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GOVERNO. Terminato sostanzialmente a vuoto il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva, il governo annuncia adesso che il decreto sicurezza arriverà a settembre. Confermando però l’intenzione di varare misure […]

 Migranti sbarcano dall'Ocean Viking al porto di Napoli - Ansa

Terminato sostanzialmente a vuoto il primo Consiglio dei ministri dopo la pausa estiva, il governo annuncia adesso che il decreto sicurezza arriverà a settembre. Confermando però l’intenzione di varare misure di stampo esclusivamente repressivo che già in passato hanno dimostrato un totale fallimento. Gli annunci sembrano mirati ad esigenze elettorali ed al riaggiustamento dei rapporti di forza all’interno del governo, piuttosto che alla soluzione di problemi che vengono definiti «epocali».

La proliferazione dei centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) in ogni regione, di fatto con un raddoppio dei posti disponibili (oggi meno di 1.200), e ulteriori strutture di detenzione amministrativa per le procedure accelerate in frontiera, da riservare ai richiedenti asilo che provengono da paesi terzi ritenuti sicuri, come la sezione detentiva del nuovo hotspot di Pozzallo-Modica, che dovrebbe aprire il primo settembre, come la stretta sulle procedure di rimpatrio e sui criteri per l’accertamento dell’età dei minori non accompagnati, con una modifica di quanto previsto dalla legge Zampa del 2017, sono tutte misure che, al di là dei gravi problemi di legittimità costituzionale e di conformità con la normativa europea ed internazionale, sono destinate, non solo a «deludere sul piano dell’efficacia», come sostiene una parte dell’opposizione, ma a produrre in pochi mesi una emergenza umanitaria senza precedenti.

SULLA PELLE delle persone più deboli che comunque arriveranno sulle nostre coste, e comunque resteranno nel nostro paese, in condizioni di assoluta incertezza, anche se si può dare come scontato un leggero calo delle partenze dalla Libia e dalla Tunisia per il peggioramento delle condizioni atmosferiche in autunno. Calo che però potrebbe essere compensato da un aumento dei migranti, forzati a lasciare quei due paesi, per una nuova deflagrazione militare della crisi libica, e per l’inasprimento della persecuzione nei confronti dei migranti subsahariani, da parte della Tunisia di Saied, principale partner della politica estera e migratoria italiana in nordafrica. Con i risultati che stiamo vedendo in questi giorni a Lampedusa, a Porto Empedocle ed in tanti centri di prima accoglienza in Italia. E con gli effetti a catena in Libia, ancora spezzata in due tra il governo «provvisorio» di Dbeibah a Tripoli, ed il Parlamento di Tobruk sostenuto dal generale Haftar a Bengasi.

INTANTO la legittimazione internazionale strappata da Dbeibah con la firma del Memorandum d’intesa Ue-Tunisia, fortemente voluto da Meloni, è servita per rigettare nel deserto al confine con la Libia centinaia di persone rastrellate nelle aree urbane della Tunisia sud-orientale (soprattutto a Sfax). E proprio da quei territori si sono moltiplicate le partenze verso l’Italia, a cui ha fatto seguito il congestionamento totale dell’hotspot di Contrada Imbriacola a Lampedusa. Altra crisi umanitaria innescata dal governo Meloni, e dal ministro dell’interno Piantedosi, perché allontanando con l’assegnazione di «porti vessatori» e con «fermi amministrativi» le navi del soccorso civile che potevano sbarcare i naufraghi soccorsi in acque internazionali in diversi porti di destinazione in Sicilia e Calabria, se non con trasbordi su unità della Guardia costiera italiana, è saltata qualsiasi possibilità di programmare gli sbarchi, dopo i salvataggi in mare, ed i trasferimenti via terra, come si verificava nel 2017, prima del Memorandum Gentiloni con la Libia, e prima del Codice di condotta per le Ong imposto da Minniti. Ormai, su oltre 76.000 persone sbarcate quest’anno, soltanto poco più di 4.700 persone sono state recuperate da navi del soccorso civile. Nel 2016, a fronte di oltre 178.000 persone soccorse in mare, le navi delle Ong ne avevano salvate direttamente 46.796, secondo i dati uficiali della Guardia costiera, adesso oscurati. Il cosidetto pull factor, fattore di attrazione operato dal soccorso civile, su cui hanno costruito campagne elettorali e processi penali non è mai esistito. Lo hanno accertato anche i giudici, lo confermano i fatti.

