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Intanto a Londra: Un corteo così grande non si vedeva dal 2003. Smentito il governo Tory che preannunciava violenze, 800mila persone manifestano pacificamente per il cessate il fuoco a Gaza con le insegne palestinesi. Che a Roma, alla manifestazione del Pd, vengono sequestrate

PAROLE E DIVIETI. A Londra sono scese in strada quasi un milione di persone e le bandiere della Palestina erano ovunque. Niente di lontanamente paragonabile è accaduto a Roma dove però il Pd da solo ha comunque riempito una piazza ed Elly Schlein ha trovato le parole giuste quasi su ogni argomento, persino sulla guerra di Israele a Gaza

Centinaia di migliaia di manifestanti marciano a Londra in solidarietà con il popolo palestinese, chiedendo il cessate il fuoco foto di Wiktor Szymanowicz/Getty Images La manifestazione pro-Palestina a Londra - Ansa/Andy Rain

«Non ci lasciamo qui», la promessa di Elly Schlein alla piazza del Pd è innanzitutto un augurio a se stessa. Davanti ai militanti del suo partito, la segretaria trova quel coraggio che troppo frequentemente dimentica quando torna tra i «capibastone» – definizione sua – del Pd. Ha fatto un buon discorso ieri in piazza del Popolo a Roma. Ha trovato le parole giuste quasi su ogni argomento, persino quello più urgente e che più lasciava presagire male, viste le prudenze e i divieti dei giorni scorsi: la guerra di Israele a Gaza. «La brutalità di Hamas», ha detto, «non giustifica le brutalità sui palestinesi, il massacro dei civili, le bombe che cadono sulle scuole, sugli ospedali e sui campi profughi». «La popolazione di Gaza», ha aggiunto, «già prima viveva in una condizione insostenibile, le loro sofferenze non valgono di meno. Hamas non rappresenta il popolo palestinese». Schlein ha anche ricordato come «la legittima aspirazione a uno stato palestinese» sia diventata «un miraggio a causa degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, persistente violazione del diritto internazionale».

Sono cose che da tempo dice l’Onu, a costo di prendersi l’accusa di antisemitismo. E che, andando avanti sempre più pesantemente la punizione collettiva di Netanyahu, cominciano a dire anche i più prudenti tra i capi di stato. Ma restano ancora parole difficili e rare nel partito di cui Schlein è segretaria. Non a caso nessuno dei tanti oratori che l’hanno preceduta ieri sul palco (con l’eccezione del presidente dell’Arci) ha chiesto a gran voce il cessate il fuoco come ha fatto lei. Nel frattempo però, mentre Schlein diceva quelle cose, nella piazza le bandiere della Palestina, quelle che esprimono «la legittima aspettativa» del suo popolo, non c’erano. Se sono apparse, appena tre o quattro, è stato solo per qualche minuto. Tirate immediatamente via dalle forze dell’ordine che hanno anche ammonito chi ci ha tentato non si sa in nome di quale legge. Bandiere considerate una minaccia all’ordine pubblico, perché il Pd, in quella piazza, non le voleva.

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Non fosse stato così, magari qualche militante del partito democratico l’avrebbe portato volentieri con sé quel vessillo che rappresenta i civili «le cui sofferenze non valgono meno». Magari l’avrebbe sventolato in alto, sentendo la segretaria dire che «niente può giustificare le brutalità che la Palestina sta subendo». Invece no e a noi resta così un’altra prova delle ambiguità del Pd. Che si incaglia in

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INTERVISTA. La vicepresidente Pd: bene che 5S e rossoverdi partecipino, è ora di costruire una vera alleanza. Schlein fa bene a condannare i massacri a Gaza, bisogna lavorare per la pace. In Piemonte c’è una destra aggressiva, con i 5S dobbiamo costruire insieme una proposta per la regione: spero che capiscano che siamo dalla stessa parte

Chiara Gribaudo: «In piazza per l’alternativa alle destre» Chiara Gribaudo - Ansa

Chiara Gribaudo, deputata, vicepresidente del Pd. Domani scendete in piazza a Roma. La piattaforma della manifestazione è molto ampia e variegata. Qual è il motivo principale per cui chiamate i vostri simpatizzanti in piazza del Popolo?

