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THE DAYAFTER. É andata male. Peggio del previsto e del 25 settembre. Con tantissimi astenuti in più. Così negli ultimi dieci anni i votanti nelle regionali lombarde sono scesi dal 76% al […]

Ha perso il fronte che non c’è

É andata male. Peggio del previsto e del 25 settembre. Con tantissimi astenuti in più. Così negli ultimi dieci anni i votanti nelle regionali lombarde sono scesi dal 76% al 42% e nel Lazio dal 72% al 37%. Due minoranze di elettori hanno scelto le maggioranze che governeranno le due regioni più importanti d’Italia.

Un paese unito, dalla capitale “produttiva” a quella “burocratica”. Unito, ma a destra.
Una destra articolata in tre soggetti, di diverso peso, ma con un denominatore comune che consente loro di battere il fronte avverso. E che conquista la sua quattordicesima regione.

Eppure questo non sarebbe proprio un paese di destra. Una coalizione che raccoglie il 44% dei voti.
Perché, allora? Perché stiamo aggiungendo errore ad errore. Dopo quella divisione col M5s che ha consegnato la stravittoria a Meloni in Italia, nel Lazio (in Lombardia la destra era già maggioranza) le forze di opposizione hanno fatto di tutto per evitare di vincere.
Di chi le responsabilità? Tutto era previsto. Il brutto spettacolo del 25 settembre si è ripetuto amplificato. Ma alla replica gli spettatori si sono ridotti.

Penso che quando arriveranno le analisi sui flussi sarà evidente che l’astensionismo ha pescato di più sull’elettorato di opposizione, che chi ha resistito e votato non ne può più di ricerca di capri espiatori e di colpe che, naturalmente, sono sempre degli altri (vedi le prime dichiarazioni del dopo voto).
Adesso abbiamo due corpi elettorali: quello di destra centro, con differenze interne certo, ma gasato dai successi e dalla leadership, e l’altro, il resto degli elettori, che ci piace pensare siano quelli di centro sinistra, ma che è giusto chiamare gli altri.

Perché a questo punto dobbiamo prenderne atto: un centro-sinistra, un vero campo largo, un fronte progressista nel nostro paese oggi non esistono.
Il Pd sta nel vivo di un processo di ridefinizione della sua identità e resiste stancamente avendo alle spalle una storia e residue radici di sedi e presenze nelle istituzioni.

Il M5S, sgonfiata la bolla movimentista, privatosi del debole radicamento realizzato, ha un problema identitario ancora più forte che lo espone al rischio di rappresentarsi per differenza dai vicini e non per un proprio profilo.
Per il resto un arcipelago di soggettività che comprendono residui inerziali, nostalgie di ideali da riattualizzare, sogni d un futuro sostenibile tutto da costruire, ma anche sfrenate ambizioni, personalistiche e presuntuose.

Se il fronte progressista è fatto da queste forze, tutto si spiega ed il problema è tutto qui: manca un minimo comune denominatore che configuri questo insieme come diverso ed alternativo.
Possiamo fermarci qui e decidere che da oggi ci dedichiamo tutti, ma proprio tutti, a cercare di costruire questo minimo comun denominatore?
Lasciamo da parte per un po’ ripicche ed alleanze. Non dobbiamo rinunciare alle nostre identità, priorità, differenze. Ma vogliamo fare un elenco di tematiche, per il momento generiche, sulle quali sappiamo di non avere le stesse visioni o di non averne per niente?

Ad esempio su temi come rapporto Stato ed autonomie locali, lavoro e precariato, reddito e lavoro, tempi di vita e di lavoro, fisco e giustizia e mobilità sociale, ambiente e sviluppo, pace ed assetto geopolitico dopo la crisi della globalizzazione e delle nuove sfide tecnologiche pensiamo di avere un denominatore comune? Non dobbiamo, allora, aprire una fase di ricerca, elaborazione, confronto per gettare le basi per un’alleanza strategica (Rangeri il manifesto di ieri)?

