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MEDITERRANEO. Una sequenza di eventi storici e contemporanei che dovrebbero essere noti a tutti

Il gas algerino «scoperto» da Giorgia Meloni Giorgia Meloni e Abdelmadjid Tebboune - LaPresse

Sono decenni che l’Italia cerca di diventare un hub del gas nel Mediterraneo, come ha «scoperto» ieri la presidente del Consiglio Meloni e prima di lei Draghi. Si tratta di una sequenza di eventi storici e contemporanei che dovrebbero essere noti a tutti.

1) La posizione privilegiata dell’Eni di Enrico Mattei in Algeria – ucciso nel 1962 nell’incidente aereo di Bascapé – fu ottenuta con il finanziamento della guerriglia dell’Fnl contro la Francia, potenza coloniale che da allora ci giurò ostilità eterna. L’inaugurazione del monumento a Mattei ad Algeri coincise con la visita del presidente Mattarella nel novembre 2021, prima della guerra in Ucraina, quando l’Algeria era già il nostro maggiore fornitore di gas con la Russia.

2) Negli anni’90, quando in Algeria ci furono 300mila morti in un massacro infinito, carabinieri, polizia e Servizi hanno sostenuto i generali algerini contro i gruppi islamisti armati fornendo intelligence, intercettazioni e apparati di sicurezza. Da allora l’Algeria si chiuse ermeticamente e neppure le manifestazioni del movimento Hirak hanno cambiato per ora la situazione.

3) Oltre al gasdotto algerino Transmed (che passa in Tunisia) ne abbiamo uno diretto con la Sicilia dalla Libia, il Greenstream, da 30 miliardi di metri cubi che funziona poco e male perché il Paese è nel caos di una guerra tra milizieinterne ed esterne, dopo quella Nato del 2011. Ma in Libia, divisa tra la Tripolitania (dove c’è la Turchia) e la Cirenaica (sotto influenza egiziana, russa e francese) c’è più gas (e petrolio) che in Algeria.

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4) L’Algeria ci darà il gas che le avanza perché prima deve soddisfare i consumi interni e i nuovi investimenti sia nel gas che su altre fonti hanno bisogno di tempo per diventare operativi.

5) Se non ci fosse stata la guerra in Ucraina continuavamo ad acquistare gas russo perché costa meno di quello offshore che si vuole estrarre da Cipro ed Egitto (e per il quale servono i rigassificatori perché i progetti di gasdotti da lì sono fermi).

6) Si straparla di gas dell’Azerbaijan (a spese della pace in Armenia e Nagorno-Karabakh) che ne ha poco e lo deve distribuire anche in altri Paesi europei oltre che in Turchia. Più che il gas azero è probabile che dalla Turchia arrivi nei tubi il gas russo visto che Ankara non ha mai messo sanzioni a Mosca.

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7)Il presidente algerino Tebboune ha ammonito ieri nel suo incontro con Meloni contro i soprusi di Israele nei confronti dei palestinesi, ma soprattutto gli algerini ci daranno gas se li sosterremo ancora sulla questione del Sahara occidentale per cui Algeri è in rotta di collisione con Marocco, Usa e Spagna. Nel 2020 Trump ha riconosciuto la sovranità del Marocco sulla regione nell’ambito della normalizzazione dei rapporti diplomatici tra Marocco e Israele: l’Italia si è pronunciata per un compromesso tra le parti ma di fatto appoggerebbe il Polisario e la Repubblica Araba Saharawi il cui governo è in esilio a Tindouf in Algeria. L’Europa con l’accordo di libero scambio Ue-Marocco ha riconosciuto l’influenza di Rabat sulle acque davanti al Sahara occidentale ma in aperto contrasto con le risoluzioni della Corte di Giustizia europea (ecco perché i marocchini hanno pagato la rete di lobbyng di Panzeri).

