Perché è importante partecipare alla conferenza sul Trattato per la proibizione delle armi nucleari (Tpnw)? Perché oggi più che in passato esiste purtroppo una minaccia concreta che vengano utilizzate. Se non ci fosse, Putin non potrebbe tenere il mondo con il fiato sospeso.
La messa al bando di questi ordigni è il tema di cui si discute a Vienna, dove è in corso il primo vertice degli Stati parte del Tpnw. Un accordo siglato nell’ambito dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 7 luglio del 2017, che nell’ottobre del 2020 ha ottenuto la cinquantesima ratifica ed è entrato in vigore il 22 gennaio 2021.
Nessun Paese della Nato è tra i firmatari ma cinque di essi – Germania, Paesi Bassi, Belgio, Australia e Norvegia – hanno deciso di partecipare all’appuntamento austriaco come osservatori, un segnale di attenzione nei confronti dei valori che ispirano l’accordo.
Dei quattro Stati dell’Unione europea che ospitano sul proprio territorio testate nucleari Nato, l’Italia è l’unico a non essere presente alla conferenza di Vienna sul Tpnw neanche in veste di osservatore.
E questo nonostante una risoluzione a mia prima firma approvata alla Camera da tutta la maggioranza in cui si chiedeva al Governo di valutare la presenza.
E nonostante 240 parlamentari italiani, tra cui l’attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio e altri esponenti dell’Esecutivo, avessero firmato nell’ottobre 2017 un appello per l’adozione del trattato. Difficile comprendere le ragioni di questa assenza e della mancata sottoscrizione del trattato.
Eppure il rischio nucleare è sempre più concreto.
Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, le minacce pronunciate o ventilate da Putin e da esponenti del governo russo hanno dimostrato che l’utilizzo delle armi nucleari non è una lontana ipotesi. Anche per questo era importante che il Governo italiano partecipasse all’appuntamento, che invece vede la mia presenza nella sessione destinata ai parlamentari e la presenza del presidente del consiglio comunale di Brescia Roberto Cammarata, in quella destinata agli enti locali. L’aumento dei conflitti in ogni angolo del pianeta certifica inoltre che la ‘deterrenza nucleare’ non è garanzia di pace e di stabilità. Obiettivi che la comunità internazionale dovrebbe continuare a perseguire per evitare il baratro dell’estinzione del genere umano.
E un modo per farlo è proprio proibire le armi nucleari, come richiesto in modo accorato, nel corso della Conferenza, dalle vittime dei test nucleari tra cui Karipbek Kuyukov, pittore kazaco nato senza braccia a causa delle radiazioni dei test sovietici.
Il Trattato per la messa al bando di queste ordigni è un atto di saggezza e di responsabilità. Dimostra anche che quando c’è una grande motivazione pure gli obbiettivi più difficili si possono raggiungere.
Le organizzazioni della società civile di molti Paesi hanno dato vita nel 2007 alla International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (Ican) finalizzata a fornire, attraverso un Trattato, lo strumento giuridico per la progressiva e totale eliminazione delle armi nucleari. Questa campagna ha ricevuto nel 2017 il Premio Nobel per la Pace.
Mi ha fatto piacere ricevere l’invito a partecipare alla conferenza di Vienna dalla direttrice della campagna Ican Beatrice Fihn e dalle associazioni che in Italia hanno promosso la campagna: Rete italiana Pace e Disarmo e Senzatomica.
Seguo queste associazioni fin dalla scorsa legislatura e conosco il loro impegno per liberare il pianeta dal pericolo che le armi nucleari possano distruggerlo.
Lo stesso impegno che mi spinge ad andare avanti affinché l’Italia si coinvolga sempre di più nel processo di disarmo nucleare.
Lo slogan della campagna Ican nel nostro Paese è «Italia, ripensaci», cioè: aderisci al Trattato. Continueremo a lavorare perché ciò avvenga. Come ha detto aprendo i lavori a Vienna il segretario generale delle Nazioni Unite António Guterres: «Eliminiamo le armi nucleari prima che loro eliminino noi’».
* Deputata del Pd e Presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo
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INTERVISTA. Il filosofo italiano, autore tra l'altro di "Potere costituente" e di "Assemblea" (con Michael Hardt), vive da quarant'anni a Parigi e interviene nel dibattito sulla sinistra e le elezioni legislative in Francia: "C’è qualcosa di nuovo oggi in questo paese che riempie un vuoto della mediazione sociale. Per ora si può dire che questo è l’esito della convergenza delle lotte e dei movimenti e si dà nella forma di un doppio potere che mette in profonda discussione la costituzione della Quinta repubblica"
«Alle elezioni legislative in Francia nessuno si aspettava che potesse darsi un tale aumento dei voti fascisti al partito di Marine Le Pen – sostiene Toni Negri, 89 anni, filosofo e uomo politico da Parigi dove vive da quarant’anni – La Nouvelle Union populaire écologique et sociale (Nupes) è riuscita a modificare la vecchia stratificazione di classe, a ricostruire una sinistra attraverso un processo nato in maniera autonoma e
nonostante il sistema elettorale».
