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CRISI UCRAINA. Sul caso dei reporter italiani Bosco e Sceresini bloccati a Kiev si muovono l’Ordine dei giornalisti, il sindacato, Articolo 21. I grandi media invece non ne parlano. C’è un ordine?

 

Una triste coltre di silenzio avvolge la vicenda dei giornalisti italiani cui è stato impedito di entrare in Ucraina o è stato revocato l’accredito per poter svolgere la propria attività professionale. Vi è l’ordine di non parlarne?

Ne ha parlato – invece – in una diretta online ieri mattina l’associazione Articolo21, in collegamento con uno dei cronisti, Salvatore Garzillo, l’avvocata Ballerini che segue il caso, il presidente dell’ordine dei giornalisti Carlo Bartoli, nonché i nuovi presidente e segretaria della Federazione nazionale della stampa Vittorio Di Trapani e Alessandra Costante.

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«Auspichiamo un’azione forte del governo italiano per garantire ai colleghi la possibilità di lavorare e soprattutto per evitare loro i possibili rischi cui potrebbero essere sottoposti. Una situazione che non ci fa stare tranquilli», ha affermato Bartoli, impegnato fin dall’inizio della crisi a cercare una soluzione. E, per incalzare gli interlocutori, Di Trapani: «Stiamo seguendo

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Lo stop alla vendita di nuovi veicoli diesel e benzina dal 2035 è una grande sfida e un'opportunità che le industrie europee possono cogliere e cavalcare. Le reazioni e le prospettive dopo il voto del Parlamento Ue.

 

In Europa ci sono stati due scossoni contro i veicoli diesel e benzina: il primo è che dal 2035 si potranno vendere solo nuove automobili e nuovi furgoni a zero emissioni di CO2, grazie al voto definitivo del Parlamento Ue in plenaria.

Il secondo scossone è la proposta di regolamento della Commissione Ue (ora in consultazione fino al 14 aprile) per tagliare le emissioni dei camion.

Le reazioni del governo italiano sono state molto critiche, per usare un eufemismo.

La ciliegina sulla torta dei “no” alle nuove norme europee è arrivata dal ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, Matteo Salvini, che in Senato ha parlato di “integralismo ideologico del solo elettrico” e di “un suicidio nonché un regalo alla Cina“.

Mentre i suoi colleghi, tra cui Gilberto Pichetto Fratin (Ambiente e sicurezza energetica) e Adolfo Urso (Industria e Made in Italy), hanno ribadito la ricetta che fu già del Governo Draghi: puntare tutto sulla mobilità elettrica è un errore, serve più gradualità, occorre garantire il principio della neutralità tecnologica dando spazio anche a biocarburantiidrogeno, combustibili sintetici a basse emissioni di CO2 (e-fuel).

Ma la mobilità elettrica, di per sé, non è un regalo alla Cina. Lo diventerà se le imprese italiane ed europee ritarderanno progetti e investimenti nelle nuove filiere tecnologiche, arroccandosi sullo status quo; se non vedranno nella transizione verso le auto elettriche una opportunità da cogliere.

Intanto, le case automobilistiche hanno affermato che sarebbe molto complicato rispettare i nuovi obblighi imposti dalla Ue, con particolare riferimento alla riduzione delle emissioni dei mezzi pesanti.

Per Anfia (Associazione nazionale filiera industria automobilistica) “è molto difficile, se non impossibile, sviluppare in così pochi anni – appena 7 in riferimento all’obiettivo del 2030 – soluzioni tecnologiche in grado di dimezzare le emissioni di CO2 degli autocarri“.

I costruttori quindi chiedono traguardi meno stringenti e porte aperte a tutte le tecnologie.

Su un punto hanno ragione: non basta definire obiettivi per il 100% elettrico, ma bisogna anche sviluppare tutto il necessario “contorno”, cioè le le condizioni abilitanti per la mobilità elettrica. Quindi: infrastrutture di ricarica, incentivi all’acquisto, maggiore produzione di energia da fonti rinnovabili.

