Funzionari di polizia contro il viceministro ai Trasporti di Fdi Galeazzo Bignami. L’accusa non è di poco conto: Bignami avrebbe cercato di condizionare il comportamento degli agenti mercoledì scorso a Forlì, in occasione della visita della premier Meloni e della presidente della commissione Ue Ursula von der Leyen, accompagnata da proteste degli alluvionati.
Secondo Enzo Letizia, segretario dell’associazione nazionale funzionari di polizia, Bignami «ha platealmente protestato con il dirigente del servizio di ordine pubblico perché, a suo dire, si consentiva a dei facinorosi di manifestare vicino al palazzo del Comune, accusando d’incompetenza i responsabili dell’ordine pubblico. Tale comportamento solleva questioni importanti che riguardano il diritto alla libera espressione». Secondo Letizia «le azioni e le opinioni del sottosegretario potrebbero apparire e/o essere interpretate come un tentativo di limitare il fondamentale diritto di manifestare».
Il Pd ha presentato un’interrogazione alla premier Meloni e al ministro degli Interni Piantedosi per chiedere «se non ritengano che il comportamento del viceministro sia andato non solo oltre le proprie competenze, ma soprattutto oltre i limiti costituzionali». Duro il senatore dem Daniele Manca: «Si è atteggiato a “federale”: è evidente che nel dna di Bignami, che ama vestirsi da nazista, non ci sono i principi democratici e il rispetto dei diritti ma solo l’arroganza del potere».
«Siamo ben oltre il livello di guardia», attacca Nicola Fratoianni. «Se qualcuno pensa di essere padrone del Paese e di poter sequestrare la democrazia si sbaglia di grosso. Chiederemo al ministro Piantedosi di spiegarlo in Parlamento». Secondo Riccardo Magi di + Europa «ha fatto bene il sindacato di Polizia a rendere note le indebite pressioni» ricevute. «Il governo Meloni ha un’attitudine predatoria e pensa di essere padrone dello Stato».
In serata Letizia ha fatto sapere di essersi sentito al telefono con Bignami: «Ci siamo chiariti. Non appartiene al nostro ruolo essere contro qualcuno, volevamo solo fissare alcuni principi»
IL MURO DI BERLINO. In Germania sale la mobilitazione antifascista. In molti comuni si riempiono le piazze e sabato 3 febbraio una catena umana si alzerà a proteggere il Reichstag dal fuoco neonazi. Spd e Verdi pensano al taglio dei contributi per Afd, non allo scioglimento
La manifestazione antifascista domenica a Berlino - Ap
Non si ferma l’ondata antifascista che ormai ha investito ogni singolo comune della Repubblica federale tedesca. Ieri il terzo giorno di mobilitazione a tutti i livelli con centinaia fra cortei organizzati, manifestazioni spontanee, sit-in, dibattiti e assemblee pubbliche per chiedere di arginare il boom dell’estrema destra nel formato doppiopetto di Afd quanto la messa fuorilegge delle decine di gruppi neonazisti da anni incistati nella socialdemocrazia.
Una piazza coincidente ormai con l’intero Paese e nessuna intenzione di ridursi o, peggio, sciogliersi dopo il “sussulto” di coscienza iniziale, prima del prevedibile calo dell’interesse mediatico.
Ieri quasi 200 organizzazioni della società civile tedesca hanno fissato la «demo generale dell’Antifascismo» che vedrà la partecipazione in massa dei cittadini ma anche delle massime cariche istituzionali della Bundesrepublik: il prossimo 3 febbraio attorno al palazzo del Reichstag, l’attuale sede del Parlamento, verrà eretto il gigantesco «Brandmauer», il «Muro tagliafuoco» contro il pericolo d’incendio dell’estrema destra.
