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A Gaza è assalto ai forni: i palestinesi senza cibo da 81 giorni combattono per un po’ di pane. Da domenica solo 115 camion di aiuti, «un cucchiaino da tè quando serve un’alluvione», denuncia l’Onu. Israele bombarda le guardie che proteggono i convogli. Un mix di politiche crudeli per distruggere ed espellere

In briciole Solo 115 camion di aiuti entrati da domenica, la gente combatte per un po’ di pane. Il cibo utilizzato come arma per disintegrare la società e spingere i palestinesi a sud. Saccheggiati 15 tir, Unrwa: «Non stupitevi». Un raid israeliano colpisce gli agenti che proteggevano un convoglio, sei uccisi. 50 ammazzati a Jabaliya

La folla di palestinesi affamati all’unico forno aperto ieri a Nuseirat, Gaza La folla di palestinesi affamati all’unico forno aperto ieri a Nuseirat, Gaza

Ayah ha fame. Non trova le parole per descrivere cosa significhi. «Non sono capace di dire che vuol dire essere affamati per così tanto tempo, vivere in luoghi sovraffollati di persone disperate», ci dice. «La fame è così profonda, sembra di toccarla». Parla da Khan Younis, profondo sud di Gaza. È al suo quarto sfollamento.

Le famiglie mandano avanti i più giovani a fendere un varco in mezzo alla folla, le braccia alte sopra la testa, le mani aperte per afferrare una busta di plastica trasparente con dieci pite dentro. Quelle buste chiuse con un nodo così stretto che non si slaccia mai, appannate dal calore del pane appena sfornato, sono ciò che di più quotidiano c’è in Palestina; oggi sono quasi una visione, un miraggio. Succede a Deir al-Balah e a Nuseirat, nel centro-nord della Striscia: qui giovedì è arrivata la prima farina dopo 81 giorni senza aiuti.

I FORNI HANNO lavorato a ritmi forzati per tutta la notte, i panettieri non hanno concesso ai loro corpi nemmeno un minuto di riposo per sfornare più pagnotte possibile. Fuori la folla cresceva, si moltiplicava, diventava una massa unica di persone. Sui volti smagriti e pallidi si legge l’urgenza di una missione: una busta significa che oggi la tua famiglia mangerà qualcosa, niente che basti a soddisfare un vuoto grande due mesi e mezzo.

A Nuseirat dei ragazzi si arrampicano sui muri, altri sulle spalle delle persone in fila. C’è un buco sul muro: la panetteria non ha aperto le porte, è troppo pericoloso, verrebbe travolto. I fornai passano le buste di pite attraverso la piccola breccia, non le vedono nemmeno le facce di chi sta al di là, solo mani che afferrano. Non c’è un centimetro libero tra un corpo e l’altro.

La fame sembra di toccarla, insieme all’urgenza e al senso di umiliazione che sale sopra le teste di quella massa informe. E invece sono volti, anime, persone tramutate in meri corpi che anelano un minimo di sollievo ai morsi dello stomaco e alla vergogna di non poter sfamare i propri figli, che piangono per il dolore, perché la fame è fisica, sembra di toccarla.

 

Israele ha reso palese da mesi l’uso politico che fa degli aiuti umanitari e del divieto a farli entrare. Domenica scorsa l’annuncio tanto atteso: il governo aveva

votato la ripresa all’ingresso dei camion umanitari dai valichi sigillati dal 2 marzo scorso. Il premier Netanyahu aveva rassicurato l’ultradestra, si tratterà di consegne «limitate». È stato di parola.

Da allora a Gaza sono entrati un centinaio di camion, una presa in giro. O l’ennesimo metodo di punizione collettiva e di guerra: una quantità così insignificante vuol dire spingere persone disperate a fare di tutto per una pagnotta. «A Gaza il supporto comunitario, la solidarietà collettiva, era qualcosa di scontato – dice Ayah – Ora non lo è più. È istinto di sopravvivenza».

VUOL DIRE ANCHE preparare la strada alla pulizia etnica, come ribadito pochi giorni fa da Netanyahu: la disperazione della fame farà da calamita, verso sud e i centri che la fondazione Usa aprirà, un girone infernale di umiliazione e difficoltà a reperire i viveri. Elemosina prima della cacciata.

Ieri è successo quello che la Mezzaluna rossa aveva previsto: 15 camion del World Food Programme sono stati presi d’assalto nella notte tra giovedì e venerdì, nel sud di Gaza. «Trasportavano aiuti alimentari vitali alle panetterie del Wfp», si legge nella nota dell’agenzia. Il problema, scrive, è che gli aiuti sono troppo pochi e troppo lenti. Non specifica chi abbia saccheggiato i camion, se gang organizzate o civili. Un tassello lo aggiungono le agenzie stampa che ieri riportavano di un raid dell’esercito israeliano contro il gruppo di poliziotti palestinesi – quel poco che resta di un corpo decimato in venti mesi di offensiva – che si era posto a protezione di tir umanitari a Deir al-Balah.

Sei agenti sono stati uccisi. Il bombardamento è giunto in contemporanea al tentativo di gang di assaltare gli aiuti: un attacco coordinato, denunciano i palestinesi, «parte di un piano di ingegneria della fame…volto ad assicurare che forniture essenziali non raggiungano i beneficiari», commenta l’ufficio stampa del governo di Gaza.

Di «fame come arma di guerra» ieri è tornato a parlare Philippe Lazzarini, il capo di Unrwa, l’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi. Dice di non stupirsi dei saccheggi, «la gente di Gaza è stata affamata e deprivata per oltre undici settimane». Parla anche Antonio Guterres, segretario generale dell’Onu, insieme a Unrwa tra i target preferiti del governo Netanyahu: questa è «la fase più crudele di un conflitto crudele», 115 camion e procedure complesse imposte da Israele sono «un cucchiaino da tè di aiuti quando servirebbe un’inondazione».

GAZA NON PUÒ però preoccuparsi solo della fame. Le bombe continuano a cadere. Ieri la strage peggiore è avvenuta a Jabaliya, con oltre 50 palestinesi tra uccisi e dispersi nel bombardamento israeliano di un edificio di cinque piani, letteralmente spianato. La maggior parte delle vittime erano membri della famiglia Dardouna.

«Israele uccide per divertimento – dice un sopravvissuto ad al-Jazeera – Il mio nipotino è morto. Mio figlio lo aveva chiamato Mohammed, come suo fratello, ucciso a ottobre 2023». Venti mesi fa: in mezzo 70mila uccisi, compresi 15mila dispersi, e 122mila feriti. 629, dice l’Onu, sono i palestinesi uccisi nell’ultima settimana; almeno la metà ammazzati in attacchi contro le tende o gli scheletri di case dove avevano trovato rifugio.
chiara cruciati