8) Algeri resta il più forte alleato di Mosca nel Maghreb e la Sonatrach, partner dell’Eni, è anche in joint venture con la russa Gazprom nel settore energetico, un’intesa che ha spinto Putin a condonare 4,7 miliardi di debito algerino.
In conclusione tutto ha un costo, in primis politico e poi economico. La politica mediterranea implica prese di posizione precise e autonome dagli Usa e dagli alleati europei. Il resto è solo propaganda

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GUERRA O PACE . Il terribile conflitto armato in Ucraina è stato fin dal principio sfruttato per giustificare quello che nei fatti potrebbe diventare il più massiccio aumento di spesa militare globale degli ultimi 50 anni

 Il cancelliere tedesco Scholz parla ai soldati di fianco a un Leopard 2 - Ap

In queste ore la Camera ha iniziato la discussione finale (voto previsto a breve) sulla conversione del decreto-legge governativo di Dicembre che proroga l’autorizzazione alla cessione di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari in favore dell’Ucraina. Un dibattito che non dovrebbe portare novità di rilievo, non solo perché il voto al Senato ha già reso chiaro l’ampio consenso dietro questa norma ma soprattutto perché il governo Meloni ha deciso di allinearsi alle disposizioni già messe in pratica dall’esecutivo Draghi nei primi mesi di guerra. Bloccando il Parlamento in sterili discussioni generiche (più di posizionamento mediatico-politico) e privandolo di un vero ruolo di controllo, con il meccanismo di “secretazione” del decreto interministeriale che individua i sistemi d’arma da inviare a Kiev.

Per questo sono di sicuro più interessanti le diverse dichiarazioni del Ministro della Difesa Crosetto sui dettagli di tale lista e in un altro senso – più di prospettiva – la presentazione delle linee programmatiche del suo Dicastero davanti alle competenti Commissioni riunite, a partire da questo mercoledì. Poiché da tali linee potranno venire importanti indicazioni su come il cambiamento di scenario imposto dal conflitto in Ucraina verrà recepito per il futuro anche dalle Forze Armate e dal “sistema Difesa” del nostro Paese.

Va ricordato infatti come il terribile conflitto armato in Ucraina è stato fin dal principio sfruttato per giustificare quello che nei fatti potrebbe diventare il più massiccio aumento di spesa militare globale degli ultimi 50 anni. La Germania vuole arrivare a 100 miliardi annui, Macron vuole raddoppiare il budget militare francese dal suo insediamento, il Congresso USA ha appena votato un aumento annuo dell’8% (oltre 50 miliardi di dollari in più di quanto proposto da Biden), la Cina si è da tempo consolidata come secondo investitore armato mondiale. E anche l’Italia irrobustisce il suo percorso verso il fantomatico 2% del PIL, mettendo a budget per il 2023 ben 26,5 miliardi di euro complessivi.

In questo scenario è quasi persino ovvio che si continui ad insistere su una soluzione meramente militare della guerra in Ucraina (cosa ben lontana da una soluzione di Pace). E continua a risultare bizzarra la scelta italiana di non rivelare nel dettaglio le proprie forniture armate: decisione che apre peraltro la strada a possibili manipolazioni e “fake news”, come quelle recentemente diffuse dall’Ambasciata russa a Roma. Visto il coinvolgimento ormai chiaro di tutto il blocco occidentale nelle operazioni militari ucraine è difficile sostenere l’utilità di omettere i dettagli: la consapevolezza di quanto si sta inviando aiuterebbe invece a capire che tipo di mosse successive si dovranno mettere in campo in termini di ripristino magazzini, strutturazione dello strumento militare, strategie e posture, scelte di procurement conseguenti. Ma forse è proprio questo l’obiettivo.