UNA VERA E PROPRIA catena umana per proteggere il luogo principe della democrazia. «Sarà l’abbraccio al Bundestag. La nostra alleanza non a caso si chiama
Leggi tutto: Tutti contro Afd, ma il governo non vuole scioglierla - di Sebastiano Canetta, BERLINO
Commenta (0 Commenti)Dalla Gran Bretagna all’Australia le lotte di sindacati e reti di attivismo anticoloniale si intrecciano. Con milioni di persone in piazza per Gaza, Londra continua nel sostegno armato a Tel Aviv. Calderoli, l’ultimo giapponese del federalismo di Bossi. Negli anni 90 l’ampolla e la secessione, poi i saggi di Lorenzago partoriscono la devolution. Nel 2009 la Lega ci riprova col federalismo fiscale. Fino all’autonomia di oggi. Lo stupro di gruppo sul Metaverso ai danni di una ragazza inglese di meno di sedici anni ha innescato un dibattito antico e al contempo nuovo sul rapporto tra realtà virtuale e fisica. Nella foto:Una donna si immerge nell’acqua gelida come rito tradizionale per l’Epifania Ortodossa in Russia @AP Questo e molto altro tra le storie del Lunedì Rosso. Per iscriverti gratuitamente alla newsletter vai sul tuo profilo e gestisci le iscrizioni.
Leggi ultimo numeroIL CASO. L'associazione dei partigiani: "Siamo da sempre impegnati nella ricerca e nella costruzione del dialogo e nel perorare ogni possibilità di disarmo, cessate il fuoco e trattative diplomatiche, al fine della realizzazione dell’obiettivo fondamentale: la pace"
Non si può mettere sullo stesso piano la Shoah con la pur terrificante situazione odierna a Gaza. Lo scrive in una nota il comitato nazionale dell’Anpi per quella che una presa di posizione sul caso della sezione locale dell’associazione dei partigiani di Bagno a Ripoli, nel fiorentino, che in vista della Giornata della memoria aveva promosso, insieme ad Assopace Palestina, un incontro intitolato «Mai più: 80 anni fa lo sterminio del popolo ebraico da parte dei nazisti. Oggi il genocidio del popolo palestinese da parte dello stato di Israele». L’accostamento ha suscitato le ire della comunità ebraica fiorentina e dell’Anpi provinciale, con il circolo Arci di Antella che è arrivato a revocare la disponibilità ad ospitare l’iniziativa (si farà lo stesso, al Centro popolare autogestito di Firenze Sud).
Scrive l’Anpi nazionale: «È un errore gravissimo mettere sullo stesso piano, in occasione del giorno della Memoria, l’incommensurabile tragedia della Shoah e altre, pur terrificanti vicende del nostro tempo, a cominciare dall’inammissibile e vergognosa mattanza che l’attuale governo israeliano sta ininterrottamente compiendo da più di cento giorni nei confronti del popolo di Gaza dopo il barbaro attacco di Hamas ai civili israeliani del 7 ottobre 2023». E ancora: «Radicalizzando le posizioni con questo intollerabile parallelo non solo si offende la memoria di milioni e milioni di ebrei sterminati dalla macchina di morte nazista, ma si danneggia pesantemente anche l’impegno per l’immediata cessazione dei bombardamenti su Gaza e per la ricerca di una soluzione politica al tragico conflitto in corso. Tale soluzione non può che essere quella di due popoli in due Stati, a garanzia della sicurezza di entrambi».
L’Anpi di Bagno a Ripoli e Assopace Palestina si sono comunque detti «sconcertati» dalle polemiche e dalla decisione dell’Arci di non offrire la propria sede. «Riteniamo che fare memoria degli orrori e dei crimini di ieri, abbia fra i suoi scopi fondamentali evitare che i crimini si ripetano oggi. Il nostro auspicio sincero, pur nella consapevolezza della sua difficile realizzazione, è che la comunità ebraica e i sostenitori senza riserve della politica israeliana, riescano ad allargare il loro orizzonte di valutazione, alla stregua di tanti gruppi e associazioni ebraiche; ciò le consentirebbe di entrare in dialogo con quel mondo, che vuole rigettare l’orrore e l’ingiustizia di qualunque provenienza».
