l Pil del quarto trimestre 2022, dopo sette trimestri consecutivi di crescita, cala leggermente (-0,1% rispetto a quello precedente). Questo risultato non mette in discussione l’andamento positivo del 2022 (+3,9% rispetto al 2021) ma abbassa la quantità già acquisita per il 2023 al solo +0,4%. Sono sintomi di un rallentamento dell’economia che molti, ostentando ottimismo di maniera cercano di nascondere, porteranno a un 2023 difficile.
Questo calo, oltre che ai problemi collegati al dramma della guerra o all’alta inflazione, è anche frutto di un calo della domanda interna che rispecchia l’impoverimento della popolazione e la sfiducia nel futuro. Contemporaneamente, il Fondo monetario internazionale ha reso noto le sue previsioni per il 2023 sulle quali, come afferma, pesa l’incertezza di molti fattori, alcuni dei quali appena richiamati. Anche queste previsioni indicano un 2023 in consistente rallentamento: l’Italia torna a una crescita dello “zerovirgola” (+0,6% nel 2023 e +0,9% nel 2024).
Se con una crescita del Pil di quasi il 4% nel 2022 l’occupazione rimane statica rispetto al 2019 e peggiora ancora nella sua qualità, le previsioni per quest’anno, anche per la possibile introduzione dei voucher e la liberalizzazione dei contratti a termine, sono molto preoccupanti. Con basso Pil il rischio di un accentuarsi della competizione di costo, basata prevalentemente sul peggioramento delle condizioni di lavoro, è reale e sbagliata, sia per la condizione delle persone che per il futuro del sistema produttivo.
L’Fmi prevede inoltre che l’inflazione rimanga sopra il 6% nel 2023 e che l’aumento in corso dei tassi di interesse farà sentire il suo peso nel medio periodo. La prima conferma arriva dai dati dell’inflazione di gennaio che scende, si fa per dire, dall’11,6% al 10,1%, esclusivamente per la diminuzione dei prezzi energetici. Si tratta comunque di un livello insostenibile per essere sopportato dalle persone ancora a lungo.
Questo calo, infatti, è compensato dal contestuale aumento dei prezzi dei beni di largo consumo come gli alimentari non lavorati, i servizi all’abitazione, i carburanti, eccetera: cioè aumenti che pesano principalmente sulle famiglie meno abbienti. A gennaio, l’inflazione già acquisita per il 2023, è del +5,3% e quindi, probabilmente, la previsione del Fondo Monetario sarà superata.
Il governo non affronta queste priorità, mentre la situazione richiederebbe di correggere, attraverso nuovi provvedimenti, una legge di bilancio sbagliata. I sostegni pubblici alle persone devono avere caratteristiche durature nel tempo ed essere meglio indirizzati verso chi è più in difficoltà; occorrono investimenti e incentivi prevalentemente legati a occupazione stabile e a obiettivi di sostenibilità ambientale, cancellando o riorientando molti di quelli già esistenti; un ruolo del welfare pubblico come motore sociale e produttivo; vere politiche industriali e di sviluppo per il Mezzogiorno; interventi fiscali immediati a favore del lavoro, attraverso l’indicizzazione all’inflazione delle detrazioni, meccanismo più favorevole per i redditi più bassi e la defiscalizzazione degli aumenti contrattuali.
Queste sono alcune delle priorità su cui le forze produttive e il mondo dell’associazionismo devono confrontarsi, trovare forme di condivisione e pretendere risposte dal governo. Ribadendo così il loro ruolo fondamentale nel futuro economico e sociale del Paese e di collante, uno dei pochi rimasti, tra società e Stato.
Fulvio Fammoni è presidente della Fondazione Di Vittorio
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ALTA TENSIONE . L’episodio mostra la crisi dei rapporti internazionali, in particolare in Asia - ma anche in Medio Oriente - sulla scia rischiosa della guerra in Ucraina che si sta allargando nel mondo
All'interno della Malmstrom Air Force base di Billings in Montana - Ap
L’evento, un gigantesco pallone aerostatico bianco su cielo azzurro, che aveva del fiabesco, evocando atmosfere tra il Piccolo principe e una (augurabile) invasione aliena, si è subito invece rivelato come una specie di spy story da Guerra fredda, quando i protagonisti dello spionaggio aereo sopra l’allora Unione sovietica erano i jet americani.