Il dibattito parlamentare e politico italiano si colloca in una situazione apparentemente tesa a livello di schermaglie mediatiche (o sui social) in particolare per l’approccio non ancora formalizzato della Germania sull’invio (diretto o indiretto) dei carri armati Leopard. Ma in realtà dopo il summit di Ramstein la strada pare chiaramente tracciata. Washington ha annunciato nuovi aiuti militari per diversi miliardi, mentre il Consiglio degli Esteri UE ha deciso una nuova tranche di 500 milioni per la cosiddetta “Peace Facility” (in realtà lo strumento che copre finanziariamente l’invio di armi) che sale dunque a 3,6 miliardi di euro complessivi.

Il che porterà ad un aumento quantitativo, oltre che qualitativo, dei sistemi d’arma che arriveranno nei prossimi mesi nella disponibilità di Kiev. E che ci porta anche ad una valutazione dei costi per l’Italia: prima di queste ultime decisioni come Osservatorio Mil€x lo stimavamo in almeno 485 milioni, mentre di recente i Ministro degli Esteri Tajani ha parlato di “circa un miliardo” di forniture (anche se non è chiaro se si riferisca al costo diretto o al controvalore di magazzino).

Chiunque non si cibi solo della retorica interessata di chi magnifica l’importanza della guerra standone bene a distanza (tranne quando deve incassare vantaggi) non può che trarre gravi preoccupazioni da questa situazione. Da un lato non è chiaro come l’ennesima fornitura militare definita “cruciale” (oggi sono i Leopard, come prima sono stati i Javelin, gli Himars, i Patriot…) possa avvicinare la fine di un confitto in cui l’aggressore verso cui si sta facendo fronte comune è stato dato per spacciato già troppe volte. E la cui leadership sempre più pericolosamente utilizza minacce nucleari come strumento di ricatto definibile come “mafioso” (d’altronde war is a racket, scriveva giustamente il generale Butler…).

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Dall’altro non è nemmeno chiaro come questo seguire quasi pedissequamente la strategia di Washington (e quando anche timidamente una voce esce dal coro l’attacco a più livelli è pesante, come si è visto per Scholz) possa prefigurare una qualche prospettiva positiva per l’Unione Europea, anche solo dal punto di vista “di potenza” (militare e politica), tralasciando approcci di pace.

Diversamente dalle inconsistenti e strumentali retoriche spese a piene mani, l’Europa sta uscendo a pezzi a seguito del primo anno di invasione russa dell’Ucraina: la Francia continua a volersi ritagliare un ruolo di braccio militare in quanto unica potenza nucleare del continente, la Germania oscilla tra vari interessi con un difficile equilibrio politico interno, i Paesi dell’est hanno amplificato il loro approccio da falchi pro-NATO, è pure crollato il caposaldo della neutralità scandinava e in generale c’è poco coraggio da parte di governi o delle stesse istituzioni europee nel proporre percorsi di pacificazione. Gli elementi costitutivi dell’Unione vengono tralasciati e dimenticati, solo andando a traino dei pochi timidi tentativi diplomatici, mentre dalle parti di Bruxelles sono stati solo capaci di mettere soldi a disposizione dell’industria delle armi.

Un comparto, quello militare-industriale, che fin dal principio dell’invasione ha visto crescere le proprie aspettative di alto guadagno – lo dimostrano gli aumenti in borsa addirittura precedenti al 24 febbraio scorso – soprattutto per i giganti di oltre Atlantico. Una recente stima colloca in circa 22 miliardi di dollari il possibile aumento di vendite di armi statunitensi ai partner NATO come semplice effetto della necessità di mettere stock a magazzino a seguito dell’invio di aiuti armati a Kiev.

Se invece vogliamo tornare a quello che conta davvero, cioè alla vita e alla prospettiva di futuro delle popolazioni e comunità in Ucraina e di tutti gli altri luoghi del mondo in guerra, bisognerebbe smetterla di banalizzare ogni decisione come se si stesse solo asetticamente giocando ad un Risiko globale. Pericoloso per i più, ma vantaggioso in termini economici e politici per alcuni gruppi di potere. Non a caso sono quasi esclusivamente gli analisti “geo-politici” (o coloro che hanno vantaggi specifici di varia natura) a ragionare in tali termini, che invece raramente vengono proposti dai militari (ben più seriamente consci degli impatti negativi delle guerre).