Per dire che vogliamo un paese diverso da quello che ci ritroviamo dopo un anno di governo Meloni. Sindacati e associazioni hanno già fatto sentire la loro voce, ora tocca a noi: l’opposizione deve uscire dai palazzi, vogliamo condividere la battaglia contro la manovra e contro i tagli alla sanità con la nostra comunità e con chi vuole darci una mano. Il Pd per cambiare ha bisogno di una intelligenza diffusa, c’è una larga parte di Italia che fa fatica, non solo i più deboli ma anche il ceto medio che è penalizzato dai tagli alla sanità e alla scuola. Il Pd ha fatto il suo percorso, ora è nelle condizioni di mandare messaggi chiari, di essere una forza realmente popolare capace di riannodare i fili con chi ha smesso di credere nella politica.

Con voi ci saranno anche M5S, Sinistra e Verdi. È l’embrione della tanto attesa coalizione?

Mi fa molto piacere che si uniscano a noi, le opposizioni sono più credibili quando sono unite. Spero che sia un ulteriore passo avanti verso la costruzione di una vera alleanza.

Il Piemonte, la sua regione, è l’unica di quelle al voto nel 2024 in cui non c’è ancora un’alleanza tra Pd e M5S. In Sardegna voi avete accettato una candidata 5S, Todde, ma la cortesia non è stata ricambiata.

Non ancora, ma per fortuna non si è fatta una questione di nomi ma di politica. Chiara Appendino alcune settimane fa ci ha proposto di parlare di idee e non di candidati. Io ci sto: la destra che governa la regione si sta muovendo contro il diritto all’aborto, sulle liste di attesa in sanità siamo in fondo alla classifica, sui trasporti siamo andati indietro. Io penso che sia la politica a dirci che dobbiamo stare uniti, prima degli accordi di partito. E non sarebbe nemmeno una novità, con il M5s siamo insieme all’opposizione da 5 anni, se quello che abbiamo visto non ci piace è nostra responsabilità comune costruire un progetto alternativo. Mancano solo 7 mesi al voto, e la destra è già in campagna elettorale. C’è da fare un lavoro lungo di ascolto e condivisione coi i piemontesi, ma è una partita che si può vincere.

I 5 stelle di Torino frenano, pesano le ruggini tra il sindaco di Torino Lo Russo e Appendino.

Anche nel Torinese ci sono realtà dove abbiamo costruito alleanze, di fronte a una destra così bisogna lasciare da parte divisioni del passato. Spero che la loro partecipazione alla nostra piazza possa dare un contributo a fare capire che siamo dalla stessa parte.

Uno dei temi della vostra piazza sarà la pace in Medio Oriente. Tra voi convivono sensibilità diverse sulla questione.

Tutto il Pd è unito nel chiedere la pace, a partire da un cessate il fuoco per ragioni umanitarie. Siamo per una soluzione che preveda due popoli e due stati.

Schlein ha alzato i toni nel condannare i massacri di civili a Gaza.

Ha fatto bene, come è stato giusto condannare subito la strage del 7 ottobre. A pagare il prezzo non possono essere civili inermi, soprattutto bambini. Usa, Ue e paesi arabi moderati devono lavorare per arrivare a una soluzione politica,

La segretaria ha chiesto di portare in piazza solo bandiere del Pd e della pace. Se qualcuno venisse con una bandiera palestinese sarebbe un problema?

Per me la bandiera del Pd rappresenta tutte le istanze, a partire da quella della pace. Siamo per la difesa del diritto di Israele a esistere e per la terra e la libertà dei palestinesi.

Vi siete schierati contro l’elezione diretta del premier proposta da Meloni, e anche questo sarò uno dei che scandirete in piazza. È un tema capace di scaldare la base?