Il presidente dell’Anpi ripolese Luigi Remaschi, inoltre, sottolinea come sia prassi della sua sezione partecipare alle varie iniziative sulla Giornata della memoria, dando però spazio anche a vicende contemporanee: in passato già era stato dato spazio alla questione palestinese, così come, ad esempio, ai curdi e ai sahrawi
L’Anpi nazionale, dal canto suo, fa sapere di voler rimanere fedele al Giuramento di Mathausen, «incardinato sui valori di pace, libertà e giustizia sociale. Da ciò deriva la solidarietà internazionale che è ben presente nella nostra memoria e per questo l’ANPI è da sempre impegnata nella ricerca e nella costruzione del dialogo e nel perorare ogni possibilità di disarmo, cessate il fuoco e trattative diplomatiche, al fine della realizzazione dell’obiettivo fondamentale: la pace»
Commenta (0 Commenti)«Siamo stufi, chiediamo un accordo con Hamas». Accampati sotto casa di Netanyahu, i familiari degli ostaggi guidano la nuova ondata di proteste contro il premier israeliano. Ma non è aria di cessate il fuoco: a Gaza i morti sono oltre 25mila, il 70% donne e bambini
GUERRA A GAZA. Crescono le proteste contro il premier. A Gaza cimiteri profanati, la denuncia di Cnn
Protesta dei famigliari di alcuni ostaggi detenuti da Hamas - Ap
«Dimettiti, chi distrugge non costruirà, chi distrugge non creerà» ha urlato da un palco nel centro di Tel Aviv, Yonatan Shamriz, fratello di Alon ucciso a Gaza «per errore» dall’esercito israeliano. Intorno, una folla di migliaia di persone riunita sotto la scritta luminosa «riportateli a casa» ha chiesto le dimissioni del premier Benjamin Netanyahu e del suo governo, innalzando cartelli con le foto degli ostaggi. «Elezioni subito» gridavano anche a Haifa e a Gerusalemme mentre a Cesarea venerdì notte diverse famiglie del «Forum per la liberazione degli ostaggi» si sono accampate fuori dalla casa vacanze di Netanyahu e sono rimaste lì per tutto il giorno seguente. «Le famiglie sono stufe» si legge in una nota, «chiediamo subito un accordo».
INTANTO LA GUERRA CONTINUA e dei 25 mila morti gazawi dichiarati ieri dal ministero della Salute di Hamas il 70% sono donne e bambini. A dirlo è l’Agenzia dell’Onu che promuove l’uguaglianza di genere, Un women, secondo la quale ogni ora nella striscia muoiono due madri. Inoltre, dall’inizio dell’operazione di terra almeno 3 mila donne potrebbero essere rimaste vedove e almeno 10 mila bambini potrebbero aver perso il padre. Dei 2,3 milioni di abitanti del territorio, si legge nel rapporto di Un women, 1,9 milioni sono sfollati e «quasi un milione sono donne e ragazze». In totale, in 100 giorni di conflitto a Gaza le vittime sono quasi 3 volte superiori a quelle complessive degli ultimi 15 anni. Cifre agghiaccianti che però sembrano non influire in nessun modo sull’andamento del conflitto. Secondo Hamas nelle ultime 24 ore i bombardamenti israeliani hanno lasciato a
Leggi tutto: Basta Netanyahu. Ostaggi, «le famiglie sono stufe» - di Sabato Angieri
Commenta (0 Commenti)ISRAELE/PALESTINA. Dalla Gran Bretagna all'Australia le lotte di sindacati e reti di attivismo anticoloniale si intrecciano. Con milioni di persone in piazza per Gaza, Londra continua nel sostegno armato a Tel Aviv
Dalla Dichiarazione Balfour del 1917 fino al recente rifiuto britannico di sostenere un cessate il fuoco e alla demonizzazione del Bds, le politiche di Westminster evidenziano il ruolo centrale che la Gran Bretagna continua ad assumere al fianco di Israele.
Ciò si è manifestato negli anni nella reticenza britannica nel sanzionare Israele per la sua continua ed espansiva costruzione di insediamenti in Cisgiordania, cresciuti significativamente dai tempi degli accordi di Oslo, portando alla presenza di oltre mezzo milione di coloni in aree che costituirebbero uno stato palestinese. Inoltre, si può osservare attraverso la costante fornitura di armamenti a Israele, con la conseguente complicità nel sostegno dei crimini di guerra israeliani.