Si potrà forse discutere all’infinto del ruolo delle forniture di armi nei mesi scorsi, ma ciò che è drammaticamente chiaro è la loro inefficacia nell’aiutare a risolvere il conflitto in una direzione di Pace reale. Perché – è altrettanto chiaro – sono stati sempre deboli, superficiali, interessati i (pochi) tentativi di costruzione di un percorso diplomatico che curi l’insicurezza globale che è la motivazione primaria e di base anche di questa guerra. Percorsi diplomatici invece vanamente invocati da popolazioni e società civili.

Clemenceau diceva che la guerra è una cosa troppo seria per lasciarla ai militari. Il problema è che la Pace è ancora più seria ed importante per lasciarla in mano a decisori politici che vedono le armi come unica soluzione.

* Coordinatore Campagne – Rete Italiana Pace e Disarmo

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BELMARSH TRIBUNAL A WASHINGTON DC. Lo scorso venerdì si è tenuto il terzo Belmarsh Tribunal a Washington (i primi due si celebrarono a New York e a Londra), in una sede simbolica: il National Press […]

Assange è un maestro di giornalismo, non un nemico pubblico

Lo scorso venerdì si è tenuto il terzo Belmarsh Tribunal a Washington (i primi due si celebrarono a New York e a Londra), in una sede simbolica: il National Press Club. Si tratta di una sorta di corte alternativa a quella londinese dove si sta decidendo in merito all’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti.

Com’è tristemente noto, il fondatore di WikiLeaks rischia oltre oceano una condanna a 175 anni di carcere. E in questi giorni il verdetto pare approssimarsi.

Il luogo prescelto è stato particolarmente significativo, perché lì Assange presentò tredici anni fa il video «Collateral murder», quel terribile materiale che documentava l’uccisione di civili innocenti in Iraq da parte di un elicottero statunitense Apache. Tra le vittime vi furono anche due giornalisti dell’agenzia Reuters e un padre che stava accompagnando i figli a scuola.

Quel video fece subito il giro della rete e suscitò tanto vaste reazioni critiche verso gli Stati Uniti, quanto un’immediata reazione coercitiva da parte di questi ultimi. Assange fu preso di mira e assurse al ruolo di nemico pubblico da buttare in una cella del peggiore penitenziario dell’amico americano.

Quel video fu come il fischio di inizio, dunque, della persecuzione messa in atto in sequenza dalla Svezia, dall’Australia, dalla Gran Bretagna e dagli stessi Usa contro un cronista scomodo per i poteri e le loro macchinazioni all’ombra di segreti impronunciabili.

 

Il National Press Club è a due passi dalla Casa Bianca e anche questo ci vuole raccontare qualcosa. Il presidente Biden, pur sollecitato dal collega brasiliano Lula e da quello della Colombia Gustavo Petro, nonché da alcune delle principali testate del villaggio globale che a suo tempo collaboravano con WikiLeaks, per ora tace.

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Il Tribunale si ispira agli omologhi voluti da Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre, organizzati per indagare sui crimini americani nella guerra del Vietnam. La giustizia andava ricercata con rigore e precisione, fuori dall’ufficialità e dai suoi fariseismi. L’opinione pubblica va coinvolta e resa protagonista.

Dagli interventi è emersa nettissima la denuncia della falsa democrazia esibita da paesi che mascherano i propri misfatti con simulacri istituzionali, peraltro sempre più vacillanti.

Oltre ad Assange, sono ben 360 i giornalisti incarcerati nel mondo

Assange, infatti, è solo il primo di una lista di ben 360 giornalisti incarcerati in giro per il villaggio globale, cui vanno aggiunti coloro che hanno perso la vita.