La maggior parte degli «sbarchi» sono ormai «autonomi», magari con l’assistenza a distanza di unità della Guardia costiera o della Guardia di finanza in acque internazionali, e poi con veri e propri interventi di salvataggio nelle acque Sar di competenza italiana. Mentre continua la sostanziale delega alla sedicente guardia costiera libica quando le chiamate di soccorso arrivano dalla zona Sar assegnata al governo di Tripoli. Rimane il grande buco nero della zona Sar maltese, nella quale La Valletta non invia mezzi di soccorso, e possono arrivare anche i libici a sparare sulle navi delle Ong. Ma tutto questo viene ignorato da chi sventola come unica soluzione un nuovo Decreto sicurezza.

Vediamo così che mentre una parte dell’opposizione attacca il governo lamentando la scarsa efficacia degli interventi e degli accordi che dovrebbero garantire una riduzione degli arrivi, le scelte del governo non divergono troppo da quelle inaugurate con il secreto Minniti-Orlando del 2016, sul terreno delle procedure di asilo e della detenzione amministrativa, e poi rafforzate con i due decreti sicurezza Salvini che nel 2018 destrutturavano i sistemi di accoglienza, e nel 2019 criminalizzavano i soccorsi umanitari.

NON È FACILE fare proposte, che pure ci sarebbero, con una opposizione tanto divisa e incapace di autocritica, ed un governo che, attraverso la maggioranza assoluta in parlamento riesce a fare passare norme in aperto contrasto con la Costituzione e con gli obblighi internazionali. Il ruolo del parlamento è sempre più marginale a vantaggio delle iniziative dei ministri. Ci si lamenta del mancato supporto europeo, ma poi, anche sul piano energetico, si opera secondo una linea politica marcatamente nazionalista, come emerge nei rapporti con la Tunisia e con il governo di Tripoli, fino al disastro diplomatico del recente incontro a Roma, organizzato da Tajani, tra il ministro degli esteri israeliano e la ministra degli esteri del governo Dbeibah, costretta alla fuga in Turchia per gli scontri che ne sono scaturiti in tutta la Libia. Ed anche su questo si comprime il diritto all’informazione.

In ogni caso dovrà ripartire una forte mobilitazione per una regolarizzazione permanente di tutti quanti sono tagliati fuori dalle procedure di ingresso legale per lavoro, per il superamento dei centri di detenzione amministrativa, comunque denominati, per garantire i diritti fondamentali, a partire dai diritti di difesa e dal diritto di chiedere protezione (nelle varie forme di asilo costituzionale) a tutte le persone «comunque presenti» in Italia, dopo il loro ingresso nel territorio nazionale, dunque anche nelle procedure di identificazione e di protezione «in frontiera» come impone anche l’articolo 2 del Testo Unico sull’immigrazione 286/98. E quindi sarà necessaria la sospensione immediata della lista dei paesi terzi ritenuti, spesso a torto, «sicuri» con la revisione di tutti gli accordi di riammissione o di cooperazione di polizia con quei governi che non rispettano effettivamente i diritti umani.

La lotta ai trafficanti si può fare ripristinando davvero la cooperazione giudiziaria, non certo patteggiando con le milizie colluse con i criminali. Non si potranno creare per decreto legge zone franche escluse dal rispetto delle garanzie dello stato di diritto, in Nordafrica, ma anche in Italia. Oggi questo vale per le persone di origine straniera, domani potrebbe valere anche per i cittadini italiani

 

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Incontro segreto in Italia tra i due nemici storici, Israele e Libia. Ma Tel Aviv rivela tutto e fa scoppiare il caos. Tripoli brucia di protesta, Biden è furioso. Il ministro degli esteri Tajani ne esce a pezzi: si è fatto beffare da uno dei suoi migliori alleati e non ha ancora capito la Libia

ISRAELE/LIBIA. La Farnesina responsabile di una fallimentare manovra diplomatica, con lo zampino statunitense. A uscirne danneggiate sono Roma e la Tripoli di Dabaiba, già debolissima

Tajani si fida degli israeliani, media l’incontro segreto e cade nella trappola Il ministro degli esteri italiano Antonio Tajani - Ansa

Come se non bastassero l’indomabile instabilità libica (55 morti in scontri tra fazioni tripoline a cavallo di ferragosto) e la tragica questione dei migranti, il ministro degli esteri italiano Tajani ha favorito la scorsa settimana un incontro segreto a Roma tra il capo della diplomazia israeliana e la ministra libica Mangoush (data per «sospesa» e in «viaggio» verso la Turchia).

