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Non siamo neanche a 20 giorni dall’impennata dell’escalation delle stragi, eppure è già piuttosto netta la sensazione che, almeno in questo angolo di mondo, ci si stia abituando. Si corre a precipizio verso il traguardo di tappa delle 10mila vittime palestinesi, diverse migliaia delle quali bambini, che non sono voluti fuggire da Gaza e dunque sostengono di fatto Hamas.

Oggi, 25 ottobre, dal territorio siriano è partito un razzo verso le alture del Golan, che Israele occupa dal 1967, la risposta via aerea dello Stato ebraico ha ucciso 8 soldati siriani e ne ha feriti altri 7. Se il segretario generale delle Nazioni Unite dice che gli attacchi di Hamas del 7 ottobre non possono giustificare la portata della “punizione collettiva del popolo palestinese”, l’ambasciatore di Tel Aviv all’Onu, a nome di israele, si sente autorizzato a chiederne indignato le dimissioni. Tutto normale, tutto va secondo il copione di sempre, verrebbe da dire. Ma è davvero così? Cosa è cambiato, sta cambiando o cambierà, ad esempio, nella politica palestinese alla luce di questa inevitabile svolta storica? È naturalmente molto presto per dirlo, Pasquale Liguori lo ha chiesto però, in questa ampia intervista, a Nour Odeh, autorevole analista ed ex portavoce dell’Autorità nazionale palestinese.

La barbara e mostruosa guerra posta in essere a Gaza avrà molti effetti a catena, dice la Odeh, ciò che è certo è che la politica palestinese non sarà più la stessa. Sarebbe importante re-immaginare un sistema politico che possa rappresentare adeguatamente i palestinesi, non solo nell’affrontare l’occupazione israeliana nel tentativo di porvi fine, ma anche per connettersi con il resto del mondo in un contesto fatto di rispetto reciproco e non di sottomissione.

Serve una nuova leadership politica, certo, che li rappresenti con dignità, fiducia e legittimità e fondata sull’approvazione popolare piuttosto che sulla protezione statunitense o occidentale in genere. Come finirà e quali persone saranno coinvolte è troppo presto per dirlo. Questa guerra reclamerà parte della nostra anima, ci spaventerà per molti anni a venire e, proprio per la pura violenza che ha scatenato, indurrà molte ragioni di cambiamento in Palestina,

 Gaza. Foto tratte dalla pagina facebook di B’Tselem

Decontestualizzare i fatti che hanno preso il via il 7 ottobre scorso con l’attacco di Hamas e lo sfondamento del recinto prigione di Gaza è operazione disonesta sul piano storico e politico. L’unisono corale di leader e principali media occidentali in soccorso della ferocia vendicativa di Israele potrebbe configurarsi complice degli eventi sanguinari di questi giorni.

Abbiamo provato a scostarci da questa narrazione di mefitica tifoseria da stadio e provato a chiedere a un’autorevole personalità palestinese commenti sulla situazione attuale.

Nour Odeh è analista politico, già figura di spicco nel campo della comunicazione ed editoria ed ex portavoce dell’Autorità nazionale palestinese.

Dottoressa Odeh, ponendoci in una prospettiva storica, cosa significano, che impatto producono gli eventi del 7 ottobre scorso?

Il 7 ottobre ha reso evidente al mondo il punto di rottura raggiunto dal popolo palestinese oppresso. Si tratta dell’attacco di entità più ingente mai attuato da un gruppo palestinese. Le caratteristiche tattiche, l’audacia, il numero di vittime che ha comportato ci spiegano l’onda di shock e rabbia che si è materializzata nella realtà. Tuttavia, era prevedibile che accadesse e lo dico con senso di tragica constatazione perché per mesi, ma direi in questi ultimi due anni in particolare, chiunque seguisse quotidianamente l’attualità nei Territori ha costantemente potuto testimoniare a leader e diplomatici mondiali una tensione giunta al punto di rottura. Non era certo possibile accantonare la questione palestinese, serrandola nel dimenticatoio, con l’assedio pluriennale di Gaza, la frammentazione territoriale in Cisgiordania, l’espulsione di intere comunità,  l’espropriazione e demolizione di una quantità enorme di case, l’uccisione di un numero record di adulti e bambini palestinesi. Non era nemmeno più possibile placare, contenere l’azione di un governo israeliano di destra pubblicamente deciso ad annullare il sacrosanto diritto dei palestinesi a un proprio Stato concedendo magari l’obolo di un permesso di lavoro in un contesto tanto precario quanto vessatorio. Tutti erano stati avvertiti di una situazione ormai esplosiva ma nessuno ha ascoltato. Retrospettivamente, il 7 ottobre sarà ricordato come il giorno che ha violentemente colpito irresponsabili e compiacenti calcoli internazionali. Nessuno ha diritto di dire che è stato un evento storico inatteso, sorprendente.