L’informazione libera, capace di ficcare il naso negli arcani delle Cancellerie e delle guerre, va imbavagliata. Ecco l’ordine esibito. WikiLeaks è il capro espiatorio, l’ammonimento per coloro che intendono scrivere articoli o girare servizi in modo indipendente e tenendo la schiena dritta.

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Nel corso degli interventi si sono sentite le voci di chi sta sostenendo tale lotta emblematica come giornalista, avvocato o con durissime battaglie giudiziarie: Steven Donzinger, Jesselyn Radack, Bett Nedsger, Stefania Maurizi, Daniel Ellsberg, Srecko Horvat, Amy Goodman, Jeffrey Sterling, Margaret Kunnstler, Hrafnson Kristinn, Chip Gibbons, Kevin Gosztola, Katrina Vandel Heuval. Alcuni dei nomi.

Si è sentito Jeremy Corbyn, che ha sottolineato come la politica vada sottoposta a verifica attraverso la libera informazione, senza la quale è difficile evocare la democrazia.

Particolarmente emozionante è stato il discorso svolto con una voce stanca e flebile dal padre di Assange, che ha metaforicamente urlato contro l’abbandono della Magna Charta e dello stato di diritto.

Il Tribunale alternativo vuole essere la critica pratica dell’insufficienza degli organismi internazionali, che dovrebbero vigilare e difendere le garanzie per le persone, insieme agli spazi della legittima denuncia dei crimini potenti e dei potenti.

Chi ascolterà un simile angosciante grido di dolore? Parlamento italiano, batti un colpo, per favore

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CRISI UCRAINA. Dopo il vertice di Ramstein del «gruppo di sostegno» a Kiev, il dilemma americano e della Nato: fino a che punto bisogna armare l’Ucraina?

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Dopo il vertice di ieri a Ramstein del «gruppo di sostegno» a Kiev, resta il dilemma americano e della Nato: fino a che punto bisogna armare l’Ucraina? Soprattutto restano i dubbi nell’Alleanza di fronte a una escalation militare pericolosa ma che ormai sembra scontata. Forse troppo, mentre i tedeschi rifiutano ancora i loro Leopard all’Ucraina.

È vero che gli Usa hanno stanziato altri 2,5 miliardi di dollari di armi – Washington ha armato Kiev per circa 30 miliardi. Ma è anche vero che la questione dei Panzer tedeschi Leopard acuisce le divisioni tra una Nato «atlantica», quella di Berlino che per ora esita assai a inviare i suoi tank all’Ucraina, e una Nato «baltica» dove la Polonia scalpita per schierare i Leopard e addestrare gli ucraini.

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La Germania, come ha fatto capire il neoministro della difesa Boris Pistorius, potrebbe concedere l’export dei suo Leopard venduti alla Polonia (più di 300) e ad altri Paesi come la Finlandia (in attesa del via libero turco a entrare nella Nato) ma condiziona l’invio dei panzer tedeschi (non operativi prima di qualche mese) a un’analoga decisione Usa. Per altro gli stessi americani hanno escluso di dare a Kiev i loro sofisticati e potenti Abrams, che non vorrebbero mai vedere finire in mano a Mosca come accadde con gli iracheni a Baghdad nel 2003. Leopard che, pur veloci e potenti, senza un appoggio di protezione sono vulnerabili: l’Isis ne decimò qualche dozzina ai turchi nell’assedio della città siriana di Al Bab nel 2017. Sembrano guerre di un secolo fa ma sono i lampi sanguinosi e dimenticati del disordine mondiale arrivato fino a oggi.

