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COMMENTI. Chiamando in causa il Cnel sul salario minimo Giorgia Meloni ha preso tempo, ma non ne trarrà una copertura politica efficace. Non è un caso che ne sia stata di frequente proposta la soppressione

 

Chiamando in causa il Cnel sul salario minimo Giorgia Meloni ha preso tempo, ma non ne trarrà una copertura politica efficace. Non è un caso che ne sia stata di frequente proposta la soppressione. Il Cnel non è mai stato molto di più che un cimitero degli elefanti.

Utile a collocare in una posizione formalmente di qualche prestigio un personale politico, sindacale, imprenditoriale sostanzialmente uscito dal campo di battaglia. Il rapporto tra il mondo del lavoro e quello dell’impresa vive altrove. È platea, non palcoscenico, e Meloni non può cambiare questa realtà.

La camera dei deputati ha in esame varie proposte di legge dell’opposizione, anche con audizioni presso la commissione lavoro. Non mancano contributi degni di nota, come ad esempio la memoria Istat per la seduta dell’11 luglio. Lo stesso Cnel è stato audito il 13 luglio. Cosa ci si può aspettare ora di più e meglio? Il rinvio è uno schiaffo all’assemblea elettiva, e nulla cambia con la difesa d’ufficio di Meloni sul Corriere della sera di ieri.

Perché? Certo non per disponibilità verso le opposizioni, in sostanza prese in giro. Meloni non teme gli oppositori, a fatica assemblati intorno alla bandiera del salario minimo. Al più, teme i sondaggi, che le dicono di un’opinione pubblica in maggioranza favorevole. Probabilmente pensa di guadagnare tempo per diffondere la sua pubblicità ingannevole per un prodotto avariato.
In ogni caso, tutto questo è reso possibile dall’evanescenza dell’istituzione parlamento. Che trova conferma in una legge elettorale che nega la rappresentatività e nel taglio dei parlamentari, e si traduce nell’alluvione ormai a cadenza praticamente settimanale dei decreti-legge (anche omnibus), o nelle deleghe sostanzialmente in bianco come quella fiscale, che producono tra l’altro un accumulo di decreti delegati in attesa di adozione.

Capita che qualcuno accenni alla possibilità che Mattarella rifiuti la firma. Ma il capo dello stato come garante della Costituzione rimane per prassi limitato alla manifesta incostituzionalità degli atti, di non facile riscontro. È anche giusto così, spettando alla corte costituzionale una valutazione approfondita. In tal caso la moral suasion – che Mattarella svolge oggi con parole anche più chiare che in passato – o la firma con suggerimenti di modifiche è il massimo che può fare.

Il rinvio al Cnel è un tassello nel più ampio mosaico dell’istituzione parlamento, che si iscrive nella riflessione della dottrina internazionale sull’indebolimento della democrazia definito come autocratization o democratic backsliding. Processi che hanno colpito anche paesi che avremmo considerato al riparo, come gli Stati uniti. Trump ha dimostrato e dimostra il contrario. Di tali processi si intravedono nel nostro paese i primi sintomi, che si rafforzerebbero con le riforme istituzionali della destra sul presidenzialismo/premierato (ora con l’assist di Renzi e del suo sindaco d’Italia). Sarebbe riduttivo vedere la partita in atto come difesa della Costituzione. È la difesa della democrazia, come l’abbiamo conosciuta, e passa attraverso la difesa del parlamento.

Per questo alcune mosse sono indispensabili. Mantenere la pressione per una nuova legge elettorale, come scrive Felice Besostri su queste pagine. Attivare gli istituti di democrazia diretta – iniziativa legislativa popolare, referendum – per radicare ex novo i soggetti politici, e rivitalizzare le assemblee elettive come collettori effettivi di consenso popolare. A tal fine è essenziale la piena funzionalità del portale pubblico per la raccolta delle firme online a titolo gratuito, a quanto so non ancora acquisita. Per esempio, se in parlamento sul salario minimo fosse stata in discussione una sola proposta di iniziativa popolare sostenuta da un paio di milioni di firme invece di sette proposte di opposizione, sarebbe stato facile per la maggioranza avanzare con le scarpe chiodate di un emendamento soppressivo?

La democrazia non si riduce allo slogan di un giorno da leone e cinque anni da pecora, come vorrebbero per il popolo sovrano i fan dell’investitura popolare in qualunque modo configurata di chi governa, e della conseguente inevitabile mordacchia per le assemblee elettive. E non si dica che il contrappeso è negli staterelli regionali semi-indipendenti dati dall’autonomia differenziata. In quelle istituzioni tutto è già accaduto. Che poi li chiamiamo autocrati o cacicchi, non fa differenza.