Hamas non poteva non prevedere la furiosa reazione israeliana e le conseguenti nefandezze…

Sono certa del fatto che Hamas avesse preventivato la violenza della risposta israeliana. Non sono però sicura del fatto che avesse ben soppesato il tipo di risposta internazionale e l’entità del coinvolgimento americano. Di sicuro i capi di Hamas erano consapevoli di sollecitare uno scontro di vasta portata forzando Israele a negoziati per lo scambio di prigionieri. Va detto che da almeno un paio di mesi prima del 7 ottobre erano stati diffusi numerosi comunicati di Hamas minaccianti ritorsioni per le continue incursioni israeliane poste in essere da politici, militari e coloni nella moschea di Al-Aqsa a Gerusalemme con provocazioni, aggressioni, sputi ai fedeli, anche cristiani, e la profanazione delle moschee. Credo che Israele, con l’arrogante sicumera che nulla sarebbe mai potuto accadere, non abbia seriamente considerato gli avvertimenti di Hamas. Ma su questi aspetti saranno le indagini tutte interne a Tel Aviv a verificare cosa sia successo nella filiera di potere e comando israeliani.

Non credo si potesse immaginare un attacco di tale portata ma tantissimi elementi indicavano l’imminenza di gesti significativi anche in risposta alle dichiarazioni incendiarie di esponenti israeliani incitanti alla presa di controllo di Al-Aqsa e al compimento finale della Nakba.

Il mondo occidentale non ha esitato a schierarsi con Israele. Rispetto a quanto accade in Ucraina, l’adozione di doppi standard da parte della comunità internazionale è resa ancora più evidente con gli Stati Uniti fortemente coinvolti anche sul piano del supporto militare a quello che è stato definito il diritto a “difendersi” di Israele…

L’ipocrisia della posizione occidentale, soprattutto se rapportata a quanto si è messo in atto per l’Ucraina, è antecedente ai fatti del 7 ottobre. In quel caso, infatti, il mondo occidentale ha correttamente adottato la posizione di condanna all’invasione russa con occupazione e annessione di territorio ucraino. Al contempo, però, gli stessi Paesi nel corso degli anni nulla hanno fatto nel senso di medesima condanna nei confronti dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi.

I Paesi occidentali tollerano di fatto l’annessione illegale israeliana del territorio palestinese e siriano, continuando ad avere ottimi rapporti con Israele attraverso il commercio di armi e la florida cooperazione economica. I palestinesi dal canto loro hanno da tempo chiesto l’adozione di strumenti responsabili di disinvestimento, sanzioni e boicottaggio dell’Occidente nei confronti di Tel Aviv al pari di quelli intrapresi contro la Russia. E invece è emersa chiaramente l’adozione di un doppio standard. Cosa che si è reiterata anche dopo il 7 ottobre. Le potenti diplomazie occidentali hanno usato e continuano a usare due pesi e due misure anche in merito alla mancata condanna di veri e propri atti di punizione collettiva attuati dai Paesi occupanti come per l’interruzione delle forniture di beni di prima necessità, sanitarie ed energetiche all’inerme popolazione civile: punita quando commessa dalla Russia in Ucraina e, invece, sostanzialmente accettata quando a ordinarla è stato il ministro della difesa di Israele nei confronti di Gaza.

È una seconda Nakba. Che peso hanno nella Storia, nello scenario geopolitico e sociale palestinese parole come pulizia etnica, genocidio?