In Italia, evidenzia un recente rapporto di Motus-E, associazione che promuove i trasporti elettrici, la rete delle colonnine per i veicoli plug-in sta crescendo rapidamente, anche se restano dei ritardi soprattutto sulle autostrade e per le colonnine ad alta potenza.

Nel 2022 si sono installati oltre 10mila nuovi punti di ricarica a uso pubblico nel nostro Paese, tanto che ora abbiamo più punti di ricarica, in rapporto ai veicoli a batteria circolanti, rispetto a Francia, Germania e Gran Bretagna.

Il problema è che il mercato delle auto elettriche sta andando a rilento. Nel 2022 le vendite sono scese a poco più di 49mila contro le 67mila del 2021, in calo del 27% con una quota di mercato complessiva del 3,7% (4,6% nel 2021).

gennaio 2023 conferma la tendenza al ribasso: si sono immatricolate poco più di 3.300 vetture full-electric, -8,7% in confronto allo stesso mese del 2022, con una quota di mercato sotto il 3% (dati Motus-E).

Così “continuiamo a essere un’anomalia tra i big d’Europa”, ha commentato Francesco Naso, segretario generale di Motus-E. Nel 2022, ad esempio, la Germania ha visto crescere le vendite di auto elettriche del 32% (più di 471mila unità), mentre la Spagna ha registrato un +30% e la Francia un +25%. In Germania la quota delle elettriche sul totale venduto è salita al 18% circa.

La controtendenza italiana si spiega, almeno in parte, con la mancanza di più forti incentivi per acquistare le vetture a batteria. Il nostro Paese anzi continua a incentivare pure gli acquisti di modelli ibridi e di auto con motori endotermici, nella fascia 61-135 grammi di CO2/km, anziché concentrare i bonus statali sui modelli elettrici.

E dalla politica sono sempre arrivati segnali contradditori.

Dietro il paravento della neutralità tecnologica, già il Governo Draghi e ora il Governo Meloni hanno dato spazio ai timori delle filiere industriali, preoccupate di perdere competitività, competenze manifatturiere e posti di lavoro a causa del boom elettrico.

Al contrario, un recente studio mostra che in Italia i posti di lavoro potrebbero aumentare nel loro complesso, e non diminuire, con il passaggio verso una industria automotive sempre più incentrata sulla trazione elettrica e sulla relativa componentistica.

Il mercato italiano rischia però di diventare un mercato di serie B, dove finiranno i veicoli diesel e benzina invenduti altrove, restando ai margini dei piani di sviluppo dei costruttori che maggiormente puntano sulle auto elettriche.

Già si delinea una frattura tra mercati che corrono verso il futuro – con in testa i Paesi del nord Europa – e quelli che invece, come l’Italia, stanno alla finestra.

Dire di no alle auto elettriche è certamente più facile, oltre che più conveniente per ottenere consenso politico immediato, che realizzare una nuova politica industriale.

La Cina però è già pronta a conquistare fette cospicue di mercato con i suoi modelli elettrici a basso costo.

Nel 2025, secondo l’organizzazione ambientalista Transport & Environment (TE), i marchi cinesi potrebbero soddisfare fino al 18% della domanda europea di vetture elettriche

In definitiva, se il mercato automobilistico europeo finirà in mano alla concorrenza cinese, dipenderà, in buona parte, da noi, dalla capacità europea e dei singoli governi nazionali di rispondere alle sfide del nuovo corso industriale.

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In un’intervista al quotidiano Avvenire, il segretario generale della Cgil chiede all’Europa un ruolo più centrale per fermare la guerra. Ad un anno dall’invasione russa, si torna in piazza contro le bombe.

"L'Europa ritrovi il suo ruolo: è preoccupante che la Ue pensi solo a quante armi fornire, anziché promuovere negoziati per il cessate il fuoco. Siamo mobilitati; con tantissime associazioni laiche e cattoliche, per cancellare la guerra e costruire una società più giusta”. In una lunga intervista al quotidiano Avvenire, il segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, torna a parlare del conflitto in corso in Ucraina a quasi un anno dall’invasione russa.