Gli israeliani sui media hanno fatto trapelare la notizia ed è scoppiato un putiferio in Libia: sono esplose le proteste popolari – anche manovrate ad arte – e soprattutto l’esecutivo di Daibaba, quello con cui tratta Roma, appare sempre più in difficoltà.

INSOMMA, l’Italia e il suo alleato libico sono caduti in una trappola assolutamente da evitare. Se gli Stati Uniti – che finalmente dopo oltre due anni di assenza hanno inviato un ambasciatore a Roma – intendono allargare il Patto di Abramo tra Israele e i Paesi arabi forse è il caso di lasciarlo fare a loro: a noi non ne viene in tasca nulla (anzi), se non una medaglietta per un governo che discetta di un fantomatico Piano Mattei per l’Africa senza neppure avere i

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EDITORIALE. Il discorso di Rimini di Mattarella conferma la distanza del presidente dall’agenda pratica e simbolica del governo. Conferma d’altro canto anche la sua estrema cura nell’evitare contrapposizioni. Eppure questo equilibrio di sottintesi diventa ogni giorno più precario
Sergio Mattarella al Meeting di Rimini per l’amicizia fra i popoli foto di Francesco Ammendola/Ufficio stampa/LaPresse 

Si può condividere o meno la tesi proposta ieri al meeting di Rimini da Sergio Mattarella e cioè che sono state l’amicizia e l’armonia tra i popoli e tra le classi a far progredire l’umanità e non invece il conflitto. Si può accettare o meno l’idea che il dibattito pubblico sia decaduto al punto che un presidente della Repubblica debba replicare alle trivialità di un generale ansioso di fama. Ma certamente il discorso del capo dello stato fischia la fine della ricreazione estiva. I problemi della politica sono tutti sul tavolo e la ripresa è dietro l’angolo.

Al termine di un’estate in cui gli esponenti del governo e della maggioranza – a dispetto di un ostentato desiderio di relax – hanno sperimentato nuove crudeltà sui migranti, confermato l’allergia all’antifascismo e coniugato in parole e opere il verbo di una politica antisociale e in definitiva nemica dei poveri, il presidente della Repubblica rovescia il quadro. Proietta un altro film i cui fotogrammi fondamentali sono le parole chiave del suo discorso: ricchezza delle diversità, no ai muri, solidarietà, antifascismo e Costituzione. La contrapposizione non potrebbe essere più netta. Non c’è (ancora) polemica diretta, perché il capo dello stato ha come stella polare la tutela della sua funzione e del suo ruolo. E perché a ogni strappo che questa destra produce sulla tela repubblicana regge ancora il gioco del silenzio, da parte della presidente del Consiglio, e delle mezze smentite riparatrici, da parte della sua cerchia. Ma fino a quando?

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La coabitazione, perché di questo si tratta, tra un presidente della Repubblica guardiano della Costituzione e una maggioranza a-costituzionale – con la frequente tentazione di scivolare nell’anticostituzionale – si è fin qui nutrita soprattutto di segni. Trattenendo oltre ogni ragionevole limite il disegno di legge sulla giustizia e chiamando al Quirinale i vertici della Cassazione, Mattarella ha segnalato in silenzio la sua distanza dalle scelte del governo. Ricevendo i presidenti di senato e camera ha sottolineato la sua insoddisfazione per il ripetersi di decreti e maxiemendamenti, malgrado i suoi precedenti richiami.

Stressando la matrice neofascista della strage di Bologna, il Quirinale ha coperto l’afonia di palazzo Chigi. Parlando della necessità di canali di ingresso legali nel nostro paese e ricordando il dovere costituzionale dell’accoglienza, il presidente ha proposto un regolare controcanto a ogni più truce uscita di leghisti e meloniani. Potremmo continuare.