Nour Odeh

Seconda Nakba? Non saprei, parlerei invece di continuazione della Nakba. Agli occhi dei parlamentari della destra israeliana che siedono in Knesset o al governo il lavoro di espulsione dei palestinesi non si era storicamente concluso nel 1948 e adesso andrebbe portato a termine. E questo sia in Cisgiordania con intere comunità espulse dalle loro terre e fatte oggetto di operazioni di pulizia etnica sia a Gaza dove l’unica soluzione sembra evidente con lo sbarazzarsi definitivamente dei palestinesi abitanti nella Striscia. È un proposito efferato, pulizia etnica e genocidio appartengono agli intenti di chi non esita ad attuare le criminali azioni a Gaza. Umanamente, non si dovrebbero e potrebbero prendere in considerazione tali termini ma è ciò che sta accadendo.

Il taglio alle forniture di cibo, acqua, energia, farmaci e beni di prima necessità è un crimine. E anche l’apertura del valico di Rafah al confine tra Gaza ed Egitto sembra del tutto insufficiente. Parliamo poi di risorse limitate che giungerebbero solo ai palestinesi situati nella parte meridionale della Striscia di Gaza, lasciando totalmente sprovvista quella a nord…

È tragico che l’ingresso di 20 camion sia stato salutato l’altro giorno quasi come una vittoria: si tratta di una goccia nell’oceano. L’apporto di beni necessari arrivato in queste ore a Gaza non soddisfa nemmeno il due-tre per cento delle esigenze attuali. Israele ha poi imposto che quel già scarso materiale in qualche modo introdotto attraverso il valico di Rafah non raggiungesse i numerosi gazawi ancora presenti nella zona settentrionale di Gaza. Ciò significa condannare a morte feriti e sfollati che hanno trovato riparo in alcune delle strutture sanitarie e di ricovero più importanti della Striscia non permettendo loro di ricevere acqua, farmaci e quant’altro: questo è crudele, è criminale! Inoltre, è molto importante sottolineare il blocco totale imposto alle forniture di carburante che è vitale per l’erogazione di acqua, per far funzionare i generatori a cui si agganciano gli ospedali. Non permettere l’approvvigionamento di carburante destina alla morte i pazienti in dialisi i cui dispositivi necessitano di corrente elettrica, i malati di cancro impediti a raggiungere l’ospedale, i neonati il cui respiro dipende dalle incubatrici, i pazienti nelle unità di terapia intensiva già sovraffollate. Spero proprio che si riesca a trovare immediatamente un modo per risolvere questo problema: le vite dei pazienti sono in bilico, i chirurghi stanno operando i loro pazienti in ambienti non sterili, anche all’aria aperta e senza uso di adeguata anestesia per scarsa disponibilità di farmaci appositi. Se questa non è da definirsi catastrofe, non so cosa lo sia.

Quali sono le sue impressioni sul massacro dell’ospedale Al-Ahli?

Quello che è successo all’ospedale Al-Ahli è stato scioccante, devastante, senza dubbio un massacro. Circa le responsabilità dell’atto, penso che siano molti i precedenti con Israele che adotta una linea del tutto analoga a quella seguita in altre occasioni con vittime plurime anche nei rifugi offerti dalle Nazioni Unite o come nel caso dell’omicidio manu militari della giornalista Shireen Abu Akleh o anche nell’uccisione di un paramedico in occasione della grande marcia del ritorno a Gaza. Ma si potrebbe continuare all’infinito con tali esempi. Di solito, ciò che fa Israele è depistare le indagini e capovolgere le accuse addebitandole ai palestinesi, salvo poi risultare palesemente colpevole e, purtroppo, impunito.

Ho potuto osservare prove sufficienti per convincermi che non poteva trattarsi di un missile palestinese mal lanciato. Nello specifico, l’indagine scientifica condotta da Forensic Architecture e dai loro partner è quella più seria finora condotta. Penso, comunque, che sia importante permettere che venga svolta un’indagine forense indipendente. In ogni caso, diffido delle dichiarazioni fatte dagli israeliani a loro discolpa che non mi sembrano poi così preoccupati degli eccidi di civili che stanno compiendo. Oltretutto, lo stesso esercito israeliano, più volte in questi giorni, ordina di continuo l’evacuazione di ospedali per scopi di bombardamento.