Nel mondo progressista e di sinistra c’è una sensibilità sul tema dell’uomo solo al comando, ci sono ancora anticorpi diffusi, nonostante i tentativi della destra di riscrivere la storia. Se si parla di stravolgimento della Costituzione, di riduzione dei poteri del Quirinale, il nostro popolo è pronto a mobilitarsi

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ALBANIA/ITALIA. La Costituzione impone che al richiedente asilo sia riconosciuto l’ingresso e il soggiorno nel territorio quantomeno per il tempo necessario all’esame della sua domanda

 Edi Rama e Giorgia Meloni - LaPresse

Il governo ha annunciato la firma di un protocollo di intesa fra Italia e Albania, fra gli obiettivi c’è quello di «accogliere solamente chi ha davvero diritto alla protezione internazionale». Negli avverbi «solamente» e «davvero» si annida il senso: evitare di garantire il diritto di asilo. L’accordo prevede la costruzione in Albania di «centri per la gestione dei migranti arrivati via mare», che dovrebbero fungere sia da hotspot sia da centri per il rimpatrio.

I primi, inventati dall’Agenda europea sulla migrazione nel 2005, sono dei non-luoghi, in un limbo giuridico, funzionali a distinguere immediatamente il richiedente asilo dal migrante economico, da respingere senza indugi; i secondi, introdotti con la legge Turco-Napolitano nel 1998, hanno mutato nome, tempi di trattenimento e soggetti detenuti (ora anche richiedenti asilo), ma erano e sono centri di detenzione. Entrambi sono espressione di un diritto speciale, dalle garanzie dimidiate.

Hotspot, Cpr e accordi con paesi terzi sono elementi cardine dell’asse delle politiche nazionali ed europee in materia di immigrazione: rafforzamento delle frontiere ed esternalizzazione. Il tradizionale doppio binario delle politiche sugli stranieri, integrazione e repressione, si incanala lungo un binario unico (quello della repressione). Fortezza Europa, first: non rileva il fatto che molti dei paesi con i quali sono stipulati accordi sono stati in guerra, autoritari, che non garantiscono i diritti della persona umana, che non tutelano il diritto di asilo (Turchia, Sudan, Tunisia, Libia, Niger…), così come non rileva che le persone che migrano siano persone alla ricerca dei propri diritti.

Ora molte sono le criticità (violazioni) inerenti il rispetto della dignità, della libertà personale, dei diritti di difesa e al ricorso, dei centri sul territorio: facile immaginare che crescano esponenzialmente con la delocalizzazione. Mi limito a ricordare come nel 2023 l’Italia sia stata ripetutamente condannata (per tutte, Corte Edu, 30 marzo 2023), per le condizioni di trattenimento subite da alcune persone nell’hotspot di Lampedusa tra il 2017 e il 2019.

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E che dire del diritto di asilo? A prescindere dall’arbitrarietà della distinzione fra migrante economico e richiedente asilo (non vede forse violati i suoi diritti chi fugge da condizioni materiali indegne o in cerca di istruzione?), al richiedente asilo deve essere riconosciuto l’ingresso e il soggiorno nel territorio quantomeno per il tempo necessario all’esame della sua domanda. Il diritto di asilo «ha carattere immediatamente precettivo e comporta un diritto soggettivo perfetto», con la conseguente possibilità di intervento del giudice ordinario (Tribunale di Roma, 1999, caso Ocalan). E l’articolo 10 della Costituzione è inequivocabile: il diritto di asilo è nel «territorio della Repubblica». È incostituzionale delocalizzare il diritto di asilo.

E che dire del nucleo minimo – e non sufficiente – del diritto di asilo, come del divieto di tortura, il principio di non refoulement (il diritto di non essere respinti in territori dove vi sia il rischio di subire trattamenti inumani o degradanti)? Il divieto di respingimento costituisce una norma internazionale di jus cogens, inderogabile, anche da parte di accordi bilaterali, e protegge anche da respingimenti in un paese che a sua volta respinga verso altri paesi che non tutelano da trattamenti inumani e degradanti (Corte Edu, 23 febbraio 2012).

