari evasori incalliti, si trasfigura quando sono in ballo i poveri, i precari, i migranti. Il sentiment cambia. La scure dei tagli cala impietosa sui percettori del Rdc e sulle politiche sociali. Emerge in tutta la sua pericolosità una destra che fa politica alimentando l’egoismo individuale e di gruppo, che ritiene un dato naturale e immodificabile la condizione degli italiani più sfortunati come quella dei diseredati del mondo. La questione fiscale, in questo contesto, diventa centrale per combattere le disuguaglianze e costruire un’alternativa politica credibile