IN TALE SCENARIO, il recente assalto su Gaza ha messo in luce due dimensioni fondamentali del colonialismo: da un lato, lo stretto legame tra guerra e commercio, e dall’altro, il carattere internazionale della lotta ai sistemi di oppressione che li sostengono. Effettivamente, forme di resistenza sempre più intersezionali stanno mostrando come forze coloniali e imperialiste continuino a minare gli ordini politici Indigeni a livello globale utilizzando strutture simili (colonialismo d’insediamento, apartheid), tattiche (potere di polizia militarizzato) e tecnologie di violenza per il furto di terre, espansione territoriale, estrazione di risorse, repressione e criminalizzazione della resistenza.
Tali forme di resistenza si impegnano a svelare la violenza intrinseca di operazioni logistiche apparentemente innocue e a bloccare la circolarità dell’infrastruttura coloniale globale in modo tale da interromperne la riproduzione e accelerazione.
In particolare, le vendite di armi in Gran Bretagna sono nuovamente al centro dell’attenzione a causa dell’implicazione dell’harware militare britannico nella perpetrazione del genocidio che si sta svolgendo in queste ore a Gaza. Dal momento in cui il governo conservatore è salito al potere nel maggio 2015, sono state autorizzate vendite di armi per un valore di 472 milioni di sterline alle forze di occupazione israeliane.
Queste includono componenti di vario tipo per apparecchiature militari come aerei, elicotteri, droni, ordigni esplosivi, missili, tecnologia militare, veicoli carrozzati, carri armati, munizioni e armi leggere. Tuttavia, il sistema di licenze che regola questi scambi manca intenzionalmente di trasparenza, il che significa che è difficile determinare esattamente quale sia il reale profitto delle merci negoziate.
Un esempio notevole dell’apporto britannico all’arsenale israeliano è rappresentato dagli aerei da caccia statunitensi F-35 attualmente utilizzati da Israele nell’offensiva a Gaza. Sebbene la legislazione britannica proibisca la concessione di licenze di esportazione di armi in presenza di un «rischio effettivo» di violazione del diritto umanitario internazionale, circa il 15% del valore totale di ciascun F-35 proviene da componenti prodotti in Gran Bretagna.
Delle oltre 400 aziende coinvolte nella catena di fornitura del F-35, ben 79 sarebbero infatti situate nel paese. Ad esempio, Leonardo, una multinazionale italiana con otto stabilimenti in Gran Bretagna, produce il sistema di puntamento laser per l’F-35 a Edimburgo, mentre Rolls-Royce, a Filton (Bristol), è responsabile della realizzazione del sistema di propulsione a ventola LiftSystem per lo stesso aereo. Dal 2003, equipaggiamenti di fabbricazione britannica si trovano anche nei caccia F-16I che costituiscono una delle principali componenti dell’aviazione israeliana impegnata nei bombardamenti su Gaza.
MA MENTRE istituzioni politiche e aziende britanniche continuano a offrire un sostegno incondizionato alla macchina da guerra israeliana, diverse centinaia di migliaia di persone hanno manifestato in molte città del Regno unito per esprimere la propria solidarietà al popolo palestinese, chiedendo un immediato cessate il fuoco, la fine dell’occupazione e lo smantellamento del progetto sionista in Palestina.
La più grande: 800mila a Londra per la Palestina
Da ormai tre mesi, ogni sabato, Londra è teatro di imponenti manifestazioni, culminate l’11 novembre con la presenza di circa un milione di manifestanti che hanno marciato per le strade della capitale. In parallelo, centinaia di persone stanno agendo attivamente per ostacolare la produzione e il trasporto di armi verso Israele.
Rispondendo all’appello di oltre 30 sindacati e associazioni professionali palestinesi di porre fine al riarmo internazionale di Israele e alla complicità con i suoi crimini contro i palestinesi, sindacalisti e attivisti sono intervenuti in siti chiave di produzione e distribuzione di armi nel Regno Unito. Questa serie di azioni dirette ha incluso blocchi da parte di centinaia di sindacalisti presso BAE Systems a Rochester (Kent) e della Instro Precision Systems, una filiale della compagnia israeliana di armi Elbit. Nel frattempo, il gruppo di attivisti Palestine Action è intervenuto contro Leonardo a Edimburgo e presso la sede di Londra, nonché presso il Ministero degli Esteri, in concomitanza con il 106° anniversario della Dichiarazione Balfour.