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Il centrodestra di governo vittorioso in 5 mesi ha smarrito 1,4 milioni di voti. Ma il grande partito dell’astensione ha colpito un centrosinistra diviso e in cerca di futuro. Il Pd aspetta le primarie, i 5S smarriti nei territori, il Terzo polo con Calenda incolpa gli elettori

Non è uno scherzo.  Per l’astensione ha smarrito 1,4 milioni di voti in cinque mesi. Ma gli altri (poco) di più. In Lombardia hanno votato due milioni di elettori in meno rispetto alle politiche. Nel Lazio un milione. Non sono turni omogenei, ma insieme hanno scritto il racconto di un’avanzata. Che i numeri smentiscono

Quanto ha perso la destra Elezioni in Lombardia - LaPresse

Ma quanto ha vinto la destra nelle regionali di domenica e lunedì scorso? I dati assoluti, i voti veri, offrono la risposta che le percentuali nascondono. Perché quando la gara si fa su una base così ridotta dalle astensioni è una gara falsata. Valida, naturalmente, per assegnare vittorie e incarichi. Perché chi non partecipa e, nel caso delle liste, chi non riesce a motivare alla partecipazione, perde sempre. Molto meno valida però per valutare il peso reale delle forze in campo. Nei numeri assoluti il dominio della destra di cui parlano le percentuali dei candidati presidenti e dei partiti non si vede. Anche se questa non può essere una consolazione per l’opposizione che ha abbandonato il campo.

Prendiamo come riferimento i voti degli elettori residenti in Lombardia e nel Lazio alle elezioni politiche del 25 settembre scorso. Con l’avvertenza che naturalmente non si tratta di elezioni omogenee, le regionali hanno tradizioni e motivazioni diverse dal voto per il parlamento. Ma sono elezioni troppo vicine nel tempo per non essere considerate un punto di riferimento. Fanno parte della stessa narrazione, quella del risveglio della destra. La narrazione che i numeri veri mettono in

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ADDIO ALLE URNE. Ancora una volta (ma sembra non bastare mai) l’elettorato progressista e di sinistra ha rifiutato le forme e i contenuti di chi bussa alla porta per chiedere il consenso

Pd e M5S, le inutili opposizioni LaPresse

Domenica sera al mio seggio non c’era nessuno, solo gli scrutatori dedicati a un lavoro impegnativo, lunghissimo (16 ore di turno domenicale) e soprattutto frustrante vista la quasi totale assenza di “clienti” disposti a riempire le schede elettorali. Un deserto previsto, con l’astensionismo indicato come il vero vincitore delle due tornate regionali. E tuttavia nessuno immaginava un addio alle urne così profondo, sia nel Lazio che in Lombardia.

Molte e molto indagate, le cause. Prima fra tutte il progressivo distacco da questa politica segnata da una progressiva perdita di senso, orfana persino della speranza che il governo, in questo caso quello regionale, possa migliorare la nostra vita quotidiana, aiutarci nei nostri bisogni essenziali: curarsi, muoversi, abitare, non morire d’inquinamento.

Un distacco particolarmente doloroso se solo pensiamo alle sofferenze provocate dalla Pandemia proprio in Lombardia, il territorio italiano più inquinato d’Europa, la regione con più morti da Covid, con uno dei peggiori servizi sanitari territoriali, con assessori cacciati per il massimo dell’incompetenza. Ebbene il presidente Fontana, il maggiore responsabile, è stato rieletto dai cittadini lombardi, seppure con circa 2 milioni in meno di partecipanti al voto rispetto alle politiche del 25 settembre.

Viceversa nel Lazio, con la giunta Zingaretti che aveva gestito al meglio l’emergenza pandemica, il candidato presidente D’Amato, cioè l’assessore alla sanità che aveva saputo affrontare il Covid, ha perso di fronte al signor nessuno uscito dal cilindro di Giorgia Meloni. E da domani le destre, le stesse che negli anni passati avevano provocato un colossale buco di bilancio sanitario, saranno alla guida della Pisana.

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È vero, le elezioni regionali insieme alle europee sono tradizionalmente le meno frequentate, ma proprio la pandemia le aveva, di botto e prepotentemente, riportate sotto i riflettori dell’opinione pubblica. Naturalmente l’elettore ha sempre ragione e dunque questa massiccia diserzione in realtà indica il vicolo cieco in cui è finita ogni forma di rappresentanza, testimonia l’estenuazione della sua incapacità di penetrazione sociale. Tra l’altro il colmo è che questi presidenti di regione, proprio loro, i meno votati della storia, sono gli stessi che chiedono più poteri con la legge Calderoli sull’autonomia differenziata.