Mai stati equidistanti

Landini ribadisce la posizione del suo sindacato: “Mai stati equidistanti, siamo contro chi ha scatenato il conflitto. Ma il modo migliore di stare accanto agli ucraini è sforzarsi per creare le condizioni per cui possano vivere in pace e far crescere il loro Paese”. E spiega le motivazioni dell'adesione alla marcia PerugiAssisi e l'impegno del sindacato assieme al movimento pacifista: “Era l'impegno che avevamo assunto nella manifestazione di piazza San Giovanni: continuare a mobilitarci fin quando non si fosse arrivati a un cessate il fuoco per avviare negoziati di pace. La nostra mobilitazione sta diventando importante: il 24 alla PerugiAssisi e il 25 febbraio a Roma e poi saranno coinvolti in Italia quasi un centinaio di province e territori e anche all'estero si stanno tenendo manifestazioni e iniziative in molte città d'Europa”.

Solo la pace

Per la Cgil l’obiettivo resta uno: “Rendere evidente la necessità di affermare la pace, di superare la guerra e creare le condizioni affinché si crei una società più giusta che non sia fondata sullo sfruttamento delle persone e sull'aumento delle diseguaglianze”. Per Landini la lotta per la pace contro la guerra, mai come oggi, “è

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CRISI UCRAINA. Il capo di stato maggiore dell’esercito statunitense, generale Mark Milley ha ribadito che, a un anno dall’invasione russa, non c’è soluzione militare al conflitto in Ucraina «Generale dietro la collina…»

 E tre. Nell’arco di poco più di tre mesi e per tre volte, il capo di stato maggiore dell’esercito statunitense, generale Mark Milley ha ribadito che, a un anno dall’invasione russa, non c’è soluzione militare al conflitto in Ucraina.

Aveva cominciato a novembre 2022, quando aveva per la prima volta dato i numeri attendibili dei morti «duecentomila, e in egual misura da una parte e dall’altra, russi e ucraini», poi a conclusione del primo vertice di Ramstein il 25 gennaio, e ora in questi giorni lo ha ripetuto in un’intervista al Financial Times. Pragmatico e prudente sull’andamento del conflitto e credibilmente più consapevole della reale situazione sul campo di tanti «esperti» che affollano gli scranni tv partecipando, da lontano, alle battaglie, Mark Milley insiste: «Né l’Ucraina né la Russia sono in grado di vincere la guerra che, invece, può solo concludersi ad un tavolo negoziale», perché «se è praticamente impossibile» che la Russia conquisti l’Ucraina, cosa che «non succederà», resta «pure estremamente difficile che le forze di Kiev riescano a cacciare quelle di Mosca dalle loro terre», e il crollo dell’esercito russo è improbabile, viste le massicce, nuove forze impegnate dal Cremlino per l’attesa offensiva. Della quale si avvertono: terrore dei civili, sferragliare di armi, sorvoli intercettati, sottomarini segnalati, ombre ai confini del «limite noto»: la minaccia nucleare avvertita dalle sconsolate parole del segretario Onu Guterres.

Mentre è arduo sospettare che il comandante in capo delle forze armate Usa sia un «putiniano», ci si chiede: ma chi glielo fa fare al generale Mark Milley di insistere? Credibilmente, almeno per due motivi. Il primo, non scontato, è di

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Il voto in Lazio e in Lombardia rappresenta l’ora zero della sinistra. Ha un senso politico generale, e non può essere derubricato a voto amministrativo. L’astensionismo massiccio, più acuto nell’elettorato di sinistra, e molto marcato nel mondo giovanile, consegna il bollettino di una malattia molto grave della democrazia italiana.

Dopo la sconfitta storica dello scorso 25 settembre, rimossa nelle sue dimensioni, il lunghissimo dibattito interno al Pd, il calcolo a breve di Giuseppe Conte e, d’altra parte, di Carlo Calenda nel pensare di fare razzia nell’elettorato del principale partito di centrosinistra, l’irrilevanza di tutti i piccoli soggetti alla sinistra del Pd, consegnano un quadro drammatico. D’altra parte, pur in un contesto di astensionismo che non risparmia nessuno, la vittoria di Fratelli d’Italia è chiara e netta, malgrado gli errori gravi fatti dal governo nelle settimane passate.