Quali implicazioni comporta questa affermazione impressionante del Rassemblement National?
È un brutto fantasma che riappare davanti ai nostri occhi ed è una conseguenza della rottura del patto repubblicano che escludeva i fascisti da qualsiasi alleanza. Questo patto ha tenuto nel 2002 quando il socialista Jospin fu escluso dal ballottaggio e Chirac prese la stragrande parte dei voti contro Le Pen padre. Nel 2022 il patto è stato usato da Macron per prendere i voti della sinistra e ottenere la conferma da presidente, ma è saltato alle legislative di domenica scorsa. Circa il 30 per cento dei ballotaggi tra Le Pen e Nupes ha visto la vittoria dei fascisti. Questa è una responsabilità dei macronisti.
L’elettorato francese appare spaccato in tre blocchi (quattro con l’astensionismo). In questo quadro l’odio per la sinistra giustifica, agli occhi dei neoliberali, una simile crescita dei lepenisti?
Questo accade appena una vera sinistra riappare e costituisce un impedimento alle politiche del capitale finanziario fatte da Macron. La distruzione di una sinistra è l’anima del suo progetto anche a costo di alimentare, come ha fatto in cinque anni, politiche securitarie e identitarie che favoriscono il consolidamento di una destra fascista. Non è una novità, è una legge della storia e della lotta di classe.
Qual è il futuro del macronismo?
Macron è diventato muto, non riesce più ad essere inteso dalla società. Prendiamo l’età pensionabile che lui vorrebbe portare a 65 anni. Sembrava che la Cfdt (la Cisl italiana) lo seguisse. Ma anch’essa oggi si oppone. Macron ha sempre cercato di tagliare ogni sostegno sindacale e civile alle lotte sociali. Cinque anni fa ha determinato il dissolvimento dei socialisti, oggi le conseguenze si vedono nel fatto che ogni suo progetto politico troverà difficilmente un sostegno durevole. Si parla già di uno scioglimento dell’assemblea nazionale.
Come mai in Francia non si è dato lo scenario italiano, quello di un paese senza sinistra, programmato già a partire dagli anni Novanta?
Perché in Francia non si sono mai sopite le lotte sociali, si sono date in maniera continua e senza interruzione.
La Nupes è un’operazione duratura, capace di radicarsi nei territori, oppure si frantumerà?
Non credo che il fatto che si costituiscano vari gruppi all’assemblea (socialisti, ecologisti, comunisti e France Insoumise) comporti un rischio di dissolvimento della Nupes. Indubbiamente subirà violentissime pressioni perché il capitale finanziario sviluppa un enorme odio contro la moltitudine organizzata. Eppure c’è qualcosa di nuovo oggi in Francia che riempie un vuoto della mediazione sociale fortissimo. Non so se vivrà a lungo, ma al momento si può dire che questo è l’esito della convergenza delle lotte e dei movimenti e si dà nella forma di un doppio potere che mette in profonda discussione la costituzione della Quinta repubblica.
In che modo Jean-Luc Mélenchon ha fatto tesoro dell’ampio fronte sociale anti-Macron, a cominciare dai gilet gialli?
Nel 2017 il movimento dei gilet gialli è maturato sul terreno di classe e ha innovato profondamente la politica. Ha creato una forma di protesta aperta composta da singolarità che si uniscono in un progetto. È un approccio che può dissolvere un’identità settaria e creare una singolarità comunitaria. Macron ha massacrato il movimento con la sua polizia. Poi tutto si è fermato con la pandemia. Mélenchon ha colto il significato di quel processo, pensa a una forma politica che mantenga la ricchezza delle differenze e che su questo la Quinta repubblica è superabile.
Mélenchon è stato definito un «populista di sinistra». Cosa pensa di questa definizione?
A me sembra che questa sia più un’accusa dei suoi avversari che non coincide del tutto con quello che Mélenchon effettivamente è. Più che altro è innegabile la presenza nel suo discorso di elementi di socialismo nazionale o repubblicano alla francese. In ogni caso credo che ci sia stato un cambio nella sua cultura politica e in quella della France Insoumise. Lo si vede dall’atteggiamento che hanno rispetto ai movimenti e alle altre sinistre o sull’Europa politica. Credo che molto abbia influito il Brexit. Quello che è sicuro però è che la Nupes non è una forza che si pone fuori dal patto repubblicano antifascista come hanno detto i macronisti. Da parte loro è stata veramente una grande schifezza.