Ed è subito scontro tra le «alte sfere» degli Stati. Washington ha accusato Pechino di azioni spionistica sopra una base militare del Montana con testate nucleari, Pechino abbassava i toni ma sembrava colta insieme sul fatto e di sorpresa, perché lo stesso Pentagono dichiarava che «episodi del genere» si erano già verificati, ma mai erano stati sollevati, anche perché così fan tutti.
Oltre alla perplessità che con tanto hi-tech e aerei supersonici invisibili, serva ancora un pallone aerostatico per spiare, resta l’interrogativo del perché questa rivelazione avvenga a due giorni dalla visita del segretario di Stato Usa Blinken a Pechino da Xi Jinping. Comunque sia le scuse cinesi – «è di uso civile per rilevazioni meteorologiche» – e alla fine l’ammissione del Pentagono che «non rappresenta un rischio per noi» non sono bastate a non far saltare la visita di Blinken che tra gli altri argomenti aveva anche la guerra ucraìna e, in essa, il ruolo della Cina. Un fatto è certo. Anche in questo episodio si può leggere il deterioramento dei rapporti internazionali.
In particolare in Asia, sulla scia della guerra in Ucraina. Una scia che si sta allargando nel mondo, non è un pallone gonfiato, finendo su focolai già accesi. In Medio Oriente nel silenzio generale viene colpito il centro industriale di Isfahan in Iran, credibilmente da Israele o molto più verosimilmente dagli stessi Usa che da anni portano avanti in loco una guerra coperta, e accade che da Kiev rivendichino: «Vi avevamo avvertiti». E accade che l’ineffabile segretario della Nato Stoltenberg – fuori oceano, dall’Atlantico al Pacifico – apra il suo viaggio in Asia minacciando: «Oggi la guerra è in Europa ma tra un anno potrebbe essere in Asia».
DOVE LA TENSIONE è alta su tanti dossier: a partire dall’hi-tech, con le nuove restrizioni protezioniste Usa a Huawei e per risposta quelle pronte sui pannelli solari da parte di Pechino; ma soprattutto con l’avvio di manovre militari Usa in Asia-Pacifico: dopo aver elevato i rapporti militari con Giappone e Corea del Sud, due giorni fa c’è stato l’accordo per l’accesso a basi militari strategiche nelle Filippine (in caso di guerra su Taiwan, che riarma) e anche per la produzione congiunta di armi con l’India; e nel Pacifico meridionale, dopo 30 anni riapre ambasciata Usa nelle Salomone (che hanno firmato accordo di sicurezza con la Cina nel 2022) e nuovo accordo militare con la Micronesia, etc. In questi giorni l’’organo di stampa dell’Esercito cinese definisce gli Usa «la principale minaccia alla pace dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi.
INTANTO IN CAMPO occidentale regna la dissimulazione. «Non siamo in guerra con la Russia» dice Biden, dopo l’annuncio di invio carri armati Abrams, «Non siamo in guerra con la Russia», Macron dopo la disponibilità a inviare missili, «Non siamo in guerra con la Russia» ribadisce il governo Meloni, e perfino l’ineffabile segretario della Nato Stoltenberg lo ha ripetuto di fronte alla diffusa disponibilità ad inviare nuovi tank: «Non siamo in guerra con la Russia».
L’INSISTENZA PELOSA svela però la dissimulazione sull’escalation, che la decisione di inviare carri armati rende evidente: queste nuove armi per la loro capacità, spostano l’orizzonte difensivo e si pongono sul terreno offensivo fino a poco fa negato. E la dissimulazione è ancora più evidente perché si tratta ormai di rispondere, a quasi un anno esatto dall’inizio dell’invasione russa, all’insofferenza, alla caduta di coinvolgimento per questa guerra anzi al suo rifiuto netto – come al riarmo che la sottende per riempire i depositi che si vanno svuotando – da parte dell’opinione pubblica occidentale, come dimostrano i tanti sondaggi in Italia, Germania e Francia.
Per il costruttore dei tank più amati sul mercato è l’anno dei record
Anche perché in poche ore, l’impensabile è diventato normalità: dai tank si è passati all’annuncio dell’invio di nuovi missili a lungo raggio, con autorizzazione a colpire la Crimea – un regalo alla «popolarità» di Putin e una finestra verso la guerra nucleare; e si è aperto il dibattito sull’invio di aerei da combattimento, che in poche ore è diventata concreta possibilità, anticipazione della scellerata decisione di inviare sul campo i militari che tra un po’ emergerà.