A questo dato elettorale, si accompagnano la passività e la sfiducia dei movimenti -compreso quello sindacale, impegnato in una sua parte, la Cgil, nella campagna congressuale- e delle reazioni della società civile a fronte dell’azione del governo, o dei rischi alle porte di bavagli all’informazione.
Occorre nominare questa situazione, analizzarla e capirne le cause, per riuscire a prendere un’iniziativa forte, persino radicale, che inverta questa tendenza.

A questi fatti generali, si aggiunge una considerazione ulteriore.
Stupisce la forte differenza di risultato tra Milano, e altre città lombarde, e Roma. A Milano la candidatura forte di Pierfrancesco Majorino porta a casa una vittoria significativa, testimonianza di un giudizio sulla qualità amministrativa nella città e sul profilo culturale che il candidato dem ha espresso. Maiorino vince in quasi tutti i capoluoghi lombardi.

A Roma città, invece, D’Amato perde con quasi cinquantamila voti di scarto, e per la prima volta anche nelle zone centrali (così come in tutte le altre città della Regione). E’ palese l’assenza di credibilità fra gli elettori e le elettrici dell’operato del governo regionale uscente, e una forte disaffezione rispetto all’andamento del governo della capitale. Roberto Gualtieri, che è un uomo intelligente, deve prenderne atto ora, prima che sia tardi.

Il Pd romano, che era stato a lungo nel cuore del governo del Pd nazionale in questi anni, che aveva ispirato, con la lucidità di Goffredo Bettini, l’alleanza strategica con il M5S, salvo poi farsi dettare al momento delle scelte la linea da Calenda, ed esprimere un candidato tutto interno alla guida della Regione, esce con le ossa rotte.
La lontananza dal popolo, dai suoi sentimenti e dalle sue necessità materiali si è fatta, per la nomenclatura di tutto il centrosinistra frammentato e dell’opposizione, incolmabile.

Non voglio infierire sul rito congressuale del Pd -che rimane l’unica realtà strutturata in questo campo-. Sarebbero stati necessari un grande confronto di idee e di proposte nuove, e un progetto di rifondazione della politica nella società, e non la stanca riproposizione di primarie che corrispondono ad una fase diversa della società italiana e della politica.

Ma questo è il momento di un colpo d’ala. Chi vincerà le primarie del 26 febbraio dovrà, obtorto collo, aprire il cantiere per federare tutte le aree culturali e sociali che si riconoscono nei valori della Costituzione, a partire da un diffuso tessuto di associazionismo locale, in una nuova forza popolare, che riparta dalla vita e dai sentimenti delle persone, di ispirazione socialista e verde, casa plurale dei cristiani che seguono il messaggio di Francesco, di una cultura antifascista, della proposizione di un conflitto democratico capace di conquistare coloro che non votano, di capirne rabbia e risentimento per trasformarli in lotta e presa di coscienza. Di aprire nuove case del popolo, o della democrazia, di aderire, come si diceva un tempo, alle pieghe della società.

Capi-bastone, correnti, centri di potere, tutto il sistema che ha portato fin qui, devono essere con coraggio messi da parte, per restituire il diritto alla politica ai lavoratori, alle donne, ai giovani. Il lavoro nelle istituzioni è importante, ma quello nella società, totalmente trascurato in questi anni, lo è almeno altrettanto. Non si può dedicarsi alla costruzione di un partito sociale se si è impegnati nel governo di una città, o di una regione.

Il tempo è poco, e il momento per cambiare strada è questo.

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L'INTERVENTO. Parla Alessandro Genovesi, segretario generale di Fillea Cgil, il sindacato degli edili

Superbonus, Ciafani: «Stroncata l’unica politica di intervento sul patrimonio da riqualificare»

Compito del governo dovrebbe essere quello di creare lavoro, non di distruggerlo. Compito del governo dovrebbe essere quello di raggiungere gli obiettivi Onu e Ue per una maggiore sostenibilità ambientale.