Lo stile di questo presidente della Repubblica – che ha davanti a sé un mandato ancora lungo, più di quello (teorico) del governo – è consolidato. Non prevede interferenze nell’azione del potere esecutivo. Punta invece sulla moral suasion, accompagnata quando serve da gesti e discorsi pubblici molto chiari accolti (come ieri) dal silenzio della maggioranza. Ormai, però, il presidente deve sempre più spesso intervenire per queste pubbliche correzioni di rotta. E non potrà che continuare, perché le difficoltà del governo sul terreno concreto dell’economia sposteranno inevitabilmente capi e sottocapi della destra sul terreno simbolico delle battaglie identitarie sui diritti e sui valori, precisamente quello che il capo dello stato presidia con più attenzione. Ancora, a metà ormai tra il concreto e il simbolico sta il tema della riforma costituzionale, utile com’è ai governanti anche per parlar d’altro. Al Quirinale sanno benissimo quanto la sgangherata ipotesi di premierato elettivo che la destra mette in campo sia minacciosa delle prerogative del presidente della Repubblica, quanto e più del tramontato presidenzialismo.

Nella versione italiana della coabitazione, non è il capo dello stato, come in Francia, la figura investita dal mandato popolare. Il discorso di Rimini di Mattarella conferma la distanza del presidente dall’agenda pratica e simbolica del governo. Conferma d’altro canto anche la sua estrema cura nell’evitare contrapposizioni. Eppure questo equilibrio di sottintesi diventa ogni giorno più precario

 
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BRUNO TRENTIN. Va ricordato per il ruolo nella Fiom, nella Cgil, nel Pci-Pds- Ds e per l’attualità delle sue riflessioni. Anzitutto il suo impegno a misurarsi con l’innovazione tecnologica ed organizzativa per le conseguenze che ha sulla condizione di chi lavora, reinventando su basi nuove la costruzione di una autonomia dei “produttori”, per liberare il lavoro dalla frantumazione ripetitiva che lo rende debole, subalterno
Con lui il sindacato scoprì la crisi della politica Bruno Trentin

Bruno Trentin ci ha lasciato in questo giorno di agosto, 16 anni fa. Va ricordato per il ruolo nella Fiom, nella Cgil, nel Pci-Pds- Ds e per l’attualità delle sue riflessioni. Anzitutto il suo impegno a misurarsi con l’innovazione tecnologica ed organizzativa per le conseguenze che ha sulla condizione di chi lavora, reinventando su basi nuove la costruzione di una autonomia dei “produttori”, per liberare il lavoro dalla frantumazione ripetitiva che lo rende debole, subalterno.

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Le innovazioni ispirate da Trentin a partire dal convegno del Gramsci sul capitalismo nel 1962 furono molte, dalle 150 ore per la fondamentale riappropriazione culturale e professionale dei lavoratori alla riaggregazione delle funzioni lavorative per superarne la parcellizzazione, fino alla riforma del lavoro pubblico per ridargli senso e ruolo nella società. Innovazioni per una risposta non subalterna, man mano che la qualità del lavoro diventava strategica per la competitività. Oggi c’è un altro salto nelle innovazioni tecnologiche ed organizzative. I “sacerdoti” delle innovazioni prefigurano un futuro etero diretto dall’intelligenza artificiale in cui ci sarà meno lavoro umano. In realtà il nocciolo è la ulteriore restrizione del potere decisionale, in una rarefatta lontananza, come ci ricordano gli algoritmi che dilagano in diverse funzioni e campi, con la costante dell’imposizione nella vita e nel lavoro.

E’ una balla che non sia possibile arrivare alla comprensione di ciò che l’algoritmo descrive e ad una sua rideterminazione, ma la sfida è lacerarne il manto di imperscrutabilità che vuole far passare la subalternità e la passività per oggettive, inevitabili. Trentin non ha potuto misurarsi con la sfida dell’intelligenza artificiale, ma la sua riflessione, il suo metodo ci aiutano a trovare il sentiero dell’autonomia per chi lavora e a contrastare gli elementi di autoritarismo e di presunta inevitabilità, per affermare il principio che chi lavora è un cittadino con pieni diritti, in coerenza con la Costituzione.