INTANTO ZAR PUTIN, non contento del disastro provocato con l’invasione del Donbass e dell’Ucraina, sfida l’Occidente sloggiando, con la Wagner, già presente in Libia, gli insediamenti militari della Francia da sei Paesi francofoni dell’Africa, e consolida con accordi commerciali il rapporto con il Sudafrica con cui, insieme alla Cina, annuncia manovre militari congiunte. L’ombrello che contiene tutte queste crisi sembra essere proprio quello della prolungata e ormai infinita guerra ucraìna, aspettando l’offensiva russa, che ogni giorno martella e uccide senza tregua, e la controffensiva ucraina. O viceversa.
Le «alte sfere» della guerra restano in cielo. Poche le voci contrarie – oltre al papa — alla discesa verso il baratro: il capo di stato maggiore Usa, Mark Milley che insiste sulla situazione di stallo del conflitto, per il quale, dopo 200mila morti «in equa misura da una parte e dall’altra» è difficile ipotizzare il prevalere dell’uno o dell’altro, la vittoria della Russia e tantomeno quella dell’Ucraina nel suo intento di liberare tutto il Paese; più credibile, ammoniva Milley, usare lo stallo bellico per trovare «una finestra negoziale»; e in questi giorni l’ultimo rapporto della Rand Corporation, il think tank americano legato al Pentagono – che proprio per l’Ucraina, dal 2019 al febbraio 2024 aveva elaborato una «strategia a lungo termine» di scontro con la Russia – ora invece (v. Luca Celada sul manifesto ieri) dice che la guerra non può essere vinta da nessuno, che gli Usa avrebbero tutto l’interesse ad evitare il protrarsi del conflitto e adottare misure per rendere più probabile un’eventuale pace negoziata.
NON LO FA PER EMPITO pacifista naturalmente, ma perché gli interessi degli Stati Uniti sarebbero meglio serviti evitando l’escalation in Ucraina, dai forti costi e rischi – vedi le forniture di armi che svuotano gli arsenali – perché ora c’è da elaborare una strategia contro il nemico vero, la Cina. Ed ecco che rivolano i palloni.
Abbiamo una sola speranza a quasi un anno dall’invasione di Putin. Che la leggerezza impotente delle nostre solitudini esca dall’anonimato delle opinioni e dei sondaggi e scenda in campo – è già accaduto il 5 novembre – come movimento reale contro la guerra
RIFORME. La legge Calderoli è di rango ordinario, dunque non può pretendere di stabilire come il parlamento dovrà approvare un’altra legge ordinaria, quella che recepirà l’accordo stato-regione
Che cos’è l’autonomia regionale differenziata?
È la facoltà attribuita alle regioni ordinarie di aumentare le proprie competenze normative e gestionali in ambiti oggi disciplinati e amministrati dallo Stato. Tale facoltà non era prevista nella Costituzione del 1948, è stata introdotta dall’articolo 116, comma 3 della Costituzione modificato nel 2001.
In quali materie le regioni possono aumentare le loro competenze?
In molte materie, tra cui: sanità, istruzione, università, ricerca, lavoro, previdenza, giustizia di pace, beni culturali, paesaggio, ambiente, governo del territorio, infrastrutture, protezione civile, demanio idrico e marittimo, commercio con l’estero, cooperative, energia, sostegno alle imprese, comunicazione digitale, enti locali, rapporti con l’Unione europea. Sono coinvolte le principali leve attraverso cui la Repubblica è chiamata a realizzare l’uguaglianza in senso sostanziale: di qui il rischio per la tenuta dell’unità del Paese.
E come devono fare le regioni per ottenere queste competenze?
L’articolo 116, comma 3, dispone che la regione raggiunga un’intesa con lo Stato e che poi tale intesa sia recepita in una legge approvata dal Parlamento a maggioranza assoluta. C’è però un problema: la trattativa tra regione e Stato è
Leggi tutto: Domande e risposte su un’autonomia incostituzionale - di Francesco Pallante
Commenta (0 Commenti)COMMENTI. Lettera dell'europarlamentare del Gruppo dell'Alleanza progressista di Socialisti e Democratici a Giorgia Meloni sul caso dell'anarchico detenuto in regime di 41bis
Gentile presidente del Consiglio,
Le scrivo perché spero in un suo gesto risoluto e immediato capace di salvare la vita ad una persona. Alfredo Cospito sta morendo e lo Stato e il governo dovrebbero, a mio parere, dimostrare forza e lungimiranza.