Ma quando dovrebbe essere pronta la nuova armata ucraina? Entrando ieri a vertice di Ramstein con il segretario alla Difesa Lloyd Austin, il capo di stato maggiore americano Mark Milley ha dichiarato che «in primavera gli ucraini potrebbero essere in grado di riprendere i territori perduti 11 mesi fa». Il generale non ha fatto cenno alla Crimea, come invece è tornato a chiedere di recente Zelenski ponendo come condizione per le trattative il ritiro delle truppe russe alle frontiere del 1991. Come del resto lo stesso presidente ucraino all’inizio del conflitto aveva aperto la porta a uno status di neutralità dell’Ucraina e a un limite alla cooperazione militare con la Nato, mentre adesso punta esplicitamente a vincolare Kiev strettamente all’Alleanza Atlantica, come insiste Stoltenberg. Uno scacco che il Cremlino non sembra pronto ad accettare, soprattutto ora in una fase agitata e difficile da decifrare, caratterizzata dalla sostituzione del generale Sergei Surovikin con il capo di stato maggiore generale Victory Gerasimov e dall’ascesa del Gruppo Wagner e delle milizie cecene.

Il Pentagono, più della Casa Bianca, si è fatto promotore della diplomazia di Washington. Secondo le dichiarazioni di Milley delle scorse settimane durante l’inverno un allentamento dei combattimenti avrebbe potuto aprire «una finestra di opportunità per i negoziati». Per il momento non sembra sia così, anche se i militari americani hanno maturato la convinzione che nessuno dei due campi possa infliggere una sconfitta definitiva all’altro, pur evidenziando la rispettiva determinazione a proseguire i combattimenti. Parlando a novembre davanti all’Economic Club di New York il generale Milley era stato stato abbastanza esplicito: «Devono riconoscere entrambi che probabilmente non ci sarà una vittoria militare, nel senso stretto del termine, realizzabile per vie militari. E quindi è necessario volgersi verso altre opzioni».

Quale potrebbe essere allora, se esiste, la «strategia» del Pentagono? Forse il fallimento (o meglio il contenimento) di tutte e due le offensive, trasformando il conflitto in una guerra di logoramento e creando le condizioni di un congelamento delle operazioni militari con un successivo cessate il fuoco.

Vengono in mente gli esempi della guerra di Corea, Cipro o del conflitto Iran-Iraq, quando gli Usa adottarono la politica del «doppio contenimento»: nessuno doveva vincere sullo Shatt el Arab. Il problema oggi è che la Russia ha tentato con la forza di ridisegnare le frontiere violando gravemente la Carta dell’Onu e la sua condanna è stata generale anche da parte di potenze legate a Mosca come Cina, India e Iran.

E veniamo a noi europei. L’osservazione più interessante forse l’ha fatta ieri su France Inter il collega Pierre Haski (da noi tradotto su Internazionale). Quale paese europeo avrà l’esercito più potente nei prossimi anni? In condizioni normali la risposta sarebbe la Francia, unica potenza nucleare dopo l’uscita di Londra dall’Unione. Ma le cose cambiano. Se mettiamo da parte il nucleare, l’esercito principale dell’Unione sarà presto quello della Polonia che di recente ha investito 15 miliardi di euro nella difesa.

Ma non è l’unica conseguenza della guerra in Ucraina. A cambiare profondamente sono tutti gli equilibri interni della Ue, con uno sbilanciamento a favore del fronte orientale. Anche di questo dovranno parlare Scholtz e Macron quando dopodomani celebreranno a Parigi i sessanta anni della riconciliazione franco-tedesca del 1963. C’è poco da festeggiare. E quanto all’Italia cosa farà? Il ministro della difesa Crosetto ha confermato che aiuteremo l’Ucraina nei sistemi di difesa antimissile (Eurosam) aggiungendo però che «tutto, come prima, resterà secretato». Passano le stagioni, cambiano i governi ma i metodi restano gli stessi

 

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CRISI UCRAINA. Respinto il ricorso, condanna a un anno per aver rifiutato la leva. Segue il caso il Movimento Nonviolento, presente in aula con un avvocato. L’appello delle reti internazionali antimilitariste e nonviolente

 Una manifestazione per la pacedi fronte al Bundestag a Berlino - Getty Images/John MacDougall

Si aprono le porte del carcere per Vitaly Alekseienko, obiettore ucraino di fede evangelica che ha rifiutato la mobilitazione. La Corte d’Appello di Ivano-Frankivsk ha respinto il ricorso e la condanna ad un anno è diventata esecutiva.