Trentin è stato segretario della Cgil in una fase tormentata. Nel 1992 governo Amato e classi dirigenti puntarono a slegare il recupero dell’inflazione, già alta, da quella importata, programmando la riduzione del potere d’acquisto delle retribuzioni, in vista di una svalutazione. Anche oggi il governo mette in conto la riduzione delle retribuzioni e delle pensioni (anche dei risparmi) a fronte di una guerra le cui conseguenze stanno frantumando il mondo in nuovi blocchi, generano inflazione spingendo in secondo piano la transizione ecologica che non è più obiettivo centrale per le resistenze di settori delle imprese e di interessi (fossili e armamenti) che non vogliono cambiare questo modello di sviluppo per contrastare la catastrofe climatica. Invece è vitale invertire la corsa agli armamenti, alla guerra, che comporta il rischio dell’olocausto nucleare. Le soluzioni richiederebbero anche oggi un programma che fu lo scatto di reni di Trentin per superare la crisi del sindacato, rifondandolo, oltre le appartenenze partitiche che ne erano state elemento costitutivo e poi ne hanno segnato il declino.

La risposta alla crisi fu il sindacato di programma, oltre le certezze passate, scommettendo sulla capacità dei lavoratori di scegliere il sindacato per il progetto di società, non solo per le singole scelte rivendicative. Intuizione che ha avuto un valore rifondante per il sindacato, con l’ambizione di costruirne un ruolo chiave nel cambiamento dell’economia, della società, della vita stessa, ben oltre la sommatoria delle rivendicazioni. (…) Non accontentandosi di un angolo riparato ma con l’ansia di costruire un futuro per il lavoro dentro una società migliore, in cui i singoli vedano riconosciuti diritti e insieme esercitino un ruolo dirigente. Il fascino di Trentin era nel non dare nulla per scontato, un pensiero mobile per correggere certezze obsolete, fino a trarre conseguenze radicali quando il rapporto di fiducia con i lavoratori entrava in crisi.

Le dimissioni del 1992 dopo avere firmato l’accordo (che aveva cercato di evitare) con il governo vennero ritirate a fronte di una richiesta crescente nella Cgil di ripensarci per provare a risalire la china tutti insieme. Il ritiro delle dimissioni era legato al superamento delle correnti di partito e al sindacato di programma, aprendo così la strada ad un nuovo accordo l’anno dopo con Ciampi, in parte riparatore del 92. Nel 94 lasciò la segreteria della Cgil. Dal parlamento europeo (l’Europa era punto fermo) e dall’ufficio di programma Pds/Ds continuò l’impegno per rifondare il partito, la sinistra, la politica. Il sindacato aveva solo fatto i conti per primo con la crisi della politica

 
 
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DISARMO. Nelle sale italiane il film sullo scienziato. La speranza è che stimoli a riflettere sul grave pericolo esistenziale che l’arsenale atomico globale rappresenta ancora per tutti noi

Oppenheimer, oggi va raccontata la fine dell’arma nucleare J. Robert Oppenheimer nel suo studio di Princeton nel 1957\Ap

Il film sulla figura di Oppenheimer, coordinatore scientifico del Progetto Manhattan, può essere una buona occasione per continuare a riflettere sul pericolo ancora oggi rappresentato dalle armi nucleari. Una consapevolezza riemersa dopo decenni di sottovalutazione (nei quali solo le organizzazioni della società civile hanno continuato a sottolineare la necessità di arrivare a un disarmo completo) a seguito dell’uso latentemente “ricattatorio” che Putin ne fa nel contesto della guerra in Ucraina.

Ben venga quindi aprire una finestra sul percorso che ha portato all’utilizzo come arma delle forze nascoste negli atomi (e poi nei nucleari), progetto inedito per complessità e dimensioni e di certo guidato da ingegni eccezionali. Senza però cadere in due errori che potrebbero essere gravi: pensare che tutto questo, e ciò che ne è seguito per decenni, sia da ascrivere solo a personalità straordinarie mentre invece è il frutto di un processo allargato su vari livelli, che riecheggia davvero quella “banalità del male” troppo spesso dimenticata.

E, soprattutto, dimenticare la questione più grave e concreta: gli impatti sulle persone, non solo in Giappone ma anche in tutti quei luoghi in cui sono stati condotti i circa 2.000 test nucleari dal 1945 in poi.

IN PRATICA occorre evitare di farsi trascinare nei soli incubi personali del fisico protagonista di questa biografia per immagini: il vero delirio è stato (e continua ad essere) collettivo. Tanto più che Oppenheimer, tormentato per anni da visioni di funghi atomici su città e ondate di radiazioni distruttive come conseguenza della potenza che il suo lavoro stava scatenando come moderno vaso di Pandora, non poteva nemmeno avere la consapevolezza degli scenari ancora peggiori che gli studiosi hanno potuto elaborare successivamente.