Il ministro della Giustizia può disporre il riesame del provvedimento ministeriale sulla base di un’istanza di revoca del decreto applicativo presentata il 13 gennaio, senza attendere la Cassazione. In tal modo il ministro Nordio può assumersi la responsabilità di revocare il 41bis.
In una democrazia matura lo Stato di diritto si misura con il trattamento riservato ai colpevoli. Con la certezza della pena rispetto ai reati commessi. Non voglio, Presidente, fare polemiche, né richiamare i tratti di incostituzionalità del 41 bis, se ne discuterà in altra sede, né dimostrare quanto sia ingiusto il regime carcerario applicato a Cospito. In questo momento la cosa più importante è salvare la vita di un uomo e fermare la spirale di violenza.
Non condivido nulla delle cose dette, scritte e fatte dal detenuto. Ritengo importante agire con fermezza e velocità per identificare gli eventuali responsabili di attentati e azioni che mettono in pericolo le vite delle persone.
Tuttavia penso che uno Stato robusto, consapevole della propria forza, debba reagire con determinazione, nel rispetto delle regole di cui si è dotato.
La cosiddetta tolleranza zero di cui si parla in queste ore non può prevedere vendette o extra pene per chi è già stato incarcerato e condannato.
Sarebbe un fatto di straordinaria importanza e coraggio una sua diretta iniziativa che sottragga Cospito dal maglio del 41bis. Soprattutto perché verrebbe da una leader di destra capace di riconciliazione. L’accanimento non porterà nulla di buono.
Al nostro Paese non servono capri espiatori, rappresaglie, né martiri. Non torniamo indietro, evitiamo che qualcuno accenda fuochi sbagliati riportando le lancette dell’orologio a trenta, quaranta anni fa.
Presidente, so che nel tempo della militanza, come me e come tanti altri, da opposte barricate, si è battuta per ricordare la lenta morte di Bobby Sands, patriota e rivoluzionario irlandese che si è lasciato morire nelle prigioni inglesi con uno sciopero della fame a oltranza contro il regime carcerario cui era sottoposto. Quella morte ha segnato più di ogni altra il conflitto nordirlandese e rimane una macchia indelebile sulle persone e le istituzioni che ne portano la responsabilità.
Noi non siamo in quella situazione e neanche al centro di una nuova stagione di lotte antagoniste che possano in qualche modo somigliare alla “guerra civile” di fine anni settanta inizio ottanta. E proprio per questo servirebbe un gesto, servirebbe misurare la nostra civiltà giuridica partendo dal punto più lontano, quello di un militante anarchico che deve pagare per i suoi reati, senza pene aggiuntive che sanno di rappresaglia e paura. La Repubblica italiana dovrebbe affrontare questo caso con la consapevolezza di chi sceglie di sminare e sottrarsi alla logica dello scontro frontale perché forte, solida, capace di resistere al corpo a corpo ed evitare torsioni autoritarie.
Capisco la tentazione di utilizzare il nemico interno, l’uomo nero, per lucrare consenso a buon mercato. Chi aizza gli animi da posizioni di potere commette un errore clamoroso. Mi creda, non ne vale la pena. Farei davvero molta attenzione a non alimentare una escalation che può diventare la profezia che si auto avvera, uno scontro sociale simulato, cercato dai media, che potrebbe trovare qualche cattivo interprete capace di trasformarlo in qualcosa di reale. A favore di telecamera.
Servirebbe governare con mano ferma e saggezza questa fase. Lavorare ad abbassare i toni, sottrarsi alla caccia all’uomo. Non enfatizzare. Lascerei fare alle forze dell’ordine e alla magistratura il proprio lavoro.
Ma il primo passo per non sporcare la storia repubblicana è evitare che un uomo muoia mentre è nelle mani dello Stato. E per fare questo bisogna sottrarlo al 41bis. Non c’è altro da dire. La forza si può dimostrare in tanti modi, in questo caso il modo migliore è evitare l’irreparabile
Commenta (0 Commenti)REGIONALI. Non basta denunciare una cattiva politica, spesso corrotta. Ma dare fiato a una cittadinanza ricca di comunità solidali che il centrodestra si augura diserti le urne
La minaccia climatica, drammatizzata dall’escalation degli scontri bellici, si fa di giorno in giorno più irreversibile. Il futuro si rappresenta nella metafora del “Doomsday Clock” che segna meno di 900 secondi all’Apocalisse. E’ in questo quadro di cui poco si discute che La Lombardia si trova impegnata in una campagna elettorale insolitamente breve.