La Corte europea dei diritti dell’uomo, così come la Corte di giustizia Ue, hanno precisato che non esiste una presunzione assoluta di sicurezza per nessuno, neanche per gli stati membri dell’Unione europea; l’Albania non lo è nemmeno.
Con la delocalizzazione di hotspot e Cpr, ai muri giuridici frapposti al riconoscimento del diritto di asilo (categoria dei paesi terzi sicuri; restrizioni della protezione umanitaria e speciale; detenzione; sovrapposizione dello status, più restrittivo, della protezione internazionale all’asilo costituzionale) si aggiungono muri che materialmente impediscono l’ingresso nel territorio.
Il diritto di asilo è il diritto di chi non ha diritti: cosa resta dei diritti umani?

 

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Con la guerra a Hamas Israele non distruggerà il consenso e la capacità di attrazione del terrorismo, che al contrario saranno potenziati dagli orrori del massacro in corso a Gaza. Occorre subito un cessate il fuoco - non la «tregua» - e la fine dei raid aerei, perché alla catastrofe umanitaria si contrapponga il rispetto della vita di ogni essere umano

Per un risveglio della ragione davanti alle macerie del conflitto

 

Dopo un mese la risposta della guerra ai crimini di Hamas del 7 ottobre non sta provocando soltanto migliaia di morti innocenti, decine di migliaia di feriti, le povere case di Gaza rase al suolo, le bombe sugli ospedali, le scuole e le ambulanze, la fame e la sete di un milione di sfollati senza tetto né tutele. Con paradosso apparente, essa ha anche enormemente aggravato la minaccia alla sicurezza futura di Israele. I suoi effetti politici sono tutti disastrosi: la sempre più improbabile liberazione degli ostaggi, la crescita vergognosa dell’antisemitismo nel mondo, il pericolo di un allargamento del conflitto, il rafforzamento di Hamas sia all’interno del popolo palestinese che all’interno del mondo islamico. Il solo effetto che non sarà raggiunto sarà la distruzione, proclamata da Netanyahu, del terrorismo jiadista e criminale di Hamas.

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Potranno essere uccisi tutti i capi militari di Hamas scovati nel territorio di Gaza, ma non lo saranno i suoi capi politici che vivono al sicuro nel Qatar o in Iran o in altri paesi islamici. Tanto meno saranno distrutti il consenso e la capacità di attrazione del terrorismo, che al contrario saranno potenziati dagli orrori della guerra: dal massacro di innocenti uccisi, in gran parte bambini, dalla crescita dell’odio e della volontà di vendetta, che non potranno non allevare nuove generazioni di terroristi.

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E’ questo il risultato della risposta autolesionista, ottusa e simmetrica, della guerra e dei bombardamenti sulle popolazioni civili all’aggressione atroce del 7 ottobre. Che non è stata un atto di guerra, essendo la guerra solo tra Stati ed eserciti regolari, bensì un crimine orrendo al quale occorreva rispondere con il diritto, cioè con un intervento diretto a colpire i soli colpevoli.

La risposta della guerra è stata invece esattamente ciò che volevano i terroristi: l’annullamento dell’asimmetria elementare tra guerra e violenza criminale, perché è come “guerra santa”, diretta a distruggere Israele, che essi concepiscono, legittimano e vogliono che siano riconosciuti e temuti i loro eccidi. Ovviamente la distinzione tra crimine e atto di guerra è una convenzione stipulata dalla nostra civiltà giuridica. Ma è una convenzione indispensabile a porre un limite alla guerra e a preservare la necessaria asimmetria tra l’inciviltà del crimine e la civiltà del diritto.

Ben altra sarebbe stata l’efficacia di una lotta al terrorismo ove questo fosse stato riconosciuto e perseguito come fenomeno essenzialmente criminale: innanzitutto l’identificazione, ovviamente con un uso adeguato della forza e con la mobilitazione solidale di tutte le polizie dei paesi civili, dei terroristi, della loro rete clandestina e soprattutto dei loro capi, molti dei quali non vivono a Gaza; in secondo luogo la prova di superiorità morale e politica che Israele avrebbe dato ai criminali e al mondo intero; in terzo luogo la netta distinzione, che dobbiamo tutti pretendere, tra Hamas e la povera popolazione di Gaza; in quarto luogo l’apertura di una prospettiva di pace ed anche, finalmente, di una soluzione politica della questione palestinese. Senza la quale la guerra non finirà mai, cresceranno gli odi, la disumanizzazione reciproca e la volontà di distruzione che accomuna entrambe le parti in conflitto. Biden, in un momento di sincerità, aveva avvertito il governo israeliano: non fate il nostro stesso errore, quando chiamammo atto di guerra il crimine dell’11 settembre e ad esso rispondemmo con due guerre che produssero centinaia di migliaia di morti innocenti, la nascita dell’Isis, gli attentati terroristici in mezzo mondo e la crescita dell’odio contro l’occidente.