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Oggi infatti sappiamo che una singola guerra nucleare, anche una combattuta con sole poche decine di testate, potrebbe mandare la Terra in uno stato apocalittico chiamato inverno nucleare (un raffreddamento anche di 15 gradi indotto da un inquinamento così forte da bloccare i raggi solari) con miliardi di persone che morirebbero di fame. Senza dimenticare che buio, freddo e radiazioni nucleari distruggerebbero gran parte della vita animale e vegetale della Terra.

Gli analisti ritengono che una guerra nucleare tra Stati uniti e Russia potrebbe far morire di fame cinque miliardi di persone, cioè un numero di vittime più di dieci volte superiore a quelle che morirebbero per gli effetti diretti delle bombe lanciate. Una guerra nucleare di minore entità tra India e Pakistan porterebbe invece a una scenario con circa due miliardi di morti.

Oltre il ricordo di una storia di certo spartiacque nella storia umana, il film di Christopher Nolan avrà una reale utilità culturale solo se porterà gli spettatori a domandarsi perché nel XXI secolo esistano ancora armi nucleari, come potrebbero essere usate e le motivazioni di chi continua a volerle. Rigettando ogni deriva di “fascinazione” per la grande impresa tecnologica realizzata che un racconto così epico potrebbe invece generare.

La genialità scientifica è infatti inevitabilmente accompagnata da fallimenti e fragilità umane. E le scelte di molte persone se corrotte da ego, potere e ambizione, possono plasmare la storia portandola quasi alla folle autodistruzione. Senza però dimenticare che il Gadget – soprannome della prima bomba fatta esplodere nel luglio del 1945 durante il Trinity Test – e tutti gli ordigni a esso successivi sono strumenti costruiti dall’umanità che possono (devono!) essere smantellati dall’umanità.

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LA SPERANZA è che anche questo film stimoli molti a riflettere sul grave pericolo esistenziale che l’arsenale nucleare globale rappresenta per tutti noi, ancora oggi. Rendendosi conto che un qualsiasi uso di armi nucleari (anche se presentato come razionale, o derivante dalla falsa teoria della deterrenza) sarebbe una catastrofe senza limiti per la quale non sarebbe possibile alcuna gestione emergenziale.

E in questo l’opera di Nolan commette un grave errore: concentrandosi così intensamente sul dramma di una persona riduce ad aspetto secondario gli effetti reali della devastazione nucleare su esseri umani in carne e ossa, sui loro cari, sulle loro case, città, terre, acque e clima. Che invece sono fondamentali.

Mancano all’appello l’esproprio delle famiglie locali e delle popolazioni indigene a Los Alamos, la mancanza di misure di protezione per le popolazioni sottovento al fallout del Trinity Test (che oggi sappiamo aver coperto quasi tutti gli Stati uniti arrivando fino al Canada e al Messico) che ha causato per decenni malattie legate alle radiazioni e persino la morte di due scienziati del Progetto Manhattan.

E ovviamente l’incenerimento degli abitanti di Hiroshima e Nagasaki con bombe lanciate espressamente per causare il massimo numero di vittime umane: due armi nucleari di dimensioni tattiche relativamente piccole per gli standard odierni) capaci di uccidere 230mila persone. Nessuna considerazione sulle armi nucleari dovrebbe essere separata da ciò che tali armi effettivamente provocano.

Perché invece le elucubrazioni del potere sui temi legati allo sviluppo di armamenti cercano sempre di massimizzare i “vantaggi” politici e strategici (spesso più teorici che reali) eliminando dall’equazione le persone e i popoli.

Lo dimostra la stessa storia del Progetto Manhattan, la cui motivazione di base derivava dal timore che la Germania nazista fosse in vantaggio nello sviluppo della bomba atomica e che, se fosse arrivata prima, non avrebbe esitato a usarla con effetti terrificanti. Ma già alla fine del 1944 era diventato chiaro come il programma tedesco fosse in fase di stallo per nulla vicino ad ottenere un ordigno funzionante.