Tuttavia dentro questo deserto della partecipazione ci sono poi i vincitori, le destre, e i vinti, le sinistre di ogni ordine e grado. Vincitori dimezzati, Fontana e Rocca, perché azzoppati dallo sciopero del voto, ma vincitori netti. E perdenti con grande distacco, Majorino e D’Amato, politici replicanti della tafazziana sconfitta del 25 settembre. Persino più vistosa e bruciante la performance della coalizione progressista in Lombardia, rispetto al risultato laziale: sostanzialmente di tenuta per il partito di D’Amato, quanto catastrofico per il Movimento di Conte, doppiato dal Pd. Il leader del M5S alla fine punito nelle velleità senza costrutto di andare da solo a sbattere contro il muro.

Ancora una volta (ma sembra non bastare mai) l’elettorato progressista e di sinistra ha rifiutato le forme e i contenuti di chi bussa alla porta per chiedere il consenso. Ma soprattutto non sopporta più le divisioni del proprio campo. Diversamente non si spiega perché anche la linea più sociale dei pentastellati non sia stata premiata rispetto al decennale moderatismo piddino, peraltro penalizzato dall’astensionismo record della roccaforte romana (per la cronaca la sinistra-sinistra di Unione popolare langue all’1%).

Specialmente rispetto alla capacità delle destre di marciare unite, noi ci ritroviamo un ceto politico dedito soprattutto alla conta dei propri voti, concentrato sulla perpetuazione di se stesso, gattino cieco sul ruolo da svolgere come una robusta e credibile opposizione, ben decisa a diventare avversario temibile per le destre. Così ridotte, oggi, le opposizioni appaiono, e sono, inutili agli occhi di chi trova ancora la voglia e la forza di impegnarsi per un paese democratico, socialmente giusto, europeista, antiregimi, libertario.

Se invece vogliono avere voce autorevole nella battaglia politica, allora devono iniziare a guardare oltre i loro confini. In particolare la nuova segreteria del Pd, Conte, Verdi, Sinistra italiana devono mettere le basi per un’alleanza strategica, capace di conquistarsi la fiducia degli italiani, l’unica che può riportarli alle urne. Su 18 regioni 14 sono andate alle destre, oltre al governo nazionale. Ancora non basta?

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ADDIO ALLE URNE. Il sociologo analizza la sconfitta di centrosinistra e Movimento 5 Stelle e il boom dell'astensione: «I partiti non sono in grado di interpretare la società»

«La dimensione della sconfitta della sinistra era del tutto prevedibile» dice il sociologo Domenico De Masi rievocando i precedenti colloqui con questo giornale. «Oltretutto – aggiunge – Subito dopo il voto avevamo detto che era assurdo che i 5 Stelle non facessero un accordo di programma. A me risulta che il Pd aveva proposto a Conte di scegliere lui il candidato per il Lazio. Se fosse vero sarebbe un errore enorme».

Natale Di Cola, segretario della Cgil di Roma e del Lazio, commenta la vittoria della destra e l’astensionismo che dilaga parlando di una «società che non riesce più a pensare la trasformazione». Che ne pensa?
La società non esiste esistono solo gli individui, diceva Thatcher. Per me invece la società esiste, ma in questo caso la colpa è delle avanguardie che si sono appropriate della scacchiera politica. C’entra l’incapacità di leggere la società da parte dei partiti. Daniel Bell, Alain Touraine e André Gorz avevano descritto fin dagli anni Cinquanta e Sessanta cosa sarebbe successo. Quando è arrivata la società postindustriale è cambiato tutto e la sinistra ha continuato a ragionare in termini industriali. La sinistra deve essere la prima in assoluto a leggere le trasformazioni sociali, da questo punto di vista la sua scissione con gli intellettuali è gravissima.

Meloni come supplisce questa carenza?
La supplisce molto relativamente, visto che ha il 40% del 40%. Da questo punto di vista è sconfitta come tutti gli altri. Solo che nel vuoto le destre estreme sono più attrezzate: a capovolgerlo in regime autoritario ci vuole poco. Il vuoto politico è un disastro per una società civile, ma per la destra può essere persino una grande occasione.

Come se ne esce?
Le persone che ci hanno portato fin qui non sono le stesse che ce ne faranno uscire. Il Pd è un partito di sinistra inquinato di neoliberismo. I 5S sono assolutamente carenti di organizzazione, hanno fatto parecchi passi per trasformarsi in partito e ora è come se questa marcia si fosse arrestata. Non si è fermata solo la macchina organizzativa, ma anche quella formativa: nulla ha fatto sì che diventassero una seria formazione di sinistra. I partiti sono anzitutto strutture pedagogiche, insegnano al popolo come si legge e come si migliora la società. Non lo hanno fatto né il Pd né il M5S. Il Pd ha presentato da poco un Manifesto dei valori che è un listone di problemi, un elenco di cose da fare. Ma non dice come, non dà le soluzioni.