La regione era, a fine del millennio, la più florida d’Italia: tuttavia la sua corsa cominciava a frenare. Non solo perché la sua capitale – Milano – assumeva un rango internazionale a spese di una periferia declassata, ma anche per il languire negli storici distretti industriali di una manifattura competitiva, ma non più in funzione strategica, ridotta a indotto delle multinazionali. Un declino ben visibile nella sanità che, a seguito delle incursioni private, perdeva integrazione col territorio per distinguersi in una concorrenza fatale per i diritti degli assistiti.
Eppure, nonostante gli attacchi delle giunte Formigoni, è rimasta viva ancor oggi una tensione sociale verso una società della cura, animata da diffuse pratiche di un volontariato che cerca di supplire al regresso del pubblico, memore ancora del robusto legame che scienziati e medici a vocazione popolare tenevano con le organizzazioni dei lavoratori e dei delegati nelle fabbriche (si pensi a Maccacaro, Laura Conti, Berrino, Luigi Marra, i libretti sanitari di rischio, la fondazione Ambiente-Lavoro).
La pesante torsione, da diritto ad assistenza caritativa, è stata guidata dalla politica in una anticipazione di portata nazionale.
Le prossime elezioni hanno però alle spalle la predicazione di Bergoglio e una consolidata coscienza laica del legame stretto tra giustizia climatica e giustizia sociale. Possibile che questo arco drammatico di tempo, che ha visto seccare i fiumi, sparire la neve, balenare lampi di guerra ad ogni accensione di Tg, non agisca sui risultati del 12 Febbraio? Tocca alla sinistra trasformare lo spazio in tempo, cioè prevedere sulla base delle emergenze che ci circondano quale futuro costruire per garantire la sopravvivenza umana e della natura dando un senso al tempo di lavoro e all’occupazione.
I responsabili ed eredi del declino (da 28 anni governano le destre) si prodigano ad affastellare riunioni con ministri schierati in bella vista, o a visitare con pullman itineranti i luoghi di assistenza caritativa o le scuole parificate verso cui le loro Giunte sono state prodighe, raccontando una Lombardia autosufficiente, chiusa nella frottola dell’autonomia differenziata.
Per vincere non basta denunciare un’amministrazione spesso corrotta. Occorrerà dar fiato ad una cittadinanza ricca di fermenti, associazionismo, intelligenze, comunità solidali, luoghi che uniscono sapere a convivialità: una società sconosciuta al centrodestra, che si augura semplicemente che quel patrimonio collettivo non vada al voto.
L’esperienza da me vissuta nell’Associazione laica della “Laudato Sì”, a contatto con gli ultimi della Casa della Carità di Colmegna, mi aiuta a capire come non si possa far politica senza porre a discriminanti il clima, le guerre, il pericolo nucleare, le disparità sociali e sul lavoro, le migrazioni. Ed è per questo che l’educazione e la scuola, il degrado della biosfera e una guerra insensata di cui siamo cobelligeranti, devono essere portati all’attenzione di chi ha il dovere di votare, oggi più che mai.
L’educazione e la scuola, perché in Lombardia non si è fatto nulla per la formazione degli insegnanti su clima, energia, scarti e vivente, se non nel campo del volontariato, che, non a caso, presenta nelle liste che sostengono Majorino una candidata che proviene dall’Associazione “Laudato Sì”.
La guerra, perché la società e la struttura economica della Lombardia, sede dell’arsenale Nato militare e soprattutto nucleare, oltre che del più nutrito settore di produzione militare aerospaziale e delle armi leggere, non ne sono affatto estranee. Qui Leonardo conta su sette unità produttive di elicotteri, velivoli, droni per le guerre. In termini di fatturato è la prima impresa militare nella Ue. Vende caccia all’Arabia Saudita, per far stragi di civili in Yemen, mentre gli elicotteri Agusta sono usati dalla Turchia contro i Curdi. C’è da chiedersi: cosa stiamo inviando da qui in Ucraina, visto che gli elenchi sono secretati?
I cacciabombardieri F35 vengono dispiegati a Ghedi (Brescia) per il trasporto di 40 bombe termonucleari B61-12 in sostituzione delle B61-3 e 4. Le nuove bombe sono la prima arma nucleare adattabile a rese diverse, da 0,3 a 50 chilotoni e possono avere sia un uso tattico, sia arrivare ad esplodere sotto la superficie terrestre con una resa equivalente ad 83 bombe di Hiroshima.