Perché a quel punto il progetto statunitense non fu abbandonato? Perché ormai l’investimento politico, finanziario e scientifico che vi era stato riversato aveva acquisito uno slancio tale da farlo proseguire a pieno ritmo in una maniera ormai inarrestabile. Solo uno degli scienziati coinvolti, Joseph Rotblat, in seguito insignito del Premio Nobel per la pace per i suoi sforzi a favore del disarmo, ebbe l’integrità e il coraggio morale di abbandonare il Programma quando le ragioni per cui era stato istituito, e per cui lui stesso vi si era associato, svanirono.

L’USO della bomba contro il Giappone non faceva parte di tali ragioni originarie e già nel 1944 l’obiettivo politico principale del programma era diventato quello di massimizzare l’influenza e il potere postbellico degli Stati uniti d’America contro l’Unione sovietica.

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Addirittura fino al primo test nucleare Trinity del 16 luglio 1945 vi era incertezza scientifica sulla possibilità che l’esplosione potesse incendiare l’atmosfera terrestre e porre fine alla vita sulla Terra (fino all’ultimo momento lo stesso Enrico Fermi aveva raccolto scommesse a riguardo…): anche se l’evidenza scientifica lo considerava molto improbabile, il fatto che il test sia stato condotto nonostante non si potesse escludere una possibilità così devastante è profondamente inquietante. E significativo: come si è potuto decidere di correre un rischio così terribile?

Dopo il bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, Oppenheimer e molti altri scienziati del Progetto Manhattan erano profondamente preoccupati per le implicazioni del frutto del loro lavoro sul futuro dell’umanità: “L’atomo lacerato, non controllato, può essere solo una minaccia crescente per tutti noi”, scrisse profondamente convinto che l’accesso alla bomba atomica si sarebbe inevitabilmente allargato in assenza di un controllo internazionale.

Non a caso in una conferenza stampa del marzo 1963 l’allora presidente degli Stati uniti John F. Kennedy disse chiaramente: “Vedo la possibilità che negli anni Settanta il presidente degli Stati uniti debba affrontare un mondo in cui 15 o 20 o 25 nazioni possano avere armi nucleari. Lo considero il più grande pericolo e rischio possibile”. Tra questi c’era anche l’Italia, con il proprio programma nucleare militare implementato vicino a Pisa.

UNA STRADA ben diversa, e ancora oggi pericolosa, da quanto scritto invece nel 1948 da Robert Oppenheimer: “Se la bomba atomica doveva avere un significato nel mondo contemporaneo, doveva essere quello di dimostrare che non l’uomo moderno o i suoi eserciti, ma la guerra stessa era obsoleta. Cosa si può fare con questo terribile sviluppo per renderlo uno strumento per la conservazione della pace?”.

Per decenni non si è fatto nulla ma ora non c’è più tempo da perdere: le armi nucleari sono “kamikaze globali” che potrebbero colpire tutti. Sono state create in maniera collettiva, perciò anche la loro totale eliminazione dalla storia dovrà nascere da uno sforzo allargato, in cui tutti (persone, comunità, istituzioni) sono chiamati a dare il proprio contributo.

*Francesco Vignarca, Coordinatore Campagne Rete Pace Disarmo e autore del libro “Disarmo nucleare”

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COMMENTI. L’Italia sta naufragando in Libia per la terza volta in poco più di un decennio

Il Primo Ministro del Governo di Unità Nazionale libico, Abdel Hamid al-Dabaiba e l'amministrato delegato dell'Eni Claudio Descalzi 

Altro che piano Mattei per l’Africa. L’Italia sta naufragando in Libia per la terza volta in poco più di un decennio. La prima fu quando nel 2011 venne abbattuto – con Francia, Gran Bretagna, Usa, Nato e la nostra attiva partecipazione militare – il regime di Gheddafi che solo mesi prima accoglievamo a Roma come un trionfatore.

La seconda avvenne nel 2019: il governo di Sarraj, insediato proprio con l’aiuto italiano – sempre interessato al controllo dei migranti – , fu abbandonato al suo destino già incerto, pur essendo riconosciuto dall’Onu, contro l’avanzata del generale di Bengasi Khalifa Haftar, alleato di Mosca, dell’Egitto, degli Emirati e corteggiato anche da Parigi. Sarraj fu “salvato” dall’intervento militare della Turchia di Erdogan.