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NUOVA FINANZA PUBBLICA. La rubrica settimanale a cura di Nuova Finanza pubblica
Il fiume Po ai minimi storici a Boretto (Re), foto Ap
«Quando l’ultimo albero sarà abbattuto, l’ultimo pesce mangiato, e l’ultimo fiume avvelenato, vi renderete conto che non si può mangiare il denaro». Cosi disse nel 1876 Toro Seduto, capo tribù dei nativi americani Sioux Hunkpapa, qualche mese prima della leggendaria battaglia del Little Bighorn. Toro seduto non era uno scienziato dell’Ipcc dell’Onu, ma la sua sintesi meriterebbe di essere scritta in tutti gli edifici pubblici del Paese, in questo inizio estate che ci costringerà a fare davvero i conti con la profondità della crisi eco-climatica.
Paradigmatica è la situazione del Po, il più grande fiume italiano, il cui bacino attraversa la pianura padana e l’intera Italia del Nord. Sono le regioni in cui si sono storicamente concentrate un’agricoltura e un allevamento intensivi, una massiccia industrializzazione, la grande industria energetica, nonché grandi concentrati di popolazione urbana e metropolitana.
Toro Seduto, 1876
«Quando l’ultimo albero sarà abbattuto, l’ultimo pesce mangiato, e l’ultimo fiume avvelenato, vi renderete conto che non si può mangiare il denaro»
Tutte figlie del medesimo paradigma, che è la cifra del modello capitalistico: l’idea della crescita economica come termometro del benessere della società, accompagnata dall’uso di beni comuni presenti in natura dei quali si presuppone l’illimitata disponibilità.
Una situazione accelerata dal modello liberista e dal preponderante ruolo assunto dalla finanza, che ha visto il progressivo ritiro delle istituzioni pubbliche tanto dall’intervento diretto in campo economico, quanto da qualunque idea di programmazione e pianificazione dello stesso, delegate alla ‘autoregolazione dei mercati’.
Peccato che esista una contraddizione strutturale fra come la vita delle persone si organizza nello spazio e nel tempo rispetto a come si declina l’economia di mercato.
La vita delle persone si svolge dentro uno spazio limitato, la comunità di riferimento, e si dipana dentro un tempo lungo che attraversa l’intera esistenza.
Al contrario del mercato che si organizza in uno spazio potenzialmente infinito, l’intero pianeta, ma declina le proprie scelte dentro un tempo estremamente ridotto, l’indice di Borsa del giorno successivo. E’ questa differenza a far sì che gli interessi di mercato siano quasi sempre in diretto contrasto con i bisogni della vita delle persone.
L’economia della pianura padana lasciata al mercato, oltre ad aver prodotto pesanti livelli di inquinamento complessivo che hanno trasformato il serio problema sanitario prodotto dalla pandemia da Covid19 in una tragedia di massa, ha messo in campo un’idea di agricoltura, allevamento, industria e produzione energetica vocate al massimo rendimento nel minimo arco temporale. Una relazione predatoria nei confronti del suolo, dell’aria, dell’acqua, dell’energia e della salute delle persone che ha prodotto grandi risultati di fatturato per le industrie dell’agro-business e di utili in Borsa per le multiutility dell’acqua e dell’energia.
Permettendo alle stesse di comportarsi come quell’uomo del film “L’odio” che, cadendo da un palazzo di 50 piani, man mano che passa da un piano all’altro continua ripetersi «fino a qui, tutto bene», misurando il ‘qui ed ora’ della caduta e non l’esito dell’atterraggio.
Esito che nella pianura padana è arrivato con la più grave crisi idrica degli ultimi 70 anni e il Po ridotto a un rigagnolo circondato da distese di sabbia.
Prima che gli interessi delle grandi lobby scendano in campo per far ricadere la crisi ancora una volta sulle spalle degli abitanti, è il momento che le comunità locali insorgano per prendersi cura del ramo su cui siamo seduti contro chi continua a segarlo. Magari rivendicando che i soldi del Pnrr vadano alla cura e alla manutenzione dei territori invece che a nuove basi militari dentro parchi naturali.
Commenta (0 Commenti)STATI UNITI. Quando è arrivata la temuta notizia della firma per mano dell’ultraconservatrice ministra degli interni britannica Priti Patel in calce all’atto di estradizione di Julian Assange negli Stati uniti la rabbia si è unita subito all’angoscia
Quando è arrivata la temuta notizia della firma per mano dell’ultraconservatrice ministra degli interni britannica Priti Patel in calce all’atto di estradizione di Julian Assange negli Stati uniti la rabbia si è unita subito all’angoscia.