Il successo di Majorino sarebbe più che un granello di sabbia nell’ingranaggio del truce armamentario delle destre al governo. Perciò sarebbe bene che gli elettori lombardi riflettessero anche su tutto quanto potrebbe drammaticamente accorciare il futuro delle nuove generazioni
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LEGGE CALDEROLI. Nella sanità per avere una eguaglianza sostanziale non basta una eguaglianza formale
Il regionalismo differenziato già esiste (4 Regioni), è previsto dalla Costituzione (riforma 2001 del titolo V) che va applicata; inoltre si tratta di una proposta del centro sinistra, e prima di fare il regionalismo differenziato c’è da garantire l’universalismo delle prestazioni.
Cioè i Lep. Il prof Cassese ha così sintetizzato il suo pensiero sulla proposta presentata dal ministro Calderoli al governo (la 7 Omnibus 31 gennaio 2023). Ho citato il prof Cassese perché per me rappresenta un maitre a penser saggio e equilibrato.
Ma non in questa occasione, perché un vero saggio non dovrebbe limitarsi a seguire il proceduralismo formale delle leggi (le leggi, anche se fatte dal centro sinistra, potrebbero essere sbagliate e se sbagliate dovrebbero essere corrette); dovrebbe conoscere in subjecta materia le vere complessità in gioco; dovrebbe essere attento alle antinomie. Se si vuole differenziare allora è perché si è uniformato e non si vuole uniformare più.
La condizione dalla quale Cassese fa dipendere la fattibilità del regionalismo differenziato, cioè i Lep, è una condizione, per la sanità, del tutto insussistente ma soprattutto è una condizione insufficiente a garantire l’universalismo che lui auspica.
In sanità considerando le irriducibili complessità in gioco, non bastano né i Lea né i Lep per garantire l’universalismo. La ragione è semplice: in sanità per avere una eguaglianza sostanziale non basta una eguaglianza formale.
«Riprendiamoci il comune». Due leggi dal basso per un’altra autonomia
Per esempio (trascurando del tutto le questioni della singolarità e del contesto) a parità di malattia, per avere una cura adeguata, bisognerebbe che fosse garantita dalle stesse strutture, dagli stessi operatori in qualità e numero, con le stesse risorse, usando le stesse metodologie quindi supponendo prassi analoghe.
Ma siccome nella realtà queste condizioni non esistono, è incongruo, illusorio definire i Lep senza prima ridefinire le condizioni di funzionamento della sanità pubblica quindi le sue organizzazioni adatte. Ma non solo. Essendo la sanità pubblica sempre più privata, il mix pubblico/privato alla fine si rivela decisivo a cambiare le prestazioni da regione a regione.
Nella letteratura nazionale e internazionale abbiamo evidenze che ci dicono che la mortalità è più alta nella sanità privata e più bassa in quella pubblica. E questo anche se sia il pubblico che il privato si riferiscono agli stessi Lea o agli stessi Lep. Le prestazioni descritte nominalmente nei Lep o nei Lea sembrano uguali e definite con lo stesso nome ma quelle del privato sono diverse da quelle del pubblico. A renderle diverse è il loro scopo e i modi che si usano per conseguirlo.
Se l’obiettivo è il rispetto del diritto, le prestazioni saranno di un tipo se invece lo scopo è il profitto le stesse prestazioni saranno di altra specie. Secondo il principio tomista agere sequitur esse cioè “l’agire segue l’essere” quindi la prestazione finisce con il dipendere da chi la fa e da come si fa.
Infine vorrei ricordare al prof Cassese, che in sanità i Lea sono stati introdotti nel 1992 per ragioni di risparmio (all’inizio si parlava di prestazioni, poi di prestazioni minime e infine di prestazioni essenziali), che dopo la loro introduzione le diseguaglianze nel paese sono cresciute e che i Lea non hanno impedito alle regioni del nord di lucrare con la mobilità sanitaria sulle regioni del sud . Se per magia dovessimo fare i Lep garantendo al sud le prestazioni che non ha, si deve sapere che le regioni del nord senza la mobilità sanitaria rischierebbero di chiudere bottega.
Il fondo di perequazione che propone Calderoli è una vera foglia di fico. Non credo che basti rendere il mondo formalmente uguale per dire che le differenze regionali non sono più un problema. Non è così. Al prof Cassese bisognerebbe porre una semplice domanda: ammesso che i Lep non siano una garanzia di universalità, il regionalismo differenziato lo farebbe o no?
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