Stampa
PALESTINA/ISRAELE. Non esiste strategia per il futuro, un’assenza surreale e dolorosa a 75 anni dall’espulsione forzata di quasi un milione di palestinesi dalle proprie terre e a 56 dall’occupazione militare di quel che restava della Palestina storica
Striscia spezzata in due. Ma Israele potrebbe non raggiungere l’obiettivo

Sono trascorsi trent’anni dagli Accordi di Oslo e dalla fondazione dell’Autorità nazionale palestinese, esecutrice dell’omicidio politico dell’Olp ed elefantiaca amministrazione senza sovranità che avrebbe dovuto condurre alla nascita di uno stato di Palestina.

Eppure, trent’anni dopo, la diplomazia occidentale non intende ancora intraprendere una strategia reale di soluzione della secolare questione palestinese. Non lo vuole soprattutto Israele che prosegue nella “gestione” del conflitto senza alcuno sbocco presente o futuro, in una corsa al massacro che pezzo dopo pezzo divora la legittimità di cui Tel Aviv poteva ancora godere in buona parte del consesso internazionale e delle opinioni pubbliche globali.

Domenica a Ramallah il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen con il segretario di stato statunitense Antony Blinken è stato chiaro, perché non è stupido: l’Anp è disposta a rientrare a Gaza solo all’interno di una cornice politica duratura, che comprenda lo status di tutti i Territori occupati, Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est. Significa la fine dell’occupazione militare israeliana. Un’ipotesi campata per aria: la fine dell’occupazione non è nei piani di nessun decisore.

Israele non sa cosa farà di Gaza, non sa cosa significa «vincere la guerra». Non lo sa il governo e non lo sa quell’opinione pubblica che continua a ripetere che al destino di Netanyahu ci si penserà «a guerra vinta». Rioccupare mezza Gaza? Rendere Hamas un guscio vuoto o catturare il suo leader nella Striscia, Yahiya Sinwar? Cacciare più palestinesi possibile nel deserto del Sinai? Il senso della vittoria è vago nel gabinetto di guerra come nello Studio ovale. Non è vaga la cornice: l’occupazione militare non è in discussione.

In tale contesto di blackout politico e persistenza di un approccio colonialista verso il sud del mondo, la carta dell’Anp come cane da guardia altrui è l’ovvia risposta ma è esercizio futile. Non ha prospettive reali: perché l’Autorità non gode di alcun consenso tra la base né di legittimità nel mondo arabo che l’ha palesemente bypassata per normalizzare i rapporti con Tel Aviv; perché è proprietà privata di un’élite politica ed economica che ha allargato a dismisura il gap sociale con la popolazione; perché non intende rientrare in una Gaza devastata da un’offensiva crudele e senza precedenti a bordo dei carri armati israeliani; perché Israele – se pure si “piegasse” alla volontà statunitense – non la renderebbe altro che un fantoccio, al pari di quanto avviene dal 1993 in Cisgiordania.

Abu Mazen è anziano, malato e a capo di un’idrovora di denaro internazionale, ma non è stupido. Non solo sa che Gaza è un suicido politico, ma è consapevole che Gaza potrebbe essere già l’ultimo chiodo sulla bara dell’Anp. Che sopravviva a una crisi di tale portata non è scontato. Impossibile oggi prevedere il futuro, ma l’imbarbarimento dell’occupazione è lo scenario più realistico. La prova ce l’abbiamo già sotto gli occhi, si chiama Cisgiordania.

Non esiste strategia per il futuro, un’assenza surreale e dolorosa a 75 anni dall’espulsione forzata di quasi un milione di palestinesi dalle proprie terre e a 56 dall’occupazione militare di quel che restava della Palestina storica. Decenni dopo, la comunità internazionale occidentale non legittima ancora le aspirazioni di libertà palestinesi e si trincera dietro uno slogan – due popoli, due stati – che è solo uno scudo alla soluzione politica. L’occupazione non è davvero messa in dubbio, nemmeno oggi.

La prospettiva di un rientro dell’Anp in una Gaza in macerie — umane, materiali, psicologiche, politiche – è utile solo a qualche titolo di agenzia perché non avverrà. E se anche dovesse realizzarsi, non avverrebbe in un territorio liberato. Si realizzerebbe in un territorio occupato, in un territorio su cui sarà presente ancora Hamas (che non è destinata alla scomparsa) e dove il grande rimosso dalle agende altrui sta vivendo un’umiliazione e un abuso difficili da superare: il popolo palestinese.

Privati della politica, privati di speranza, la rabbia dei palestinesi ribolle insieme alla convinzione che la libertà non passerà per una diplomazia schiacciata sulle ragioni israeliane e complice del massacro in corso