«Ho infranto la Legge dell’Ucraina, ma sono innocente secondo la Legge di Dio. Non ho paura, nemmeno della prigione», ha dichiarato. Classe 1976, viveva a Slovyansk, nella regione orientale di Donetsk, al momento dell’invasione russa nel febbraio 2022. Si è rifugiato a Ivano-Frankivsk a maggio e l’Ufficio reclutamento lo ha convocato il 2 giugno.

Ha detto loro che non poteva prendere le armi per le sue convinzioni religiose di cristiano, chiedendo di prestare un servizio alternativo: richiesta respinta perché non prevista dalla legge marziale.

Il Movimento Nonviolento, nella campagna Obiezione alla guerra, segue il caso. L’avvocato Nicola Canestrini, su mandato del Movimento, si è recato in Ucraina per l’udienza di dicembre scorso, come osservatore per i diritti umani, per interloquire con l’imputato e i rappresentanti della Corte, ottenendo il supporto dall’Ordine degli Avvocati ucraini: «Il governo ucraino dovrebbe salvaguardare il diritto all’obiezione di coscienza al servizio militare, anche in tempo di guerra, rispettando gli standard della Corte europea».

Pronto l’appello delle reti internazionali antimilitariste e nonviolente che chiede di revocare subito la condanna che viola l’articolo 18 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, inderogabile anche in tempo di emergenza pubblica.

Il caso di Alekseienko è il primo in cui la Corte adotta una linea dura. Per altri quattro casi era stata concesso la sospensione della pena detentiva e la libertà vigilata. Prima delle Legge marziale 5mila giovani ucraini avevano chiesto di svolgere un servizio civile alternativo a quello militare.

*Presidente del Movimento Nonviolento

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INNOVAZIONE. I modelli di linguaggio di ChatGPT, sono “pappagalli stocastici”, replicano ogni discorso ascoltato, senza associare alle parole significato o comprensione

Scrivi cosa vuoi, l'intelligenza artificiale lo disegna

È impossibile ignorare il rumoroso dibattito sull’intelligenza artificiale causato dal lancio di ChatGPT, uno strumento che OpenAI, ha reso pubblico lo scorso novembre. Si può interagire con un bot che risponde a domande scritte, instaurando una conversazione plausibile su temi anche complessi, eseguendo ordini per realizzare testi scritti, componimenti, poesie, sceneggiature o piccoli saggi, con bibliografia inventata inclusa. Il bot commette errori stupidi, mentre fornisce repliche a questioni scientificamente difficili in modo semplice e pertinente, mischiando risposte giuste e sbagliate. È un sistema sintattico, non sa ciò di cui parla, ma è convincente nel simulare interazioni testuali.

Siamo costretti a svolgere lo scomodo ruolo di correttori della macchina che si presume intelligente, ma è inaffidabile. Nonostante le imprecisioni, la chat ha conquistato l’interesse di Microsoft che vorrebbe integrarla nel suo motore di ricerca Bing, e per questo investirà nel progetto altri 10 miliardi di dollari, portando la valutazione di OpenAI a 29 miliardi.

I modelli di linguaggio generativi a cui appartiene ChatGPT, sono “pappagalli stocastici”, o nuove versioni della ninfa Eco, capace di replicare ogni discorso ascoltato, senza associare alle parole significato o comprensione. Molte delle nostre attività intellettuali passano per la scrittura di testi e il sistema può simulare una capacità linguistica associata a livelli cognitivi medio-bassi o in formazione. La questione dei compiti a casa, infatti, è una delle maggiori preoccupazioni.