Torniamo alla necessità della trasformazione.
Oggi abbiamo una classe dominante che fa rivoluzioni ma pretende che la classe dominata faccia solo riforme. Creano vaccini in nove mesi, mettono l’iPhone sul mercato, fanno le bombe atomiche. Però pretendono che i dominati facciano solo riforme, sapendo che queste hanno bisogno di tempo per verificarsi e quando ciò è avvenuto ormai è troppo tardi.

Ci sta dicendo che servirebbe pensare la rivoluzione anche dalle nostre parti?
Certo. Magari non cruenta. Serve un’azione radicale. Invece la sinistra ha accompagnato il neoliberismo. Ma il guaio maggiore è che manco se ne sono accorti. Queste elezioni sono l’ennesima firma su quel declino.

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La destra vince le elezioni regionali nel Lazio e in Lombardia con Rocca e Fontana nel vuoto della partecipazione. Record di astensione, va a votare poco più di un elettore su tre con punte di uno su quattro nelle periferie. Fratelli d’Italia padrone della coalizione. Centrosinistra sparito e abbandonato ma subito litigioso. Debacle per Calenda e Conte

REGIONALI. Record negativo per tutte le votazioni nel Lazio: astensione al 62,8%. Poco sopra la Lombardia. A Roma nei seggi di periferia punte di un solo votante su quattro ai seggi. E' il punto di non ritorno di una crisi di sistema

 Un seggio milanese - LaPresse

È finita molto peggio della già molto cupe previsioni. A votare è andata una piccola minoranza di chi avrebbe dovuto scegliere presidenti e consiglieri regionali. Nel Lazio il 37,2% degli aventi diritto, meno di 1,8 milioni su 4,8 milioni di elettori. È un record negativo non solo per il Lazio e per le regionali, ma per la storia elettorale di tutto il paese e di tutte le elezioni. A Roma l’affluenza è stata la più bassa: 33,1% e il tracollo c’è stato nei municipi di periferia, est e ovest (Torre Angela e Ostia) dove ha votato poco più di un elettore su quattro.

Appena un po’ più contenuto il disastro della Lombardia, dove l’affluenza regionale si è fermata al 41,67%, vale a dire che su 8 milioni di elettori potenziali alle urne sono andati in 3,3 milioni. A Milano l’affluenza è stata di pochissimo superiore a quella della regione ma in città, al contrario che nella Capitale, la partecipazione è crollata più nei quartieri centrali che in quelli periferici.

Non era un piccolo test per via delle dimensioni dei territori coinvolti: alle urne avrebbe dovuto recarsi circa un quarto di tutto l’elettorato nazionale. Ed è la prima volta che ovunque si sia votato, senza eccezioni – due regioni, diciassette provincie (dodici in Lombardia e cinque nel Lazio) – l’ampia maggioranza delle elettrici e degli elettori abbia deciso di non partecipare. È dunque un punto di non ritorno. Il fatto che a scegliere presidenti e consiglieri siano stati in cos

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Come fu nella Guerra fredda, anche oggi gli scienziati devono spingere i governi a parlarsi. Così Giorgio Parisi, premio Nobel per la Fisica, verso il congresso della Flc Cgil

Giorgio Parisi, l'ironia del Nobel sui fondi alla ricerca ...

GUARDA IL VIDEO DI GIORGIO PARISI

"Sono molto contento di partecipare al congresso dei lavoratori della conoscenza, perché questo sindacato sta facendo un ottimo lavoro in difesa della conoscenza e della ricerca in Italia".  A dirlo è Giorgio Parisi, premio Nobel per la Fisica nel 2021, che parteciperà al congresso nazionale della Flc Cgil ("Lezioni di pace") che si svolgerà a Perugia dal 14 al 16 febbraio.

"Nel mondo - prosegue - l'ambiente della ricerca è stato fondamentale per arrivare a una serie di trattati internazionali: la discussione tra scienziati di Paesi diversi, infatti, da un lato e l'altro della cortina di ferro è stata decisiva per la stesura di alcuni accordi. L'attività della comunità scientifica si è rivelata essenziale per spingere i governi a fare trattati sulle armi nucleari. Ora gli scienziati devono nuovamente spingere i governi a parlarsi tra loro".

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