Una manovra di terra con l’invasione di Gaza riuscirà a eradicare Hamas o si tratterà in definitiva di un passo decisivo e ostinato nell’ottica di un’espansione geografica dell’occupazione?

Penso che un’invasione di terra sarà devastante. Gli israeliani hanno promesso di ridurre Hamas in polvere. Il costo in vite civili sarà assolutamente terrificante. Penso che per ora gli israeliani si muoveranno in operazioni di incursioni limitate, consapevoli però del fatto che Hamas non potrà essere in tal modo estirpata.

Hamas è un gruppo politico con un suo forte seguito e non è rappresentato solo dalla sua ala militare. Israele potrebbe essere in grado di assassinare i miliziani, ma ciò non significa che Hamas come gruppo, come movimento politico o come idea scompaia. Anche perché Hamas non esiste solo a Gaza, quindi l’idea di poter ridurlo in polvere guidati dalla sete di sangue e vendetta con desiderio di riappropriarsi di una lesa egemonia resta solo una teorica speculazione. Immagino che le agenzie di intelligence di tutto il mondo siano consapevoli del fatto che non è così che si possa eliminare Hamas. Per far sparire un’idea non è sufficiente usare le bombe. Anzi, da questo conflitto Hamas potrebbe guadagnare importanza e riconquistare influenza e sostegno tra i palestinesi proprio nel caso di uno scenario apocalittico.

Cosa ne pensa della liberazione dei due ostaggi avvenuta ieri? Può essere l’inizio di una nuova fase?

Penso che il rilascio degli ostaggi sia un ottimo sviluppo, ci lavoro sin dall’inizio della crisi. Hamas ha rilasciato diverse dichiarazioni affermando di esser disponibile ad esempio cominciando a rilasciare i cittadini stranieri e i civili in ostaggio. Nelle sue mani pare che ci sia un numero apparentemente consistente di soldati israeliani tale da permettere un avvio di trattative mirate allo scambio con prigionieri palestinesi.

Non può non essere sottolineato che il diritto internazionale viene ancora una volta umiliato nella sua corretta applicazione. Si commettono crimini di incommensurabile portata e qui in Italia noti opinion maker sostengono che “un diritto che non viene fatto valere, non è un diritto”, lei cosa ne pensa?

Non credo si possa esser d’accordo con l’enunciato che lei riporta. Però come già accennavo prima v’è un rischio di regressione e conseguenze negative sul piano internazionale: per quanto accade a Gaza, il diritto umanitario internazionale risulta applicato in maniera invertita rispetto a quanto previsto e alla sua attuazione avvenuta per altre fattispecie. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, i Paesi hanno redatto la Quarta Convenzione di Ginevra a seguito degli orrori compiuti a danno dei civili, concordando di non sottoporre mai più i civili alle atrocità esperite nel conflitto. Esentare però i Paesi da qualsiasi responsabilità quando violino illecitamente le norme internazionali genera precedenti à la carte da cui “pescare”, utile per prassi a depotenziare e annullare l’evidenza di violazioni e crimini commessi da un determinato Paese. In teoria, ma non così tanto teoricamente, la stessa Russia potrebbe servirsi di tali nefasti pregressi per farla franca relativamente ai crimini commessi in Ucraina. Al momento, comunque, è del tutto disattesa l’applicazione delle norme internazionali a protezione dei civili palestinesi, quasi inosservati in un lugubre silenzio che li accompagna verso il loro massacro laddove sono state, invece, da tanti demonizzate le atrocità commesse dalla Russia nei confronti dei civili ucraini.

Qual è, quale potrebbe essere il coinvolgimento dei Paesi arabi nella crisi attuale? Grandi masse si sono radunate nelle strade ma i leader sembrano essere in una fase di studio o di paralisi. Quanto vicini sono Hezbollah e Iran a un loro maggiore coinvolgimento nella guerra?

Nei Paesi arabi si respira un clima evidentemente nervoso. Questo lo si è ben visto nel corso del recente vertice al Cairo. Giordania ed Egitto, in particolare, sono estremamente preoccupati per la mutevolezza degli umori pubblici nei loro Paesi e nelle loro piazze. Ecco perché l’Egitto non ha aderito all’idea folle di ospitare i palestinesi profughi da Gaza e in un certo senso partecipare alla decimazione e all’umiliazione delle aspirazioni palestinesi per una Palestina finalmente libera.