Compito del governo dovrebbe essere quello di sostenere la rigenerazione, l’efficienza energetica e la messa in sicurezza contro terremoti e disastri naturali. Compito del governo dovrebbe essere quello di aiutare la crescita qualitativa delle imprese, favorendo investimenti in innovazione, nuovi materiali, nuove professionalità. Compito del governo dovrebbe essere quello di garantire a chi ha di meno lo stesso diritto a vivere in una casa sicura, salubre, con meno sprechi energetici di chi invece ha redditi alti. Compito del governo dovrebbe essere quello di realizzare tutto ciò tutelando salute, sicurezza e diritti di chi lavora.

Il governo Meloni, in un colpo solo (o meglio in due: decreto sulla cessione dei crediti per i bonus edili e nuovo Codice degli appalti) riesce a fare l’opposto di tutto questo. Innanzitutto il blocco della cessione dei crediti e dello sconto in fattura metterà a rischio decine di migliaia di posti di lavoro in essere -si stimano in circa 100 mila i posti di lavoro che verranno distrutti nei prossimi mesi -, rendendo per di più i vari bonus (indipendentemente dalla percentuale, sia il 50% o il 90%) «roba solo per ricchi».

Cioè per chi ha già i soldi da poter anticipare e redditi alti da poter poi prendere le detrazioni. Peccato che sono almeno 43 milioni i cittadini che vivono in case con classe energetica inferiore alla C e 50 in zone ad alto rischio sismico, che vivono in condomini o edifici costruiti prima degli anni 90 e che sono 23 milioni gli italiani con i redditi più bassi (di cui 7,3 milioni sono anche “incapienti” cioè non dichiarano reddito sufficiente per prendere le detrazioni).

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Ex Gkn, anche le istituzioni toscane stufe di Borgomeo

Parliamo della stragrande maggioranza dei pensionati, lavoratori dipendenti e autonomi, precari, disoccupati che vivono nelle case più vetuste ed energivore, cioè le case che sprecano di più (il 35% di tutta la C02 è prodotta da edifici vecchi), vengono giù alle prime scosse di terremoto, hanno le bollette più care.

E poi vi sono anche le imprese serie, che si sono andate specializzando sulla rigenerazione e ristrutturazione, che hanno investito in macchinari e personale che vengono “mandate in buca”. Imprese che anche grazie alle leggi passate ora denunciano il numero reale dei lavoratori impiegati – Durc di Congruità- e applicano i Contratti nazionali (Ccnl) dell’Edilizia, con tutto ciò che questo comporta in termini di maggiore sicurezza, formazione, salari. Alcune di queste imprese sono le stesse che, se dovessero chiudere, non potranno neanche realizzare il Pnrr, che non è fatto solo di grandi opere ma anche di tanti interventi di riqualificazione.

Se a questo scenario aggiungiamo i tentativi di ridurre le tutele negli appalti pubblici, tra liberalizzazione dei livelli di sub appalto e minori obblighi ad applicare lo stesso Contratto nazionale edile, o gli altri contratti nazionali. siamo proprio al classico “dalla padella alla brace”. O rischi di perdere il posto di lavoro (effetto blocco della cessione crediti) nell’edilizia privata o rischi di lavorare negli appalti pubblici con meno tutele, meno imprese strutturare e di qualità, minore sicurezza e maggiori infortuni.

Insomma il governo Meloni sembra accanirsi contro il settore che, direttamente ed indirettamente, sta dando il maggior contributo al Pil e all’occupazione da due anni a questa parte, e che è e sarà sempre più strategico per rigenerare città e aree interne. Un governo contro il lavoro e l’ambiente.

Per queste ragioni se non vi saranno cambi di direzione, tavoli di confronto con i sindacati, interventi a difesa dell’occupazione e per un suo miglioramento, come Fillea Cgil siamo pronti alla mobilitazione sin dalle prossime settimane, chiedendo anche alle altre organizzazioni – Feneal Uil e Filca Cisl – di scendere in piazza e di proclamare, come nel 2019, lo sciopero generale di tutti i comparti della filiera delle costruzioni.

*Segretario generale Fillea Cgil

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