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Il risveglio della ragione sarebbe ancora possibile. Occorrerebbe la cessazione del fuoco – non una semplice tregua – e soprattutto dei bombardamenti dal cielo. Per non provocare una catastrofe umanitaria, ma anche per contrapporre ai terroristi il rispetto della vita e della dignità di persona di ogni essere umano, Israele dovrebbe inoltre aprire un varco nel suo confine con Gaza, onde prestare soccorso quanto meno ai bambini e alle donne e offrire cure mediche ai malati e ai feriti. Sarebbe, questa, un’iniziativa tanto costosa e generosa quanto inaspettata e vincente, che oltre a salvare migliaia di vite umane varrebbe a ristabilire l’asimmetria tra uno Stato che si vuole democratico e la brutalità fanatica del terrorismo. Sarebbe il miglior antidoto al veleno dell’antisemitismo. Indebolirebbe radicalmente il terrorismo jiadista, soprattutto di fronte al popolo palestinese. Faciliterebbe una trattativa e la liberazione degli ostaggi. Porrebbe fine, almeno da parte israeliana, alla logica della vendetta e del nemico da annientare, il cui superamento è il presupposto di qualunque soluzione politica.

Naturalmente, in politica, ciò che è razionale non è quasi mai reale e ciò che è reale non è quasi mai razionale. Naturalmente Israele sconfiggerà i terroristi che si trovano a Gaza, al prezzo di altre migliaia di morti innocenti. Ma non vincerà la guerra, ormai endemica e permanente, come ha scritto domenica 29 ottobre Tommaso Di Francesco. Dovrà, per sopravvivere, accentuare la politica violenta di oppressione nei confronti dei palestinesi, la quale a sua volta rafforzerà Hamas o altre formazioni terroristiche, costringerà la popolazione israeliana a vivere in uno stato di crescente insicurezza e paura e produrrà, inevitabilmente, nuove tragedie, in una spirale senza fine

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PALESTINA/ISRAELE. Non esiste strategia per il futuro, un’assenza surreale e dolorosa a 75 anni dall’espulsione forzata di quasi un milione di palestinesi dalle proprie terre e a 56 dall’occupazione militare di quel che restava della Palestina storica
Striscia spezzata in due. Ma Israele potrebbe non raggiungere l’obiettivo

Sono trascorsi trent’anni dagli Accordi di Oslo e dalla fondazione dell’Autorità nazionale palestinese, esecutrice dell’omicidio politico dell’Olp ed elefantiaca amministrazione senza sovranità che avrebbe dovuto condurre alla nascita di uno stato di Palestina.

Eppure, trent’anni dopo, la diplomazia occidentale non intende ancora intraprendere una strategia reale di soluzione della secolare questione palestinese. Non lo vuole soprattutto Israele che prosegue nella “gestione” del conflitto senza alcuno sbocco presente o futuro, in una corsa al massacro che pezzo dopo pezzo divora la legittimità di cui Tel Aviv poteva ancora godere in buona parte del consesso internazionale e delle opinioni pubbliche globali.

Domenica a Ramallah il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen con il segretario di stato statunitense Antony Blinken è stato chiaro, perché non è stupido: l’Anp è disposta a rientrare a Gaza solo all’interno di una cornice politica duratura, che comprenda lo status di tutti i Territori occupati, Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est. Significa la fine dell’occupazione militare israeliana. Un’ipotesi campata per aria: la fine dell’occupazione non è nei piani di nessun decisore.