Come sarà possibile accertare che i compiti assegnati come temi o risposte a domande scientifiche siano davvero il frutto del lavoro cognitivo degli studenti? Il dato è tratto: bisognerà conviverci anche a scuola, immaginando strategie, selezionando attività e progettando metodi per lo sviluppo della creatività degli studenti. Il problema non è tanto la capacità reale dei bot, ma la tendenza a delegare loro funzioni umane, compresa quella artistica.

I modelli generativi per la riproduzione del linguaggio, oltre che delle immagini (Dall-E, Midjourney, Stable Diffusion e altri), sono complessi sistemi sociotecnici che hanno al loro interno diversi strati di attività svolti direttamente dall’intelligenza umana. Ad alto livello troviamo i programmatori che definiscono regole e vincoli per analizzare enormi quantità di dati, disponibili nei corpora testuali delle pagine web realizzate da persone, o nelle immagini usate per l’addestramento.

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Ci sono anche altri interventi umani come segnala un articolo di Billy Perrigo del 18 gennaio scorso su The Time: lavoratori kenioti pagati meno di 1.50 dollari all’ora, impegnati, per conto di OpenAI, a etichettare discorso di odio, espressioni di violenza sessuale e altro materiale esplicito per insegnare alla macchina a non riprodurre certe frasi. L’educazione sentimentale della macchina, potremmo dire. Lavoratori sfruttati, parte integrante del complesso sistema industriale che ha contribuito ad automatizzare il servizio.

Altri soggetti umani intervengono per i controlli di qualità, compresi noi che interroghiamo il Chatbot e restituiamo il nostro feedback, a sua volta analizzato da personale specializzato. Non si tratta, quindi, di un apparato autonomo e indipendente, ma della cattura di un processo di intelligenza collettiva, standardizzata, e intrappolata in un sistema che la restituisce nella forma di una mimesis prefabbricata e ripetitiva. Il meccanismo calcola la probabilità statistica che a una certa parola o insieme di parole (token) ne segua un altro. Per questo predilige affermazioni convenzionali, banali, normali.

ChatGPT ci potrebbe aiutare a distinguere tra differenza e ripetizione nel linguaggio. Le formule retoriche inutili, contro le parole che non abbiamo mai pensato, imprevedibili. Potremmo confinare alla macchina i convenevoli noiosi. Ma per farlo dovremo governare la politica del processo di automazione. Viviamo tempi di interregno, come suggerisce Benedetto Vecchi, nel suo libro postumo Tecnoutopie (DeriveApprodi, 2022), citando Gramsci: il vecchio non è ancora morto e il nuovo stenta a nascere.

Non ci sono esiti deterministici nell’adozione delle tecnologie. Occorre, però, gestire i processi e non esserne gestiti, pena il percorso a ritroso dalla liberazione che la scienza moderna ci ha offerto, con il rientro nella minorità dalla quale i Lumi ci avevano faticosamente estolto. Che ne sarebbe della scrittura se il sistema dovesse addestrarsi solo su testi che ha autoprodotto, e le persone non sapessero più leggere o scrivere?

Potremmo entrare, forse, in un’era in cui creazione e trasmissione della conoscenza non dipenderebbero solo da una agency umana, né dovrebbero per forza avvenire in forma testuale. Potremmo sperare in una eterogenesi dei fini delle macchine, che le sottrarrebbe al loro destino normativo e prevedibile, ma è improbabile. La scrittura è una tecnologia inventata poco più di cinquemila anni fa, e potrebbe finire come metodo per esternalizzare la memoria umana. Il futuro sarà il risultato di decisioni che prenderemo insieme.

Billy Perrigo Exclusive: OpenAI Used Kenyan Workers on Less Than $2 Per Hour to Make ChatGPT Less Toxic The Time, 18 Jan 2023

 

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