Di fronte al consenso internazionale guidato dagli Stati Uniti sul fatto che questa guerra debba ridurre all’insignificanza Hamas, molti leader arabi credo si stiano impegnando nel limitare i danni estesi all’intera Regione. Per quanto riguarda Hezbollah e Iran, personalmente non penso che le cose possano esacerbarsi. Credo che scaramucce e scontri tra Israele e Hezbollah continuino, magari anche intensificandosi, ma restando piuttosto circoscritti senza deflagrare.

Il ruolo dei Paesi terzi o non allineati potrebbe essere importante. Secondo lei Cina, ma anche la stessa Russia, possono giocare un ruolo utile nella mediazione tra le parti?

A dire il vero, non penso che la Russia possa avere alcun ruolo, anche se vanta buoni rapporti con i Paesi arabi, con i palestinesi e con lo stesso Benjamin Netanyahu. Americani ed europei non accetterebbero un suo ruolo e francamente sarebbe un po’ uno scenario capovolto perché se proprio si vuole, in modo molto cinico, la Russia potrebbe beneficiare degli effetti di ciò che sta facendo Israele. Ripeto, ciò che sta commettendo Israele a Gaza e nei Territori “normalizza” proprio le violazioni e i crimini di cui la Russia è accusata. Per questo, il coinvolgimento della Russia nello scenario che si è configurato è molto complesso. Anche la risoluzione che i russi hanno presentato al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, fatto che ha ricevuto una certa enfasi mediatica, è stata prodotta senza aver consultato nessuna controparte e, peraltro, inserita in un testo non proprio esaustivo dal punto di vista delle tutele e delle aspirazioni palestinesi. La Cina, d’altro canto, potrebbe svolgere un ruolo di equilibrio e contribuire a calmare gli animi allargando il fronte internazionale interessato con un auspicabile apporto di saggezza in questa situazione.

Detto ciò, penso che si debba aumentare la pressione sulle capitali occidentali e far capire che opinione pubblica europea e americana non possono sopportare le conseguenze della guerra che i loro leader stanno sostenendo. I sondaggi d’opinione lo dicono molto chiaramente e le migliaia di persone nelle strade d’Europa lo evidenziano. Penso che questi movimenti autentici e manifestazioni spontanee di idee potrebbero spostare le cose nella giusta direzione.

Che ne sarà della politica palestinese? Quali figure nel mondo palestinese sono capaci di una convergenza resiliente e di dare forza a un processo di autodeterminazione?

Penso che sia una domanda molto importante, perché è importare guardare avanti. Non sono però in grado di prevedere chi prevarrà nello scenario politico palestinese a seguito della svolta storica inevitabile impressa da questa crisi. La barbara e mostruosa guerra posta in essere a Gaza avrà molti effetti a catena sulla scena politica palestinese: ci saranno personalità che saranno messe ai margini e figure politiche che non potranno più avere alcuna rilevanza. Ma credo sia troppo prematuro prevedere come andranno a finire le cose: ciò che è certo è che la politica palestinese non sarà più la stessa di quella che conoscevamo, antecedente al 7 ottobre. Sarebbe molto importante re-immaginare un sistema politico palestinese riformulato in maniera tale da rappresentare adeguatamente i palestinesi e che parli a loro nome non solo nell’affrontare l’occupazione israeliana nel tentativo di porvi fine, ma anche per connettersi con il resto del mondo in un contesto fatto di rispetto reciproco e non di sottomissione. È molto importante per i palestinesi esprimere una leadership politica che li rappresenti con dignità, fiducia e legittimità e fondata sull’approvazione popolare piuttosto che sulla protezione americana o occidentale in genere. Come finirà e quali persone saranno coinvolte è troppo presto per dirlo. Però, sì, sicuramente cambieranno molte cose. Questa guerra reclamerà parte della nostra anima, ci spaventerà per molti anni a venire e, proprio per la pura violenza che ha scatenato, indurrà molte, pregnanti e preponderanti ragioni di cambiamento in Palestina.