In risposta dall’appello palestinese, si è registrato un incremento significativo di azioni sindacali anche in altri settori. I membri del sindacato Unite hanno redatto e inviato una lettera aperta alla direzione, mentre diverse sezioni sindacali stanno adottando risoluzioni in segno di solidarietà con la Palestina. Anche uno dei più grandi sindacati britannici, Unison, ha espresso il suo sostegno per un immediato cessate il fuoco, così come l’ Unione Nazionale Lavoratori Ferroviari, Marittimi e dei Trasporti (RMT) ha sollecitato la fine immediata delle ostilità su tutti i fronti, incluso l’assedio di Gaza.
Sindacati indiani: «Solidali con la Palestina. I nostri lavoratori non andranno in Israele»
Parallelamente, studenti e docenti sia nelle scuole che nelle università continuano a manifestare il loro dissenso contro il supporto istituzionale fornito a Israele attraverso assemblee settimanali, proteste, sit-in, walk out, e partecipazione a scioperi internazionali. In particolare, l’Ucu, ovvero il principale sindacato universitario, ha adottato diverse risoluzioni in università come il King’s College London e l’University College London, sottolineando l’urgenza di un immediato cessate il fuoco, il disinvestimento da aziende coinvolte nella colonizzazione sionista della Palestina e la salvaguardia della libertà accademica, enfatizzando la necessità di proteggere studenti e docenti che sono stati soggetti a discriminazione e repressione istituzionale a causa della loro lotta a fianco del popolo palestinese.
MA GLI ATTACCHI all’infrastruttura logistica coloniale capitalista si stanno moltiplicando anche a livello globale. Oltre ai palestinesi, altri gruppi indigeni come i Coast Salish “Water Warriors” hanno fatto notizia per aver raggiunto le acque della tribù Puyallup a bordo della tradizionale canoa Nisqually, bloccando temporaneamente una nave militare statunitense con armi dirette a Israele vicino il porto di Tacoma, Washington.
Centinaia di manifestanti hanno anche bloccato il porto di Oakland (California) in diverse occasioni per opporsi al supporto statunitense ad Israele. Nel Missouri, gli attivisti hanno assediato la fabbrica Boeing, produttrice di munizioni di precisione utilizzate dall’aviazione israeliana durante le operazioni militari a Gaza. Boeing si configura come una delle aziende con maggiore coinvolgimento nell’assalto genocida a Gaza, avendo esportato ben 2,8 miliardi di dollari nell’industria militare verso Israele dal 2000.
Allo stesso tempo, anche fabbriche e porti in Italia, Spagna, Australia, sono stati frequentemente oggetto di blocchi da parte di sindacalisti, in segno di solidarietà con la causa palestinese. Ad esempio, il comitato sindacale autonomo SI Cobas ha dichiarato di opporsi e boicottare la «spedizione di armi a Israele di cui vengano a conoscenza», ribadendo che la «giusta soluzione della questione palestinese […] potrà venire solo dalla lotta comune dei lavoratori del Medio Oriente, di tutte le etnie e religioni, con il sostegno dei lavoratori di tutto il mondo».
Anche Ravenna contro le navi di armi dirette nei porti israeliani
COME sottolinea la geografa Deborah Cowen, in queste lotte contro la logistica, i vecchi nemici dell’impero, ovvero «pirati, comunità indigene, disertori e ribelli» sono tra i gruppi che oggi pongono la sfida più significativa alla sicurezza della circolazione globale.
L’importanza delle loro azioni risiede nel rivelare che nonostante l’infrastruttura coloniale capitalista si presenti come una struttura coesa ed impenetrabile nell’intento di scoraggiare la lotta stessa, la sua vera natura è costituita da una rete fragile di connessioni fluide e suscettibili di cedimento, che può essere effettivamente disarticolata e smantellata attraverso l’azione collettiva. È probabilmente proprio attraverso la solidarietà internazionale di tali gruppi e il legame imprescindibile delle loro lotte che un nuovo futuro decoloniale può essere davvero costruito
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