Ne va della vita di una persona, in ballo dal 2009 con la giustizia per accuse che – se mai- dovrebbero essere la base di un premio Pulitzer, avendo rotto il muro di silenzio che aveva sotterrato i crimini di guerra in Iraq e in Afghanistan. Sì, proprio quelli perpetrati dalla parte del mondo che suppone di esportare la democrazia, violandola spesso e volentieri.
Assange è a rischio suicidario, come ha sottolineato la competente perizia medica che ne ha evidenziato la pericolosa sintomatologia. Del resto, il trattamento riservato al fondatore di WikiLeaks dall’11 aprile del 2019 ospite del carcere speciale di Belmarsh di Londra è stato chiaramente definito dal relatore generale dell’Onu come una vera e propria tortura. Non a caso la prigione è soprannominata la Guantanamo inglese e lì vengono reclusi coloro che passano per essere i peggiori criminali. Dopo il lungo faticoso soggiorno iniziato nel 2012 nell’ambasciata dell’Ecuador nel regno unito, si dischiusero le porte dell’orribile penitenziario. Lì, poi, nelle annesse aule del tribunale, si sono consumati i gradi di giudizio che hanno avuto il suggello della ministra nota per la crudele idea di mandare i migranti in Ruanda.
Curiosa la giurisdizione d’oltre Manica, che pure passa per una delle fonti storiche del pensiero liberale: la conclusione del procedimento è a cura del governo.
L’estradizione americana significa una probabile condanna del giornalista australiano, in un tribunale della Virginia – non insensibile alla ben nota Central Intelligence Agency (Cia) – dove pende l’accusa di spionaggio. Per non dover fare i conti con il primo emendamento della costituzione di Washington con la sacralità da esso attribuita al diritto di cronaca, e a differenza del caso omologo dei Pentagon Papers (le 7.000 pagine fatte arrivare da Daniel Ellsberg allora analista militar, al New York Times e al Washington Post), oggi l’accusa si basa sull’Espionage Act del 1917. Peccato che le notizie raccolte da WikiLeaks siano state utilizzate da molti importanti quotidiani, che ora si voltano dall’altra parte.
Julian Assange è il perfetto capro espiatorio, utile a buttare benzina sul fuoco bellicista e aggressivo in atto, a siglare ulteriormente la subalternità britannica verso l’imperialismo maggiore, a dare un pesante ammonimento al giornalismo. Colpirne uno per educarne cento, diceva il motto. Infatti, l’eventuale condanna farà giurisprudenza e coloro che eludono, rimuovono o non vogliono vedere magari saranno le prossime vittime.
Lo strisciante autoritarismo, fondato sulla riduzione della rappresentanza e sul ridimensionamento dell’indipendenza di chi svela gli arcani del potere, sta facendo le prove generali. Il linguaggio della guerra pare entrato nella comune sintassi e la verità esiste a corrente alternata. Se, poi, si ficca il naso sui retroscena dei conflitti, arriva la punizione.
Il padre di Assange ha invitato alla mobilitazione mondiale. Come ha ragione. Il nuovo primo ministro australiano Anthony Albanese aveva annunciato fuochi d’artificio quando era all’opposizione. Si è già rimangiato tutto? E Jean-Luc Mélenchon, in corsa per i ballottaggi francesi, ha sottolineato un impegno fortissimo se vincerà. La commissaria per i dritti umani del consiglio d’Europa si era pronunciata nettamente.
Dunque, la lotta continua. Come ha reso noto il collegio di difesa guidato dalla consorte di Assange Stella Morris verrà inoltrato ricorso contro la decisione della ministra inglese e vi sarà certamente un’iniziativa rivolta alla corte per i diritti dell’uomo di Strasburgo.
Ma è fondamentale che i mezzi di informazione parlino finalmente del pericolo che corrono essi stessi. A questo punto, se non si racconta ciò che sta accadendo, si finisce con l’essere complici di un misfatto.
Sono giornate, queste, che verranno ricordate. Un altro caso Dreyfus è alle viste. Ma a poco servirà se la storia darà ragione tra qualche anno a un coraggioso giornalista adesso vicino alla condanna a morte.
La questione si pone con drammatica urgenza. Piovono appelli e si stanno organizzando sit in e manifestazioni. Ha fatto sentire la sua voce anche l’organizzazione internazionale dei giornalisti, recentemente a congresso in Oman.
Presso la federazione nazionale della stampa si terrà una conferenza il prossimo martedì 21 giugno in collegamento con il premio Nobel per la pace Pérez Esquivel, autore di uno dei più prestigiosi tra i documenti contro l’estradizione.
Qualche fermento si coglie davanti all’enormità della slavina che scende veloce verso l’incosciente cittadella dell’ovest.