Israele non sa cosa farà di Gaza, non sa cosa significa «vincere la guerra». Non lo sa il governo e non lo sa quell’opinione pubblica che continua a ripetere che al destino di Netanyahu ci si penserà «a guerra vinta». Rioccupare mezza Gaza? Rendere Hamas un guscio vuoto o catturare il suo leader nella Striscia, Yahiya Sinwar? Cacciare più palestinesi possibile nel deserto del Sinai? Il senso della vittoria è vago nel gabinetto di guerra come nello Studio ovale. Non è vaga la cornice: l’occupazione militare non è in discussione.

In tale contesto di blackout politico e persistenza di un approccio colonialista verso il sud del mondo, la carta dell’Anp come cane da guardia altrui è l’ovvia risposta ma è esercizio futile. Non ha prospettive reali: perché l’Autorità non gode di alcun consenso tra la base né di legittimità nel mondo arabo che l’ha palesemente bypassata per normalizzare i rapporti con Tel Aviv; perché è proprietà privata di un’élite politica ed economica che ha allargato a dismisura il gap sociale con la popolazione; perché non intende rientrare in una Gaza devastata da un’offensiva crudele e senza precedenti a bordo dei carri armati israeliani; perché Israele – se pure si “piegasse” alla volontà statunitense – non la renderebbe altro che un fantoccio, al pari di quanto avviene dal 1993 in Cisgiordania.

Abu Mazen è anziano, malato e a capo di un’idrovora di denaro internazionale, ma non è stupido. Non solo sa che Gaza è un suicido politico, ma è consapevole che Gaza potrebbe essere già l’ultimo chiodo sulla bara dell’Anp. Che sopravviva a una crisi di tale portata non è scontato. Impossibile oggi prevedere il futuro, ma l’imbarbarimento dell’occupazione è lo scenario più realistico. La prova ce l’abbiamo già sotto gli occhi, si chiama Cisgiordania.

Non esiste strategia per il futuro, un’assenza surreale e dolorosa a 75 anni dall’espulsione forzata di quasi un milione di palestinesi dalle proprie terre e a 56 dall’occupazione militare di quel che restava della Palestina storica. Decenni dopo, la comunità internazionale occidentale non legittima ancora le aspirazioni di libertà palestinesi e si trincera dietro uno slogan – due popoli, due stati – che è solo uno scudo alla soluzione politica. L’occupazione non è davvero messa in dubbio, nemmeno oggi.

La prospettiva di un rientro dell’Anp in una Gaza in macerie — umane, materiali, psicologiche, politiche – è utile solo a qualche titolo di agenzia perché non avverrà. E se anche dovesse realizzarsi, non avverrebbe in un territorio liberato. Si realizzerebbe in un territorio occupato, in un territorio su cui sarà presente ancora Hamas (che non è destinata alla scomparsa) e dove il grande rimosso dalle agende altrui sta vivendo un’umiliazione e un abuso difficili da superare: il popolo palestinese.

Privati della politica, privati di speranza, la rabbia dei palestinesi ribolle insieme alla convinzione che la libertà non passerà per una diplomazia schiacciata sulle ragioni israeliane e complice del massacro in corso

 

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Pietà l’è morta! Sono ossessionata da questa frase in questi giorni di dolore, rabbia, indignazione. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu continua a non essere in grado di chiedere almeno il cessate il fuoco. Veto da parte degli Usa e di Israele, con qualche isoletta del Pacifico.

Luisa Morgantini, Member of the European Parliament since...

 

La maggioranza dei governi europei, compreso il nostro, si astiene, mentre 120 paesi dell’altra parte del mondo (con qualche lodevole eccezione europea) votano a favore. L’ Onu è stata via via spodestata a partire dalla prima Guerra del Golfo, 1991, e da tutte le guerre successive, che hanno destabilizzato il Medio Oriente, provocato centinaia di migliaia di vittime, ristabilito il potere dei Taliban in Afghanistan, e stabilito ulteriori basi militari Usa.