La terza volta sta succedendo in questi giorni in maniera forse meno eclatante ma sicuramente alquanto ignorata: a cavallo di ferragosto due potenti fazioni di Tripoli si sono affrontate con circa una sessantina di morti. Una lotta intestina, con la partecipazione importante dei salafiti, che fa apparire assai fragile il governo di Daibaba con cui Meloni e company stringono accordi labili che contrabbandano agli italiani come pietre miliari dell’agire del governo. La realtà è ben diversa. Pur essendo l’Italia presente sul territorio libico con la sua intelligence, ben poco può fare – soprattutto da sola – con gli attori protagonisti della vicenda. In primo luogo la Turchia che in Tripolitania vuole dare ulteriore consistenza ai suoi disegni di potenza neo-ottomana e mediterranea e si propone persino di dare vita a un esercito libico unificato. I suoi piani si scontrano – ma in qualche caso anche si incontrano – con quelli della Russia, che oltre alla presenza della Wagner in Cirenaica, è disposta a negoziare con Ankara e con il Cairo.

Putin si prepara a incontrare Erdogan per la questione Ucraina e del grano mentre lo stesso reiss turco sta lavorando da mesi a un meeting con il generale-presidente egiziano Al Sisi. I due sono stati divisi dagli sviluppi delle primavere arabe del 2011 quando nel 2013 Al Sisi con il suo colpo di stato fece fuori sanguinosamente i Fratelli Musulmani sostenuti dalla Turchia. In questo quadro libico politico- diplomatico che vede anche la riunione dei Paesi Brics – sempre più lanciati a sganciarsi da quella che considerano come egemonia occidentale e del dollaro – l’Italia e l’Europa non toccano palla. E come loro gli Usa e l’Onu. Visto che proprio ieri il capo del Consiglio presidenziale, Mohammed Menfi, il presidente della Camera dei rappresentanti, Aqila Saleh, e il generale dell’Est Khalifa Haftar hanno annunciato che non parteciperanno a nessun comitato legato alla situazione politica, ad eccezione di quelli aderenti al quadro nazionale interno; un chiaro rifiuto di partecipare a un dialogo che potrebbe essere proposto dalla Missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil). Sono circa due anni che l’Onu e gli europei tentato invano di fare andare i libici alle urne.

Insomma uno schiaffo al Palazzo di Vetro e alla comunità internazionale “occidentale” che vengono giudicati sia a Ovest in Tripolitania che a Est in Cirenaica come degli intrusi. Cosa significa tutto questo? Non che la Russia, la Turchia o l’Egitto abbiano in Africa tutto questo successo. Anche loro devono avere a che fare con i sommovimenti di un continente dove sono in atto guerre, come in Sudan, rivolte jihadiste (Mali, Burkina), golpe e crisi economiche spaventose, dalla Tunisia al Sahel. Significa però che qui degli interventi occidentali non ne vogliono più sapere.

Si è visto recentemente in Niger dove alcune migliaia di soldati occidentali sono accucciati all’aereoporto di Niamey, consapevoli che c’è il rischio che alzando un dito potrebbe finire come a Kabul nel 2021.

Del resto come dare torto agli africani e ai leader della regione tra Medio Oriente e Nordafrica che hanno subito per vent’anni i disastri provocati dagli occidentali, dall’ Afghanistan all’Iraq alla Libia. Con i risultati che sappiamo tutti e una consapevolezza comune nel Sud del mondo: che gli Usa con il loro corteo di docili alleati lavorano più per la destabilizzazione che per la stabilità. Una stabilità che non ci può né ci deve piacere perché fatta di autocrati, democrazie calpestate e repressione: ma allo stesso tempo dovremmo anche smettere di volere imporre agli altri dei modelli al prezzo pesantissimo di morti, carestie e tanti, tanti profughi.

I risultati sono stati in questi anni peggiori dei mali che volevamo combattere. Un interlocutore di Tripoli è esplicito: «Voi europei siete arenati in una visione assai distante da questi territori». Vorrei replicare, come ho fatto, che questo non accade da oggi ma che è un a tendenza in atto da molti anni, il frutto avvelenato di una propaganda e di una narrativa distorta che voleva fare dell’Afghanistan, dell’Iraq o della Libia dei modelli poi respinti dalla realtà dei fatti e dal sentire dei popoli. Ma qui, come si usa dire, non c’è peggiore sordo di chi non vuole sentire

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