Mi fermo qui. Ed anche noi da quel momento abbiamo visto la ferita delle nostre democrazie. Riusciremo a far svolgere all’Onu il compito affidatogli dopo la seconda guerra mondiale? Dovremo rilanciare la campagna per l’eliminazione del veto, imposto dai paesi vincitori!

Quando il Segretario generale dell’Onu, Guterrez, parla da Rafah di fronte ai camion di beni di prima necessità per Gaza, bloccati per i bombardamenti israeliani, viene deriso da giornalisti e opinionisti, che mostrano solo la loro ignoranza dei fatti e i loro pregiudizi. Perché afferma la verità: “È importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione, hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le loro case demolite. Le speranze di una soluzione politica alla loro situazione sono svanite. Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas. E questi terribili attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese”.

L’ambasciatore israeliano all’Onu tuona chiedendo le dimissioni di Guterrez. Non è la prima volta, in altri interventi ha stracciato le risoluzioni Onu che chiedevano il rispetto dei diritti umani e il blocco della costruzione degli insediamenti coloniali. Ma Israele è impunita e sa che lo sarà ancora utilizzando il ricatto dell’antisemitismo e dell’Olocausto. Mentre si accinge a portare a compimento quello che Ben Gurion aveva iniziato, fermandosi: la pulizia etnica della Palestina, iniziata nel ‘48 con la cacciata di più di 750mila palestinesi, e continuata in tutti questi anni con la “deportazione silenziosa”, come l’ha chiamata BetSelem, ora affermata da ministri quali Ben Gvir e Smotrich con il beneplacito di Netanyahu.

A noi è ben chiaro che lo Stato di Israele non rappresenta tutti gli ebrei e invece uccide la cultura ebraica che tanto ha dato e dà all’umanità intera. Basti pensare agli ebrei americani di ‘Jewish voice for peace’, che hanno occupato il parlamento Usa per il cessate il fuoco subito e lo stop agli aiuti Usa ad Israele, ai giovani ebrei italiani del ‘Laboratorio antirazzista’ che chiedono la fine dell’occupazione e dell’apartheid, e soprattutto ai giovani refusnik israeliani, che vanno in carcere e si rifiutano di servire in un esercito invasore, agli attivisti che agiscono insieme ai palestinesi per difenderli dagli attacchi dei coloni, che, pur tramortiti dall’attacco di Hamas, continuano ad andare alla radice del problema: la colonizzazione, l’occupazione e l’apartheid praticata da Israele nei confronti della popolazione palestinese.

Ora l’urgenza è cessare il fuoco, portare gli aiuti umanitari, dare i visti a chi vuole uscire, impedire che i palestinesi vengano cacciati nel deserto del Sinai, liberare gli ostaggi così come richiesto dalle famiglie israeliane, con uno scambio di prigionieri (più di 10mila i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, tra cui 370 minori e 1.200 in detenzione amministrativa). Ma Netanyahu bombarda anche gli ostaggi.

Vediamo Gaza morire momento dopo momento, rasi al suolo interi quartieri, i bambini estratti dalle macerie con gli occhi sbarrati e il corpo tremante, gli ospedali senza più medicinali, i bambini e gli uomini e le donne amputati o operati senza anestesia nei cortili degli ospedali. Anche nella Cisgiordania dal 7 ottobre i palestinesi sono chiusi nei villaggi e città senza potersi muovere, con la paura costante delle evacuazioni forzate, arresti di minori, case demolite, pogrom di coloni messianici che occupano le terre e attaccano villaggi e sparano, protetti dall’esercito. Anche in Israele non c’è sicurezza per i palestinesi. Alla Knesset è in discussione una legge che prevede, oltre il carcere, l’espulsione dal paese e la sottrazione della cittadinanza nel caso di post sui social che solidarizzano con Gaza o la Cisgiordania.

Il diritto internazionale è calpestato non solo da Israele, ma da tutte le istituzioni internazionali. La Corte Penale Internazionale dovrebbe agire urgentemente ed arrestare Netanyahu e i suoi generali. Ma dovrebbe anche indagare sulle responsabilità di Biden e dei leader europei, in primis von der Leyen, per complicità con Israele. 

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